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Bianco (Bret Easton Ellis)

Bret Easton Ellis è diventato famoso a poco più di vent’anni con American Psyco, che considero uno dei migliori romanzi che ho letto. Ne ricordo pagine deliziose su questi tagazzi strapieni di soldi che confrontano di chi sia il biglietto da visita più bello, quello con il tono perlato più azzeccato. E che ci “soffrono”, se non è il loro.

Questo non è un romanzo. Sono una serie di saggi che partono dall’esperienza personale dell’autore per smontare tutto il political correct possibile, in nome dell’autenticità del proprio sentire, anche quando può risultare sgradevole agli altri.

Direi che BEE porta all’estremo l’aspirazione, che dovrebbe essere di tutti, all’autenticità, nel senso che non solo se parla dice quello che effettivamente sente – e fin qui ci saremmo – ma che lo fa senza quasi porsi limiti, e cioè dice tendenzialmente SEMPRE che cosa pensa.

A volte tradisce confidenze, mette a disagio cari amici, eccetera.

Mettiamo pure che ha una condizione sociale che glielo permette, anche se questo non è sempre vero, perchè per quanto tu sia ricco se poi ti perdi gli affetti e le relazioni poco ti resta.

Sono descritte beffe divertenti, come un articolo per Vanity Fair, commissionato per individuare i posti fichi per i giovani di LA, dove BEE descrive una serie di posti scelti totalmente a caso che poi diventano posti fichissimi.

C’è poi la parte della comunità gay – BEE è gay – in cui a quanto pare vigono regole rigide circa che cosa si può o non si può dire. Le osservazioni che fa le estende al mondo dei social, e alla terribile tendenza ai reputation managers, gente che viene retribuita per creare un’identià “relazionabile”.

Quando parla di Sinatra, delle sue innumerevoli cadute e ritorni, BEE si rende conto che oggi non sarebbe più possibile, perchè oggi qualsiasi passo falso diventa uno stigma per la vita; e qui tutta la vicenda Mee to e i crociati anti Trump che hanno cancellato dai loro contatti chiunque abbia espresso il minimo dubbio sul dover essere anti Trump.

Insomma, BEE non dev’essere uno proprio simpatico e non dev’essere facile stargli vicino o essergli amico, ma queste pagine sono un concentrato di intelligenza e di libertà di giudizio: tanto di cappello. E la scrittura è sempre superba.

La verità sul caso Harry Quebert (Joël Dicker)

Una quindicenne scomparsa della quale trent’anni dopo si ritrova il cadavere, sepolto nel giardino di un famoso scrittore, che sarà accusato dell’omicidio.
Un famosissimo scrittore giovane, di cui lo scrittore famoso è stato mentore, si precipita dall’amico per tentare di scagionarlo.

Settecentocinquanta pagine.

Le ho lette tutte. Difficilmente lasceranno traccia. Che la scrittura sia piana e scorrevole è un prerequisito per questo tipo di pubblicazioni volte a far passare piacevolmente il tempo.

Il tema più interessante è quello della scrittura sulla scrittura: lo scrittore è diventato famoso per un libro che parlava dell’amore per la ragazza morta, il giovane scrittore famosissimo scriverà un libro sulla vicenda dello scrittore famoso ingiustamente accusato. Con in mezzo il feroce editore che vuole la consegna entro la scadenza contrattuale prevista.

Il giallo, invece, mi è risultato proprio irritante, con una quantità – una quantità – di situazioni assurde durante la ricerca della verità e un finale con colpi di scena a ripetizione alcuni dei quali basati sull’aver l’autore imbrogliato il lettore, e questo non lo considero perdonabile.

Comunque si fa leggere, se ci si adagia nella posizione di accettazione incondizionata delle astruse costruzioni dell’autore e non si cerca logica nè coerenza.

Ne è stata fatta una riduzione per una miniserie TV: possibile che fosse la vocazione originaria.

Il sussurro del mondo (Richard Powers)

Un miliardo e mezzo di anni fa, vi siete separati, ma persino oggi, dopo un viaggio immenso in direzioni diverse, voi e il vostro albero condividete un quarto dei vostri geni.

Le seicentocinquanta pagine e la tematica “ecologica” (che noia!) non mi ci avrebbero mai fatto avvicinare, se non fosse stato per il consiglio di un amico, suggellato dal premio Pullizer.

