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Crossroads (Jonathan Franzen)

Crossroads è il nome di un gruppo giovanile, animato da Ambrose, giovane prete carismatico di cui Russ, prete un po’ più grande di Ambrose, è geloso, proprio perchè ha sui ragazzi l’ascendente che lui non riesce ad avere.

Russ vivrà molto male che la figlia Becky entri in Crossroads, dopo che uno scontro fra i due preti si è concluso con l’uscita di Russ dal gruppo.

Crossroads è quel tipo di ambiente – siamo nei primi anni ’70 – in cui ci si abbraccia, ci si parla sempre sinceramente e si è sollecitati ad esprimere le proprie emozioni senza temere giudizi, certi dell’accoglienza del gruppo.

Marion è la moglie di Russ, fra i due ci sarà una crisi coniugale che produrrà cambiamenti profondi e qualche confessione, sul presente e sul passato. Clem è il figlio maggiore di Russ e Marion, l’unico ateo, che vuole partire per il Vietnam quando ormai il ritiro è vicinissimo. Perry è il figlio geniale.

In più di seicento pagine Franzen, senza che ci sia una morte, né un aborto, né l’improvvisa apparizione di qualcuno ritenuto morto, né la scoperta di chissà quale delitto in qualche passato, insomma senza nessuno degli stratagemmi che gli scrittori usano per dare drammaticità al racconto, fa fluire amori, tresche, gelosie, rifugio nelle sostanze, infine le storie dei componenti della famiglia Hildebrandt e della comunità in cui sono inseriti.

La profondità dell’analisi psicologica dei personaggi è quella dei grandi romanzieri russi, ma mentre i russi, vado a ricordi generici, tendevano a produrre “scarti emotivi” nei personaggi, Franzen ci dà tutta la gamma dei passaggi interiori. Viene esplorata in profondità, in particolare, la ricerca di senso delle proprie azioni, sull’asse egoismo / generosità in rapporto alla imperscrutabile volontà divina. Alcuni arrampicamenti possono sembrare una presa in giro, ma posso testimoniare dell’esistenza, nella realtà, di tali drammi esistenziali.

“… ciò che la gente chiamava senso di colpa ma che in realtà era solo il desiderio egoistico di non venire considerati cattivi.”.

“Godere del tuo potere e sentirti buono perché te ne preoccupi. Essere uno stronzo e congratularti con te stesso perché lo ammetti ‘sinceramente’”.

Le correzioni” girava intorno all’eventualità che una famiglia dispersa riuscisse a radunarsi per un Natale, “Crossroads” finisce il giorno di Pasqua, con ogni personaggio in una posizione diversa da quella in cui l’abbiamo inizialmente conosciuto, ma senza resurrezioni consolatorie.  

Apeirogon (Colum McCann)

Abir è una bambina palestinese di dieci anni che va a comprare le caramelle e viene colpita alla testa da un proiettile di gomma sparato da una camionetta con dentro soldati israeliani. Morirà dopo qualche giorno.

Smadar è una ragazza israeliana di tredici anni che muore in attentato suicida al centro di Tel Aviv.

Bassam Aramin è il padre di Abir, Rami Ethanan è il padre di Smadar.

Ognuno dei due uomini ha un proprio percorso, e ne comincia un altro dopo la morte della figlia. A un certo punto i due percorsi si incontreranno, i due uomini diventeranno amici e andranno, quando insieme quando individualmente, a girare il mondo per parlare di pace.

Il romanzo è spezzettato a piccoli e piccolissimi capitoli, come a rappresentare anche letterariamente la scomposizione nell’anima di un uomo che si trova di fronte al peggiore evento che possa mai aver immaginato per la propria vita. Ed è tuttavia un romanzo in cui la ricomposizione umana va in parallelo con la ricomposizione formale.

I due fatti sono narrati a cerchi concentrici: da una parte il lungo viaggio, disseminato di ostacoli di ogni genere, per arrivare dal territorio palestinese all’ospedale israeliano dove la bambina sarà accolta e curata, dall’altra la ricerca affannosa della figlia, che “non poteva” stare nella zona dell’attentato.

