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Il mio romanzo viola profumato (Jan McEwan)

Un libretto di meno di cinquanta pagine, diviso in due.

Nella prima metà un raccontino delizioso sulla gloria degli scrittori affidata alla casualità, alla nemesi, alla slealtà.

Nella seconda metà una riflessione profonda, sempre con la scrittura leggera di cui McEwan ci delizia anche quando scrive di tragedie, sull’io come forma narrativa.

Da non mancare.

Open (Andre Agassi)

Un gran bel libro, tanto più perchè inaspettato.

Sport: tennis, certo. E anche amicizia, amore, crescita personale, famiglia. Senza mai una sbavatura, un auto-compiacimento.

Un padre tiranno e tuttavia infine rispettato, nelle sue idee fisse e certezze incrollabili. Allenatori amici – grandi veri amici – che lo aiutano a crescere, e non solo nel diventare il numero uno al mondo.

Non dev’essere stato un tipo simpatico, Andre Agassi, nè cerca di esserlo nel libro. Non risparmia frecciate velenose a qualche collega – Pete Sampras, l’eterno rivale, di cui riconosce la superiorità, che dà un solo dollaro di mancia al ragazzo che gli porta l’auto da centinaia di migliaia di dollari – e tuttavia si avverte sempre un grande rispetto verso tutti gli avversari, per la condivisione di un impegno mentale e fisico che in certe partite porta l’organismo oltre i limiti umanamente sopportabili, che comunque sono superati da una riserva di energia che sempre da qualche parte si riesce ad estrarre.

La fatica immane ed il dolore fisico si respirano, sopratutto sugli odiati campi in terra battuta.

Sposerà la più grande tennista di quei tempi, forse di tutti i tempi – Steffi Graf – e scriverà belle pagine di amore, per lei e per i due figli.

Leggendo le fatiche, le delusioni, lo stress, i tormenti di polso e spalla e schiena, ti chiedi se ne valga la pena. Non so rispondere per me, anche se credo che chi ha un talento così grande per qualcosa, per qualsiasi cosa, semplicemente non possa fare a meno di assecondarlo, anche se l’inizio ha significato la negazione dell’infanzia con un padre che lo teneva ore davanti al drago, uno feroce sparapalle autoprogettato.

Tante cadute e tante risalite. Infine i patrimoni di Andre e Steffi dedicati alla costruzione di una scuola per ragazzi che se no non ci andrebbero. Forse per questo è valsa la pena giungere a dover accontentare la schiena, quando serve, e dormire sul pavimento.

La versione di Barney (Mordecai Richler)

Tre mogli: la prima negli anni degli amici di Parigi, la seconda quasi per caso, la terza amore della vita che lo lascerà per un intellettuale perfettino.

Il suo migliore amico scomparso senza lasciare tracce: tutti gli indizi portano a Barney che infatti ne sarà accusato, processato, assolto; ma manterrà su di sè il sospetto per tutta la vita.

Sta tutto nelle prime pagine, non svelo niente. La maestria sta nel portare le tre storie e intrecciarle con la scomparsa dell’amico e con le vicende del quotidiano – Barney è un produttore televisivo che guadagna un sacco di soldi da opere ignobili – ossessionato da due attese: quella che Miriam, la terza moglie, torni da lui, e quella che il suo amico, peraltro abituato periodicamente a sparire, ricompaia.

Nelle ultime pagine il mistero della scomparsa dell’amico sembra svelato, i tre figli litigano fra chi vuole comunque credere alla parola del padre e chi sostiene che si debba cedere a quella che sembra l’evidenza.

Non so che cosa darei per essere capace di scrivere quasi cinquecento pagine e far capire com’è davvero andata nelle ultime quattro righe.

Un godimento continuo, uno di quei libri che prima non vedi l’ora di finire e alla fine rimpiangi di aver finito. Da non mancare.

Corruzione (Don Winsolw)

Con Don Winslow, dopo “Il potere del cane” e “Il cartello”, sapevo di andare sul sicuro e, dopo l’affresco approfondito sul traffico di droga fra Messico e Usa, con le ramificazioni in Nicaragua, Colombia eccetera, mi è piaciuta l’idea di un poliziesco a New York.

