L’amore non ha limiti (Francesca Bisogno)

Una mamma con disturbo bipolare, che passa da giorni nei quali è un’amorevole moglie e mamma a periodi in cui è del tutto assente oppure è dominata dall’ossessività delle pulizie, da scatti di rabbia incontrollata, durante i quali lancia insulti sanguinosi a chi le sta più vicino o aggredisce chiunque senza motivo apparente.

Il libro è scritto dalla figlia, che dalla prima adolescenza ha dovuto subire questa trasformazione della madre, senza potersene fare una ragione, finché, dopo anni e anni, sono stati finalmente trovati bravi professionisti che sono stati di aiuto.

Per fortuna c’è un marito che ha continuato a prendersene cura e non ha mai smesso di volerle bene, che ha voluto continuare ad andare in vacanza tutti insieme, e per fortuna anche la figlia, crescendo, è stata capace di elaborare il contesto e di estrarre, da una situazione così dolorosa, la profondità dei propri sentimenti.

Ho scritto fortuna, ma la fortuna in effetti non c’entra niente: chi scrive attribuisce la propria forza interiore al soprannaturale: è stato l’amore di Dio, dice. Ho sentito che Dio mi amava nonostante tutto e questo mi ha dato la forza.

Nel leggere, la tensione emotiva arriva tutta, l’autrice non si risparmia la messa in luce delle contraddizioni che vive, i sensi di colpa per non riuscire a sentirsi sempre abbastanza buona o all’altezza dei bisogni.

La mamma infine è morta. Sarebbe stato normale leggere di un misto di dolore e sollievo, come è umano provare quando una vicenda dolorosissima si conclude, ma l’autrice è totalmente concentrata sull’amore che sa di aver comunque ricevuto da questa madre e dall’amore che è stata capace di esprimere.

“…ho imparato a scoprire risorse sempre nuove in me, ho dissotterrato dal mio cuore germogli di speranza che non ritenevo possibili… se avessi contato solo sulle mie forze non avrei potuto farlo.

A me piace sperare che chi ha vissuto, e saputo con tale intensità raccontare, questa storia, possa riconoscersi, senza dover cedere un grammo della propria fede religiosa, di avercela fatta proprio con le proprie forze e la propria profonda umanità.

Può non piacere, al lettore non religioso, la presenza pervasiva del soprannaturale, ma se si va alla sostanza, è un libro che andrebbe letto da chiunque viva vicino a persone che esprimono la propria umanità in modi che non sempre ci è possibile capire né, qualche volta, accettare.

Due libri di montagna

Me li hanno regalati, per il compleanno, due persone speciali. Un libro ricevuto in regalo, che non ho scelto, lo accolgo sempre con una iniziale, vaga diffidenza. La stessa con la quale li ho cominciati a leggere e volevo lasciarli dopo qualche decina di pagine.

E invece sono arrivato alla fine, tutte e due le volte molto, molto preso, come raramente mi capita con scrittori di ben altro spessore.

“Il richiamo del K2” è il racconto del tentativo, da parte di Tamara Lunger, unica scalatrice donna in quella spedizione, fra le più forti del mondo, di arrivare in cima al K2, già raggiunta in estate, in invernale. Ha la stessa forza di un libro di Messner, con l’aggiunta della presa di consapevolezza di essere una donna, non più un “maschiaccio”, e cioè una donna che voleva essere come un uomo. A ogni angolo ci sono scelte difficili da fare. Ce la potrò fare con la luce ad arrivare al secondo campo o meglio fermarsi qui? Con il tempo incerto, si può provare oggi, perché dopodomani si deve ripartire? Continuo con il compagno di cordata con cui sono venuta, e con il quale non siamo d’accordo su troppe cose, o decido di salire con il nuovo arrivato spagnolo, che conosco poco ma che mi pare affidabile? È una storia vera, non svelo come finisce, anche se qualcuno potrebbe averlo letto sui giornali di gennaio 2021.

“L’ora più fredda” è un romanzo, scritto da Paolo Paci, un forte alpinista. Qui alpinista alla lettera, perché le sue imprese sono sopratutto sulle Alpi, e sulle Alpi si mettono alla prova i tre ragazzi. Il più forte è quello di città, insieme, piano piano si sperimentano in salite sempre più impegnative. Le storie personali si intrecciano con la stagione politica milanese degli anni settanta, quando Contessa e Stelutis alpinis si mischiavano nei cori dei rifugi. L’ultimo capitolo si svolge qualche decennio dopo, e in una baita solitaria chiude tutte le storie.

Storie di formazione, storie di montagna, quella seria. In entrambi i casi arrivano dentro la fatica, le mani ghiacciate, l’appiglio che non si trova, la soddisfazione selvaggia di avercela fatta, il dolore per le perdite.