In entrambi i casi con il coinvolgimento dei parenti, degli amici, ciascuno che cerca una notizia, porta un conforto, una maledizione.

Quando i due uomini arriveranno alla decisione di esporsi pubblicamente a favore della pace, riceveranno, dalle rispettive comunità, qualche comprensione e molte critiche e accuse di tradimento. Andranno avanti.

Il romanzo è inframezzato da parti quasi saggistiche, sulla storia della nascita dello stato di Israele e della Palestina, con una quantità di notizie sugli interventi di artisti e di politici, a restituire al lettore il contesto storico in cui sono maturate quelle due tragedie. Il progetto è riuscitissimo.

Colum McCann è di Dublino, e ne sa qualcosa dei conflitti infiniti fra popoli che vivono sulla stessa terra.

“Apeirogon” è una figura geometrica ideale: un poligono con un numero infinito di lati di lunghezza qualsiasi.

Da leggere, senza alcun dubbio.

Perle ai porci (Kurt Vonnegut)

A una Fondazione costituita con l’intenzione di non pagare tasse sugli enormi capitali della famiglia Rosewater viene messo a capo Eliot, figlio bislacco, considerato un innocuo paravento.

Eliot è un uomo stravagante, beve, fa il pompiere e, quando si rende conto di che cosa ha fra le mani, apre un ufficio, nella cittadina moribonda dove cominciò la fortuna della famiglia, e ci appende un cartello “Come possiamo aiutarvi?”. Basta chiedere, basta dichiarare un bisogno e la Fondazione diretta da Eliot provvede.

Come è facile aspettarsi, la famiglia Rosewater farà di tutto per estromettere Eliot, che sta dilapidando il capitale. Ma Eliot sarà un osso molto duro, e una clausola del regolamento dice che la titolarità della Fondazione si trasmette per via ereditaria, perciò…

Capita di trovare i libri di Vonnegut nel settore fantascienza, perché i suoi più famosi sono Mattatoio 5 e Ghiaccio 9, dove la fantascienza non c’entra proprio, ma tant’è. Vonnegut è uno scrittore che, in tutti i suoi romanzi, porta al paradosso estremo i principi su cui si regge la way of life usa, e riesce sempre a farlo strappandoci un sorriso amaro.

Il sorriso si spegne, tuttavia, quando ci troviamo anche qui (è la parte centrale di Mattatoio 5) dentro – esattamente “dentro” – al brano che descrive il bombardamento a tappeto di Dresda.

Vonnegut vale la pena di leggerlo e rileggerlo, senza riserve.

Il militante (Viet Thanh Nguyen)

Tanto mi era piaciuto “Il simpatizzante” che ho voluto leggere anche il seguente “Il militante”.

Il protagonista è lo stesso, ma stavolta ha ottenuto, insieme al fratello di sangue Bon, il diritto di asilo in Francia e perciò, invece che in California al seguito di un ex generale vietnamita, lo ritroviamo a Parigi, negli anni ottanta.

Il ritratto della zia vietnamita, inserita appieno nel gauchisme intellettuale parigino è quanto di più godibile. Sarà la zia, amica del Boss, pure lui profugo vietnamita, a introdurre il nostro protagonista nell’industria dello spaccio, con il contorno di avventure fra bande rivali, equivoci, massacri.

Tutto raccontato con estrema leggerezza e ironia.

Come in California la guerra del Vietnam era continuamente presente, così a Parigi non mancano i retaggi della guerra d’Indocina di vent’anni prima, con le conseguenze sulle personalità degli esuli che cercano un modo diverso di stare al mondo, lontani dalla cultura d’origine, della quale non hanno certo nostalgia, e tuttavia decisi a non farsi inglobare dalle culture di adozione, delle quali osservano con occhio – e scritto – feroce le storture.

Godibile, come il precedente.

La banda dei brocchi (Jonathan Coe)

Di Coe avevo letto “La casa del sonno”, che mi aveva lasciato con molte perplessità.

Un’amica che stimo ha da poco scoperto Coe, ne è entusiasta e ne sta leggendo i romanzi uno dopo l’altro. Mi son allora detto che potesse valer la pena riprovare.