I due romanzi sul mondo della droga sono quanto di più violento io abbia letto e temo che, da qualcosa che qui e là si coglie dalle cronache, la realtà non sia più leggera. “Corruzione” punta più sull’intreccio di interessi e scambi di favori, sempre al limite del giuridicamente e/o moralmente accettabile in nome di qualche superiore interesse sociale, facile peraltro a diventare ideologia dietro la quale nascondere il privatissimo guadagno.

I protagonisti sono quattro / cinque poliziotti di una squadra speciale – “Corruzione” è fuorviante, il titolo originale è “The Force”, che è appunto il nome della squadra –
di quelle viste in mille film della serie basta che tenete pulita la città e noi chiudiamo un occhio sui metodi.

Titolo fuorviante non perchè la corruzione non sia al centro delle vicende narrate, ma perchè il tema sono le vite di questi poliziotti, le relazioni fra di loro – ciascuno si deve fidare al 110% di ognuno degli altri quando si fanno certe operazioni – le rispettive famiglie ed amanti. Poi mafiosi italiani e domenicani, Fbi, piccoli spacciatori, Sindaco, Capo della polizia, agenti infiltrati, Procuratore compongono un affresco che riesce a restituire l’insieme dei film e serie tv basati sui processi, i patteggiamenti, gli accordi indicibili, i tradimenti.

Un avviso importante: non leggete i risvolti di copertina che rivelano qualcosa che arriverà, e non era scontato che arrivasse, a due terzi delle cinquecentoquaranta pagine che si leggono d’un fiato.

Il richiamo della truculenza – qui sempre in secondo piano rispetto alla storia – dev’essere troppo forte per Don Wislow, che nelle ultime cento pagine si è sentito in dovere di elargircene una dose che secondo me si sarebbe potuto risparmiare, ma tant’è.

Un capolavoro? No. Nel suo genere, il meglio del meglio.

Benedizione (Kent Haruf)

Dalla prima pagina il richiamo ad Hemingway è irresistibile. Poi vedo che ha vinto il premio Hemingway, che Hemingway è stracitato nelle copertine dei tre romanzi che si svolgono nella immaginaria Holt, Colorado, e mi dico si vede che era troppo facile.

Ci rifletto ancora un po’: un altro richiamo mi si affaccia ed è Raymond Carver. Mi dico allora questo Haruf lo posso forse definire un manierista, che compone pregevoli opere ma senza la nettezza di Hemingway nè la capacità ellittica (che vorrà mai dire “capacità ellittica”? posso solo augurarmi che chi abbia letto Carver ci si riconosca) di Carver.

La trama è di quelle che potrebbe essere “qualsiasi”, cioè quando non conta ciò che accade ma come viene raccontato. Qui i pochi personaggi si muovono in un mondo chiuso, in cui sembra che le cose importanti, solo aleggiate, siano successe a tutti a Denver: il pastore l’ha dovuta lasciare, il figlio vi è scappato…

Per un libro di circa 270 pagine sembra impensabile che, dopo solo qualche decina di pagine, abbia sentito la necessità di farmi uno schemino dei personaggi e delle loro relazioni. Questo per la fastidiosa abitudine di cominciare una frase e proseguirla abbastanza a lungo da costringere a chiedersi di chi sta parlando? senza nominare il soggetto protagonista dell’azione se non al paragrafo successivo, o facendolo dedurre magari dall’interlocutore del soggetto stesso.

Finora sembra solo una critica feroce, lo capisco. Ma la scena di quattro donne, dai 10 agli ottant’anni, che una alla volta e poi tutte insieme si fanno il bagno nude in una larga cisterna dove pure si abbeverano le vacche è di una bellezza e leggerezza da valere tutto il romanzo. Il quale, peraltro, comunque – forse ho esagerato con gli elementi critici – si fa leggere più che piacevolmente.

Sono ancora incerto se continuare con “Canto della pianuta” e “Crepuscolo”.

Mi chiamo Lucy Barton (Elizabeth Strout)

Prima di comprare un libro sempre ne sfoglio qualche pagina, ne leggo qualche periodo, e basta poco per farmelo lasciare lì.

Mi chiamo Lucy Barton non mi aveva respinto e nemmeno granchè attratto. Lo comprai perchè vidi che l’autrice aveva scritto anche Olive Kitteridge, che non ho letto ma dal quale è stato tratto un mini serial televisivo che mi piacque molto.