Una volta aperto, si rivela uno di quei libri che non vedi l’ora di riprendere per vedere come prosegue, combattuto fra il piacere di continuare e la tristezza di vedere le pagine mancanti che diventano sempre meno.

I primi capitoli sono le storie – ciascuna un racconto compiuto – di alcuni personaggi che, nei modi più diversi, nei luoghi più diversi, nella loro vita hanno o hanno avuto a che fare con un albero, o una foresta, o un piccolo parco.

Nella seconda parte questi personaggi incrociano le loro vite. Qualcuno per scelta consapevole, qualcuno perchè ci si trova dentro e sceglie di restarci.

L’episodio centrale è un’epica lotta per salvare una sequoia pluricentenaria, alta novanta metri, sulla quale è stata installata una piattaforma che funge da alloggio e riparo per chi la vuole difendere dall’abbattimento.

La descrizione delle stupide e sagacissime trovate per rallentare le distruzioni e delle piccole e grandi crudeltà – peraltro (quasi) tutte “secondo legge” – messe in campo per fiaccare la tenacia di chi resiste ti fa essere presente sul posto, ti fa gridare “dai resisti ancora, smetteranno e vincerai!” oppure “ormai basta, non ce la puoi fare, accontentati, hai dimostrato ciò che volevi, ne parlano tutte le televisioni!”.

Sanno di essere destinati alla sconfitta certa, renderanno dura la vita più che potranno ai taglialegna tecnologizzati.

Non si rassegneranno, perchè la voce degli alberi ha parlato loro, perchè hanno intuito il senso delle infinite connessioni sotterranee di radici, e andranno oltre, con attenzione, applicando conoscenze specialistiche, nella consapevole illusione di continuare una lotta persa in partenza.

I destini umani di ciascuno si svolgeranno secondo disegni illogici, come è la vita vera: il più rigoroso tradirà, il più improbabile sceglierà una coerenza inconcepibile per i suoi affetti più cari.

Un libro epico. Finito di leggerlo, guardo gli alberi con occhi diversi, sorrido alle radici dei pini di Roma che piegano l’asfalto: noi non ci saremo più, loro sì.

Da non mancare.

Qualche spigolatura:

le ragazze dicono il contrario di quello che intendono, per verificare se afferri la loro vera natura. Cosa che vogliono. E poi, quando ci riesci, si offendono

Il geniettio dell’informatica davanti all’insegnante; “Sa perchè lei lo odia. Quelli come lui la porteranno all’estinzione

Story / Dialoghi (Robert McKee)

Nel tempo, ho letto tutto ciò che mi è capitato circa come si scrive, il senso dello scrivere, eccetera: dalle Lezioni americane di Calvino a Carver, Yehoshua, Piperno, Franzen, Vargas LLosa, Patricia Highsmith e altri che ora non ricordo.

Ho letto anche testi su come si scrive una sceneggiatura, come si racconta una storia, sulla struttura dei miti riconoscibile in ogni drammaturgia.

I due volumi di Robert McKee sono quanto di meglio possa desiderare chi abbia di questi interessi, direi proprio che saziano.

I concetti fondamentali sono essenzialmente pochi, e sono esattamente esposti all’inizio di ognuno dei due testi, che procedono a spirale: un concetto alla volta viene ripreso, spiegato, esemplificato.

Ogni ripetizione si arricchisce di contenuto finchè il concetto acquista una forma, un colore, diventa sudore, fatica e, infine, soddisfazione.

Se un concetto ho trovato espresso con più forza e originalità che in qualsiasi altro testo, questo è la necessità che, chi scrive, sia capace di stare davvero dentro non solo al protagonista, ma ad ogni singolo personaggio, con carne e sangue, con il corpo, non solo con l’intelletto.

Come non mai mi sono reso conto che la buona, l’eccellente scrittura, non è di per sè sufficiente a scrivere un buon testo.

L’analisi dei dialoghi di Lost in traslation (Sofia Coppola), la straordinaria capacità di dire tanto con il minimo delle parole, mi ha fatto venir voglia di rivedere, forse per la terza o quarta volta, uno dei film che più amo. Attenzione: per chi scrive racconti, o romanzi, le osservazioni di McKee sono altrettanto utili che per chi scrive sceneggiature.