In libreria, insieme con un’altra amica, le ho chiesto che cosa ne sapeva, mi ha detto che i romanzi più famosi sono “La famiglia Winshaw” e questo. Ho scelto questo perché con meno pagine e mi sono riservato, se mi fosse piaciuto, di leggere poi l’altro.

Sono le storie di un gruppo di ragazzi nel periodo delle scuole superiori, con intermezzi che coinvolgono i rispettivi genitori e insegnanti. Si è fatto leggere, ma arrivare alla fine mi è stato faticoso. Veramente anche all’inizio è stato faticoso, perché prima di pagina 80 (sono 376) ho avuto il bisogno di farmi uno schema dei personaggi e delle loro relazioni, per fissare chi era amico di chi, chi figlio di chi eccetera. E non è che siano decine, solo che Coe può chiamare lo stesso personaggio con il nome, con il cognome o con un soprannome o un diminutivo, altamente fregandosene della fatica del lettore a stargli appresso. Sono un fautore della responsabilità del lettore di stare attento a quello che legge, ma qui si tratta di avere rispetto del lettore.

La trovata grafica di scrivere l’ultimo capitolo in modalità “allineato a sinistra”, e perciò con i margini a destra non allineati, per sottolineare una specie di flusso di coscienza dentro al quale uno dei personaggi chiude un po’ tutte le sottotrame è, appunto, una trovata, che non aggiunge sostanza e appare più un esercizio di bravura.

È valsa la pena leggerlo per le venti pagine del racconto di una vacanza in Danimarca. Tuttavia, avulse dal contesto, tanto che vengono proposte come il racconto scritto da uno dei protagonisti – Benjamin, l’intellettuale del gruppetto – e ritrovate. Ci sono tratti un cui arriva il bagliore di un’emozione, ma la “costruzione” a me sembra sempre prevalere sul vero sentimento. L’impressione è che a Coe importi poco dei suoi personaggi.

Insomma, senza farla tanto lunga, non leggerò anche “La famiglia Winshaw”. Non che “La banda dei brocchi” sia di quei romanzi da evitare – ce ne sono – ma si vede che Coe è uno di quegli scrittori con i quali non mi nasce un feeling, e con questo bisogna fare pace.

Il decoro (David Leavitt)

David Leavitt è l’autore dell’ottimo “Il matematico indiano“.

Questo “Il decoro” è una divcrtente e a tratti insopportabile – direi resa volutamente insopportabile dall’autore – descrizione dello stato di totale smarrimento in cui sono caduti un gruppo di amici newyorkesi, intellettuali più che benestanti anche se non straricchi, dopo la vittoria di Trump del 2016.

Mi capitò, proprio ai primi di novembre 2016, di trovarmi ospite di un gruppo di americani che, in occasione del compleanno di qualche loro parente spagnolo, avevano preso in affitto, avendo già votato per corrispondenza, una bella casa nobiliare nel sud della Spagna. La notizia della vittoria di Trump li letteralmente prostrò. Intendiamoci, anche io ero preoccupato e incredulo, ma loro erano proprio persi. Uno scrisse subito su Facebook che chiunque avesse votato Trump glielo facesse sapere che lo avrebbe cancellato dai suoi amici e dalla sua vita.

Ecco, l’ambiente descritto da Levitt mi ha richiamato quella situazione. Qui, al centro delle vicende c’è una casa a Venezia, Italia, che un’amica di Eva deve vendere per necessità e che Eva vuole assolutamente comprare, ora anche per sfuggire al clima irrespirabile del nuovo contesto prodotto dalla vittoria di Trump.  Anche se Eva non ha votato perchè al seggio c’era troppa fila.

Bruce, il marito di Eva, tende ad assecondare, anche perchè si sente in colpa per la giovane amante che non riesce a gestire, i desideri e talvolta i capricci di Eva, ma stavolta la spesa potrebbe essere eccessiva. Anche perchè la casa andrà ristrutturata ed Eva si affida a nessun altro che all’arredatore principe di New York, il quale ovviamente è pieno di impegni.