Questo sarebbe, credo, più difficile da rendere in cinema; o televisione, anche se a me pare che la sovrapposizione cinema/tv sia ormai consolidata, con la sola eccezione delle mega-produzioni da vedere con effetti speciali su grande schermo.

La storia è minima – una figlia al capezzale della madre in ospedale, ricordi… – e, recuperando le mie orecchiette sul margine basso delle pagine, il tema di fondo mi sembra sia una riflessione sullo scrivere, di cui ecco qualcosa:

  • “se uno scrive un romanzo lo può sempre riscrivere, ma se vivi per vent’anni con una persona il romanzo è quello, non lo puoi riscrivere con un altro”
  • “ciascuno di voi ha soltanto una storia, scriverete la vostra unica storia in tanti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola”
  • “se la vostra storia ha un lato debole affondateci i denti e affrontatelo prima che possa accorgersene il lettore”
  • “se mentre scrive questa storia sentirà che sta proteggendo qualcuno, si ricordi: c’è qualcosa che non va”

Direi che è valsa la pena leggerlo – 150 pagine leste leste – anche solo per queste mini perle editoriali.

Nel guscio (Ian McEwan)

Un gioiellino godibilissimo, e mi fermerei qui, perchè McEwan è uno dei più grandi scrittori al mondo.

Ero restio, mi sembrava una trovata ad effetto far parlare in prima persona un feto vicino alla nascita, ma il risultato è un piccolo capolavoro.

I personaggi – lei, lui, l’amante di lei, l’amante di lui, che ci potrebbe essere di più banale? – li conosciamo attraverso il punto di osservazione limitato del nostro protagonista invisibile, che ascolta i discorsi, percepisce i movimenti interiori del corpo della madre, e ci dà modo di avvicinarci ai fatti in maniera graduale, aggiungendo pezzetti di verità passo passo.

È una storia di amore e tradimenti che strada facendo sconfina in un potenziale giallo/noir, i cui protagonisti sembrano assumere le caratteristiche dei delinquenti stupidi dei fratelli Coen, da Il grande Lebonsky a Fargo.

Mi ha richiamato, per il susseguirsi di eventi e di evoluzioni interiori in un tempo e in uno spazio (numero di pagine) limitato, Cecil beach, pure quello un piccolo capolavoro. La grandezza di McEwan sta nella capacità di passare da tragedie (Bambini nel tempo, Giardino di cemento), a irrimediabili contrasti di personalità e cultura (Cecil beach, appunto), a un divertimento come questo Nel guscio, con la stessa resa letteraria.

Il finale, poi, è proprio delizioso.

Da non mancare.

Il simpatizzante (Viet Thanh Nguyen)

Il protagonista ha un talento naturale: è “in grado di considerare qualsiasi punto di vista da due punti di vista antitetici“.

È il talento delle spie, dei doppiogiochisti. Il nostro, infatti, è un comunista vietnamita infiltrato al fianco di uno dei più importanti generali del Vietnam del sud, che seguirà negli Usa in fuga alla rovinosa caduta di Saigon. Da lì continuerà a mandare relazioni segrete sui tentativi dei reduci irriducibili di tornare a lottare per la liberazione, fino a rientrare egli stesso e a incontrare gli effetti della realizzazione rivoluzionaria.

Viet Thanh Nguyen è un professore universitario di letteratura, ed è l’ennesimo esempio – la prima folgorazione l’ebbi con lo straordinario “I versetti satanici” di Salman Rushdie- di come l’incrocio di culture sia il più fecondo mezzo per far emergere qualcosa di originale.

Quanti film avremo visto sulla guerra del Vietnam? Beh, mai mi sono sentito così dentro alla paura alla polvere alla confusione al sangue alla disperazione al sudore come nella descrizione dell’assalto agli ultimi posti per lasciare Saigon mentre i vietcong hanno sfondato tutte le resistenze e stanno entrando in città.

Un sottofondo permanente di dolente ironia permette una descrizione quasi leggera di torture e ammazzamenti.

Il tema, comunque, non è la storia della guerra del Vietnam, ma la condanna alla mancanza di identità di quest’uomo doppio, generato da una donna vietnamita e da un prete bianco, che riflette a sua volta il dramma di un paese separato da una riga tracciata sulla carta geografica. La sua tragedia è quella di un popolo riunificato a prezzo di infiniti – e alla fin fine inutili, superflui – orrori.