Da non mancare, per chi vuole imparare anche qualcosa su di sè, circa il piacere e la dannazione di scrivere.

E poi siamo arrivati alla fine (Joshua Ferris)

Scritto in prima persona plurale, ad intendere non qualche “tu ed io”, come nelle ultime pagine potrebbe sembrare – in realtà è rimasto un solo personaggio in scena – ma un gruppo di pubblicitari annoiati e strapagati. Preoccupati di licenziamenti incombenti, di mutui da pagare e in generale di status da mantenere, eppure tenacemente attaccati al chiacchiericcio da macchinetta del caffè, ore a discutere circa la legittimità di essersi qualcuno appropriato della sedia dell’ultimo licenziato e della perfidia organizzativa di aver reso individuabili le sedie con un numero di riconoscimento.

Anche un forse-cancro sarà oggetto di ipotesi, argomentazioni, lunghe dissertazioni circa le intenzioni della forse-malata e circa che cosa sia giusto e utile fare rispetto ad una forse-paura che impedisca alla forse-malata di farsi curare ma non potrebbe essere che la voce l’abbia messa in giro lei stessa per vedere come avremmo reagito o per prenderci in giro e così via di questo passo su ogni avvenìmento significativo o del tutto irrilevante sul quale quel micromondo si avventa ogni giorno.

All’inizio ho faticato un pochino ad entrare, ero un po’ annoiato da questi dibattiti sul (forse) niente, poi sono stato preso dalla progressiva forma che ciascuno dei personaggi, all’inizio quasi indistinti, veniva prendendo, dal divertimento delle situazioni alcune fra il tragico e l’esilarante, ammirato dalla capacità di far passare il lettore da uno stato emotivo ad un altro, e del tutto fluidamente, con una sola frase o anche una sola parola.

L’autore è fortemente ambivalente verso i suoi personaggi, non li ama ed è tuttavia indulgente, quanto basta a rendere il libro godibile fino alla fine.

Invito a cena (Joshua Ferris)

Quancuno che considero affidabile e che, ahimè, non ricordo chi fosse, mi aveva consigliato un romanzo di questo Joshua Ferris. In libreria quel romanzo non l’ho trovato, e così mi sono detto intanto compro questo.

Mi sono accorto solo a casa che non di un romanzo si trattava ma di una raccolta di racconti, e me ne sono accorto solo quando ho finito il primo. Mi sono alquanto innervosito, perchè sulla copertina non ce n’è traccia, e questo lo trovo scorretto. Va bene, sono stato anche io negligente, sarebbe bastato sfogliarlo, ma insomma le informazioni essenziali dovrebbero stare in copertina.

Tutta questa premessa per dire che in questa fase una raccolta di racconti non l’avrei mai comprata, e invece, dopo Hemingway, questo è per me il miglior libro di racconti che abbia letto: undici racconti uno meglio dell’altro, non ce n’è uno “più debole”, tutti acidi e intelligenti, niente di superfluo, molti spazi lasciati da riempire al lettore ma mai gratuitamente. Una bella e soddisfacente lettura.

Per il mio recente compleanno mi hanno poi regalato “E poi siamo arrivati alla fine”, che era proprio quello che mi era stato consigliato e che presto leggerò.

Ogni cosa è illuminata (Jonathan Safran Foer)

Avevo il ricordo vago di un bel film, diretto da un attore che stimo molto: Liev Schreiber, protagonista de “Il candidato della Maciuria” e, più di recente, dell’ottima serie “Ray Donovan”.

Tanto di cappello a Foer che lo ha scritto a venticinque anni. Tanto di cappello perchè è un esercizio di bravura che da una parte difficilmente ti aspetti da uno così giovane ma che, riflettendoci meglio, ti aspetti proprio da uno così giovane.

Si tratta della ricerca, a partire da una sola foto e da un vago riferimento geografico ucraino, di una donna che salvò dai nazisti il nonno del protagonista, e cioè lo stesso scrittore con nome e cognome.

La bravura sta nel linguaggio con cui l’intraprendente e improbabilissima guida ucraina Alex, che si deve pure barcamenare fra un nonno ed un padre caciaroni e oppressivi, si rivolge al protagonista: immagino i salti mortali del traduttore Massimo Bocchiola, che qui merita assolutamente una citazione di merito.