Altre vicende e personaggi scorrono, con dialoghi sempre gustosi, come quando Eva confida la sua preoccupazione a un’amica per lo stato di agitazione dei loro cani che, da quando Bruce li porta a spasso insieme ai cani del vicino Alec, che ha votato Trump e ha fatto addirittura una festa proprio davanti a casa loro, hanno assorbito le energie negative che il vicino ha trasmesso ai suoi cani.

Alec, nel chiacchierare con Bruce, gli dice voi democratici siete come quei pazzi che si prendono una jena come animale di compagnia e poi, quando la jena vi strappa la faccia a morsi, la vostra preoccupazione è che potrebbe non darvi una seconda possibilità di conviverci: campate male perchè trasformate la vostra paura in colpa!

Insomma, credo che renda bene un certo ambiente, probabile brodo di cultura, immagino, delle parti eccessive del metoo e della cancel culture. Un libro godibile, infine.

Karoo (Steve Tesic)

Uno sceneggiatore di successo in permanente fuga da se stesso

Karoo è uno sceneggiatore di grande successo: i suoi interventi sono considerati miracolosi nel riuscire a rimettere in piedi un film zoppicante, nel far diventare un grande successo quella che poteva essere una storiella, nel rendere almeno accettabile qualcosa di penoso.

Per qualche mistero della chimica e della fisica, a un certo punto della sua vita Karoo può bere senza limite e senza ubriacarsi ma, siccome tutti lo conoscono come “uno che beve”, finge ogni volta di essere ubriaco per compiacere gli interlocutori e non indagare oltre circa il suo corpo.

La caratteristica principale di Karoo è la mancanza di un bypass fra se stesso e la realtà.

Questo può essere osservato attraverso due, complementari, modalità comportamentali: in certe circostanze sa esattamente che cosa davvero vuole ma agisce altrimenti; in altre, sa esattamente che cosa l’altro si aspetta da lui, glielo promette, glielo giura, e fa regolarmente altro.

Karoo, in effetti, riscrive continuamente la sceneggiatura della sua vita.

Con la quasi ex moglie, che lo conosce a fondo e lo svela senza pietà – il capitoletto che parte da pag. 282 è un capolavoro a se – ha un divorzio in corso senza che si facciano veri passi avanti.
Al figlio adottivo poco più che ventenne, che si ostina a voler credere alle promesse del padre, continua a rifilare buche clamorose.
Va, solo perchè vuole pubblicamente sbranarlo per le sue note nefandezze, all’appuntamento con il feroce produttore di Hollywood, e si ritrova sedotto e coinvolto nello scempio dell’ultimo capolavoro, di cui riconosce la grandezza artistica, del famoso regista, morente.

Nel flm del famoso regista gli sembra di individuare qualcosa che lo induce a mettersi alla ricerca della madre naturale del figlio.

Le vicende che seguiranno, dove la mancanza di bypass fra sè e la realtà produrrà situazioni fra il tragico, il divertente, lo squallido, l’inverosimile, sono il clou del romanzo. Gli avvenimenti saranno tali che un famoso giornalista decide di scriverci un articolo, va alla ricerca dei protagonisti, di chi li ha conosciuti e li conosce, e il risultato è tale che “con un minimo di allenamento ce l’avrebbe fatta a diventare anche in privato, ai suoi stessi occhi, la persona che era ritenuta in pubblico.

Il finale è degno del personaggio, che ha tanti di quei lati pessimi che non possiamo fare a meno di provarne compassione, mista a un pizzico di simpatia per la sua vitalià inesauribile.

PS se qualcuno trova una corrispondenza con la sorprendente, per Adelphi, copertina…
PPS grazie a Selia che me l’ha segnalato.