Premio Pulitzer 2016. Da leggere.

Zero K (Don Delillo)

La giovane moglie ha una malattia incurabile che la porterà presto alla morte.

Il vecchio marito è uno degli uomini più ricchi del mondo. Finanzia un progetto, in uno degli stati caucasici ex sovietici, in cui si può essere congelati ancora vivi con la prospettiva di riemergere quando si potrà essere curati.

Il vecchio marito è molto innamorato e non vuole sopravvivere alla giovane moglie. Perciò, pur essendo ben sano, sceglie di uscire insieme alla giovane moglie dalla vita presente, per avviarsi ad un incerto e improbabile futuro di rinascita.

Chi racconta è il figlio di lui.

Delillo sceglie la fantascienza borderline – e riesce a rendere credibile, senza bisogno che si affanni alla verosimiglianza, l’impianto in cui i corpi diventano non-corpi destinati ad un futuro inattendibile – per trattare la vita, la morte, l’amore.

L’ultimissima pagina dice di uno spirito inguaribilmente romantico.

Tanto di cappello, ancora una volta.

Eccomi (Jonathan Safran Foer)

L’ho comprato per ragioni opposte: la segnalazione da parte di uno scrittore, una stroncatura su “Internazionale” così netta (una pallina su cinque) da mettermi in curiosità.

Avevano qualche ragione entrambi.

Più di seicento pagine di un libro per il quale la prima sintesi che mi è venuta è stata “esageratamente ebraico”. Perchè se è vero che lo spunto iniziale è il bar mitzvah (la festa di passaggio all’età adulta) del secondo di tre figli di una coppia di facoltosi intellettuali newyorkesi, che il bar mitzvah è anche l’occasione per l’arrivo a New York degli zii e cugini da Israele, dove un terremoto dà inizio ad una serie di catastrofi, però il fulcro del romanzo è la crisi di questa coppia.

E non c’era proprio bisogno di scomodare le sacre scritture per descrivere lo sfaldarsi di una relazione fra un acclamato autore di serie televisive – il massimo dell’intellettuale del momento – e un’architetta di successo.

Tutto origina, poco originalmente, da alcuni sms captati per caso, dei quali nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se solo di parole scritte si tratta o di fatti, ai quali segue una ripicca della quale pure nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se consumata o solo avvicinata.

Come – con ben altro spessore, e in un terzo delle pagine – in Cecil Beach di McEwan, la crisi precipita quasi senza la volontà di alcuno, e una famiglia con tre figli ben cresciuti ed alla quale non manca niente, esplode in modo insensato, senza uno straccio di tentativo di riparazione.

Le famiglie – le coppie – esplodono sì anche per occasioni futili, ma il lettore si aspetta di almeno poter intuire che cosa ci potesse essere dietro, sotto, sul fondo. Invece nessun indizio viene fornito, e forse non ce ne sono, e forse l’autore ha solo voluto fare sfoggio di bravura della serie scrivo così bene che vi faccio passare qualsiasi cosa,

Perchè, a scrivere bene scrive bene, se no non sarei arrivato a finire le seicento pagine (che se non ricordo male sono più vicine alle settecento che alle seicento).

Ma l’ambientazione ebraica è giustapposta al nucleo narrativo, non è “necessaria”, e francamente di questo ebraismo newyorkese, presente in tanti romanzi film e serie televisive, ne ho un po’ piene le scatole, convinto che sia sovraesposto rispetto alla realtà.

I dialoghi interminabili, con la inutile pretesa di farli apparire “veri”, nel senso di riprodurre le ripetizioni del linguaggio parlato, coprono almeno un quarto delle pagine. Ed hanno un difetto davvero grave: dal vitalista quasi animalesco zio d’Israele al nonno stra-anticonformista al ragazzino di tredici anni tutti parlano allo stesso modo: intelligente, capace di spaccare il capello in otto, ironico nel modo giusto, allusivo quanto basta eccetera.

Il libro è anche l’occasione per esaminare da vicino le infinite contorsioni dialettiche fra stare in Israele è un dovere per un ebreo e meglio scapparne prima possibile.

Lo consiglierei? Sì, con tanti distinguo, gran parte dei quali sono esposti qui sopra.