Un esempio da una pagina aperta a caso: “Io ho roteato verso l’Eroe e ho detto: tu non hai mai adocchiato una cosa tale e quale”.

Divertente per cinque, dieci pagine, ma tanto tanto pesante. Tanto pesante che oltre pagina centonovanta (sono trecentosessantaquattro) non ce l’ho fatta a proseguire.

Foer è l’autore anche di Eccomi, qui recensito

Less (Andrews Sean Greer)

Uno scrittore bravino ma rimasto di media tacca ci fa fare il giro del mondo fra un premio, un’intervista, un incarico per un articolo e altre attività proprie di un intellettuale integrale.

Il viaggio è anche un modo per sfuggire al per lui fatidico compimento dei cinquant’anni senza essere diventato nè ricco nè famoso, e per evitare di essere presente al concomitante, con il compleanno, matrimonio dell’amore della sua vita con un altro.

Molto gradevole, per la parte che riguarda l’Italia suona vero, senza gli stereotipi soliti, e ciò mi ha reso credibili anche le altre ambientazioni.

Sembra che a questi intellettuali integrali riesca quasi ad ogni tappa di instaurare una relazione a perdere: sarà perchè fra omosessuali maschi questo è più facile o più credibile? Me lo sono chiesto, mi sono chiesto che ragione ci fosse di disegnare il protagonista come omosessuale, e mentre me lo chiedevo mi dicevo ma non è che per il fatto che tu (io che scrivo qui) te lo chieda ti fa omo de pregiudizio?

Francamente non mi ci riconoscerei. Mi rinforzo però nella convinzione, che se qualcuno mi leggesse mi farebbe etichettare come politicamente scorrettissimo, che omosessuali ed ebrei (qui non c’entrano ma vale in generale per letteratura e cinema) siano sovrarappresentati rispetto alla effettiva presenza nel mondo. È solo un’impressione, non dispongo di dati, e se mi chiedo da dove mi venga questa impressione devo rispondere che mi viene dalla mia – forse troppo banale – esperienza di vita.

“Storia di un matrimonio” era più profondo, qui si è più divertito, e questo è un bene perchè mi sono divertito anche io.

Non ci sono solo le arance (Janette Winterson)

Una ragazza adottata, con una madre fanatica religiosa che l’ha destinata a fare la missionaria, e la scoperta di amare le donne.

Lo scandalo, l’esorcismo, la scelta dell’autonomia, la ripresa di contatto con un mondo immutato.

Scritto – ho letto solo dopo che si tratta in gran parte di un’autobiografia, se no probabilmente non lo avrei scelto – senza rancore, con qualche arguzia. Non il capolavoro di cui da qualche parte avevo letto: a distanza di poco tempo ne ricordo poco, e questo per me è uno dei criteri per misurare se non il valore di un romanzo, certamente l’effetto che ha avuto su di me.

L’estensione ignota dei miei bisogni mi spaventa. Non so quanto grandi siano o quanto alti, so solo che non vengono soddisfatti

Più lontano ancora (Jonathan Franzen)

Una raccolta di articoli, riflessioni, presentazioni.

Una miniera di indicazioni di libri da leggere. O da non leggere.

Le pagine dedicate all’amico David Foster Wallace restituiscono la grandezza dello scrittore e la sua pochezza umana senza che l’amicizia vacilli.

“La narrativa autobiografica” è uno dei testi più interessanti e veri che ho letto sullo scrivere, da parte di chi scrive. Ecco le quattro domande – “il prezzo che dobbiamo pagare per il piacere di apparire in pubblico” – antipatiche alle quali tocca rispondere:

1. Da quali autori ti senti influenzato?
2. In quale momento della giornata lavori, e come scrivi?
3. Succede anche a te che i personaggi prendano il sopravvento e ti dicano cosa fare?
4. La tua narrativa è autobiografica?

Una chicca a caso: “L’homo sapiens è l’animale che vuole credere, a dispetto della dura legge naturale, che gli altri animali facciano parte della sua famiglia. Potrei presentare ottimi argomenti etici a favore della nostra responsabilità verso le altre specie, eppure a volte mi chiedo se, fondamentalmente, la mia preoccupazione per la biodiversità e il benessere degli animali non sia una specie di regressione alla mia cameretta di bambino e alla sua comunictà di pupazzi di peliche: un sogno di coccole e armonia fra le specie.”