Il sale della terra (Jeanine Cummins)

… ho respirato la paura, la caparbietà, il coraggio, la sofferenza, la solidarietà, la spietatezza dei tanti protagonisti…

Un romanzo appassionante, di quelli che il giorno dopo vuoi continuare per sapere che cosa succederà ancora e come andrà a finire.
Una donna di Acapulco, appassionata libraia, innamorata del marito, con una bella famiglia, coltiva un’amicizia singolare con un uomo colto che sostiene di rivelare solo a lei il suo essere più profondo.
L’amicizia si rivelerà più pericolosa di quanto potesse sembrare, e la donna sarà costretta a scappare per tutto il Messico, col figlio appena adolescente, per cercare di raggiungere gli USA.
In Usa l’autrice è stata accusata di avere in qualche modo “usurpato” la titolarità dell’identità della donna messicana in fuga. La questione è forse un po’ più controversa: c’è stato uno scatenamento contro Oprah Winfrey – a un libro presentato nella sua trasmissione il successo di vendite è assicurato – che aveva magnificato il romanzo, della serie “come ti permetti di esaltare questo libro scritto da una borghesuccia americana la quale che ne può sapere del dramma dei profughi centroamericani, quando ci stanno tanti altri bellissimi romanzi scritti da messicani veri?”

Personalmente, trovo queste polemiche stucchevoli: chi scrive mette se stesso in quello che scrive, un romanzo è un romanzo, non un trattato di sociologia.
Ciò detto, la parte avvincente del libro è la fuga per tutto il Messico, gli innumerevoli ostacoli da superare, i tradimenti, le persone di buon cuore, i viaggi sul tetto dei treni, i cacciatori di migranti, in un insieme davvero coinvolgente.
Non ho le conoscenze dirette per sapere se l’ambientazione della storia raccontata si avvicini alla realtà, ma resta il fatto che ho respirato la paura, la caparbietà, il coraggio, la sofferenza, la solidarietà, la spietatezza dei tanti protagonisti.
Sono questi i risultati da chiedere a qualsiasi scrittore – scrittrice, il resto mi sembrano polemiche sterili, come quelle sui personaggi dello spettacolo che non vado più a vedere i suoi film perchè è cattivo/a.
Il nucleo per cui vale la pena leggere questo libro è il viaggio, con la tanta umanità che lo percorre. Inizio e fine li ho trovati non tanto credibili, ma sono serviti da complemento all’insieme, e alla fine importano poco.

A proposito di niente (Woody Allen)

Uno che ha capito tutto e ce lo regala da più di cinquant’anni

Quattrocento pagine di autobiografia che vanno dagli inizi – quindicenne – come scrittore di battute vendute a una società di promozione che li attribuiva a personaggi famosi della politica, dello sport, dello spettacolo fino agli ultimi film.

Mi ha fatto venire voglia di recuperare i pochi film che non ho visto e di rivedere i tanti che ho visto. Sono tutti, senza eccezione alcuna, film che è valsa la pena vedere e non ce n’è uno che non offra, oltre al divertimento, qualche spunto di riflessione esistenziale, ottima musica classica e citazioni colte anche se buttate là come se non lo fossero.
Autobiografia più film restituiscono una persona che ha capito come funziona il mondo, che soffre delle ingiustizie ma non se ne meraviglia, così come non si meraviglia delle giravolte sentimentali di noi umani e che attribuisce al caso il principale peso di ciò che viviamo.

In mezzo, anche qualcosa sulla vita privata e sulle accuse che ha subito. Non c’è niente di pruriginoso, preferisco affidarmi alla riconstruzione che ne ha fatto il Il Post. Da parte mia trovo ignobile che l’editore Usa abbia rinunciato alla pubblicazione di questo libro così come il boicotaggio degli ultimi film e mi limito a due osservazioni: il matrimonio in corso dura da venticinque anni, alla coppia sono state date due bambine in adozione.

Nel libro sono citati credo tutti coloro che, nelle posizioni più diverse, lo hanno accompagnato nella lunga vita professionale e per ciascuno c’è almeno una parola di apprezzamento. Tanti elogi anche per gli attori e le attrici: più d’una ha vinto Oscar con i suoi film e molte sono state candidate.
I film corrispondono al personaggio che emerge dal libro: pieno di paure e ossessioni e tuttavia con una voglia di vivere smisurata – “io sono contrario alla morte” – che si realizza negli affetti quotidiani e nella produzione di sceneggiature – tutti i film sono “scritto e diretto da Woody Allen” – e regie dove è facile immaginare che rielabori fantasie e vissuti propri e di chi gli sta intorno.

Credo sia sincero quando, in conclusione, scrive “ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro”.
Lo posso condividere: nessuno dei suoi film, da solo, è un capolavoro, Ma nessun regista al mondo ha girato più di cinquanta film – una media di uno all’anno – che vale la pena vedere, senza eccezioni.

Il finale di “Basta che funzioni”:

Qualunque amore riusciate a dare e ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare, qualunque temporanea elargizione di grazia: basta che funzioni.
E non vi illudete. Non dipende per niente dal vostro ingegno umano.
Più di quanto non vogliate accettare, è la fortuna a governarvi: quante erano le probabilità che uno spermatozoo di vostro padre tra miliardi trovasse il singolo uovo che vi ha fatto?
Non ci pensate, sennò vi viene un attacco di panico.

 
Almeno una cosa (ultima pagina del libro) ce l’ho in comune con Woody Allen: “Il mio eroe preferito? Il cavaliere della valle solitaria“.

 

Macchine come me (Jan McEwan)

L’autunno a noi
promette primavera
a voi l’inverno

Il modello nella foto di copertina corrisponde all’idea che, leggendo, mi sono fatta di Adam, l’androide che Charlie, non proprio benestante, ha comprato.

Ce ne sono solo venticinque esemplari al mondo, gli è costato una fortuna, ci ha investito tutta l’eredità della madre.

Siamo nel 1982, quindi del tutto inverosimile che un androide indistinguibile da un umano potesse esistere, ma McEwan si diverte a portarci in un retrofuturo in cui, per esempio, la Gran Bretagna è stata sconfitta nella spedizione per la riconquista delle Falkland, i Beatles ancora cantano, il settantenne Turing è sopravvissuto alla castrazione chimica e si gode una buona relazione con il suo compagno. Questa forma di riscrittura benevola della storia mi ha fatto pensare al Tarantino di “Bastardi denza gloria” e di “C’era una volta… a Hollywood”.

Turing è uno degli artefici di questo capolavoro, che una volta sballato va inizializzato dal proprietario con le – sofisticatssime – caratteristiche caratteriali desiderate. Charlie coglie l’occasione per aggiungere un tassello all’opera di seduzione in corso verso Miranda, alla quale affida una parte dell’impegno a “dare forma” ad Adam.

Charlie è tutto sommato un sempliciotto; Miranda, che nasconde una storia drammatica, è incapace di chiedere aiuto e ha il talento di ottenerlo comunque. La presenza di Adam, che a mano a mano viene autoconfigurandosi anche nei sentimenti, nelle istanze etiche, e nel costruire una forma di coscienza di sè, fa da catalizzatore di una serie di eventi che riguardano la relazione fra Charlie e Miranda.

Alcuni spunti, che McEwan ha la capacità di restituirci in forme originali, richiamano situazioni presenti in altri suoi romanzi: una minaccia incombente come ne “L’amore fatale”, i dilemmi etico/giuridici de “La ballata di Adam Henry”, una casualità – un bambino problematico, forse adottabile – che modifica profondamente la vita corrente, come in “Sabato”:

Quanto più Adam – e i suoi fratelli e sorelle, con i quali in qualche maniera riesce ad essere in contatto – approfondisce la comprensione dell’umanità, tanto più si trova di fronte a istanze indecidibili, che inducono a scelte ora immerse in un’etica dell’assurdo, ora drammatiche, ora inaspettate, che incidono nella vita di quelli che dovrebbero essere i suoi “proprietari” in modi totalmente diversi dalle aspettative.

Adam legge tutto Shakespeare e ne svela alcune magagne: la godibilità di McEwan sta nel fatto che, senza una conoscenza profonda della letteratura inglese non si è in grado di capire se si tratti di verità o finzione narrativa. Matura quindi anche una consapevolezza artistica che si si esprime nella forma degli Haiku, le composizioni poetiche giapponesi semplici all’apparenza ma dalla struttura rigorosa e dai significati trascendenti.

L’ultimo Haiku che Adam compone mi è sembrato buon testimone del significato di questo romanzo.

Sono diversi anni che aspetto il Nobel per McEwan, direi che sia più che maturo.