Mi piace andare in montagna, anche se non sono mai stato uno scalatore; mi piace la fatica di arrivare, anche se le difficoltà superate non hanno niente a che fare con quelle dei due libri. Non ho quella smania di superare i limiti che spinge gli scalatori veri, e tuttavia credo di capirla: si chiama passione, qualcosa che ti travolge e ti spinge quasi oltre la volontà e gli affetti più cari.

“… senza alcuna necessità né scopo. Se non respirare. Scalare. Vivere”

L’infedele (Gad Lerner)

La nostra storia, dagli anni 60 a oggi, da un punto di vista acuto.

L’ho divorato in due giorni.

Un intellettuale onesto che è arrivato, partito da Lotta continua, al POTERE (la direzione del TG1), attraverso le collaborazioni più diverse, più prestigiose, più innovative, e che ora sta partecipando – quale uno degli intervistatori, non da organizzatore che guarda le cose dall’alto – al progetto di raccogliere le testimonianze video di tutti coloro che sono ancora vivi e che hanno partecipato, nei modi più diversi, alla lotta di liberazione dal nazifascismo.

Offre il petto al plotone di esecuzione dei filistei quando si riconosce come un possibile prototipo del radical chic, e rivendica di avere avuto, da un certo punto in poi, un’esistenza agiata, e di avere amici ricchi e potenti con i quali a volte condivide, da invitato, vacanze lussuose.

Si rende conto, quando guarda al distacco della sinistra dai lavoratori delle fabbrche, dagli operai, che non è da una figura come la sua che la sinistra potrà rinascere, e tuttavia non rinuncia a volersi rivoluzionario, contro lo stato di cose esistente e a favore dei diseredati.

Propone un collegamento con quella parte dell’ebraismo che si vuole messianica, ricorda che Engels era figlio di un grande industriale tessile e che questo non gli impedì di scrivere testimonianze dal vivo della condizione degli operai di Manchester, all’inizio della rivoluzione industriale.

Interessanti e godibili una serie di schizzi dei personaggi della nostra storia recente, della politica, della cultura, dell’impresa, del giornalismo, ciascuno collocato nel contesto storico di riferimento, senza rinunciare a note critiche anche profonde ma mai con astio o acidità personale.

Gad Lerner è uno che ha raccontato la lega dell’inizio delle ampolle alle sorgenti del dio Po’ ed è uno che oggi va nella piazza di Cerignola, dove le case e le strade sono piene delle immagini, come di un santo laico, del fondatore della CGIL Di Vittorio, a parlare con i braccianti, anche gli anziani che con Di Vittorio hanno lottato, e incontra il disincanto delle condizioni peggiorate, dello straniero visto come concorrente al ribasso e, sopratutto, della mancanza di prospettiva, che ha fatto di un paese del sud, glorioso di lotte contadine, un avamposto della lega.

È più che esplicito, a volte quasi compiaciuto, durante tutto il libro: me le dico da solo le contraddizioni che vivo, prima che me le tiriate addosso.

A suo modo è un libroi di storia italiana dagli anni sessanta a oggi. Ripeto: l’ho letto di un fiato, leggetelo, ne vale la pena.

A proposito di niente (Woody Allen)

Uno che ha capito tutto e ce lo regala da più di cinquant’anni

Quattrocento pagine di autobiografia che vanno dagli inizi – quindicenne – come scrittore di battute vendute a una società di promozione che li attribuiva a personaggi famosi della politica, dello sport, dello spettacolo fino agli ultimi film.

Mi ha fatto venire voglia di recuperare i pochi film che non ho visto e di rivedere i tanti che ho visto. Sono tutti, senza eccezione alcuna, film che è valsa la pena vedere e non ce n’è uno che non offra, oltre al divertimento, qualche spunto di riflessione esistenziale, ottima musica classica e citazioni colte anche se buttate là come se non lo fossero.
Autobiografia più film restituiscono una persona che ha capito come funziona il mondo, che soffre delle ingiustizie ma non se ne meraviglia, così come non si meraviglia delle giravolte sentimentali di noi umani e che attribuisce al caso il principale peso di ciò che viviamo.

In mezzo, anche qualcosa sulla vita privata e sulle accuse che ha subito. Non c’è niente di pruriginoso, preferisco affidarmi alla riconstruzione che ne ha fatto il Il Post. Da parte mia trovo ignobile che l’editore Usa abbia rinunciato alla pubblicazione di questo libro così come il boicotaggio degli ultimi film e mi limito a due osservazioni: il matrimonio in corso dura da venticinque anni, alla coppia sono state date due bambine in adozione.

Nel libro sono citati credo tutti coloro che, nelle posizioni più diverse, lo hanno accompagnato nella lunga vita professionale e per ciascuno c’è almeno una parola di apprezzamento. Tanti elogi anche per gli attori e le attrici: più d’una ha vinto Oscar con i suoi film e molte sono state candidate.
I film corrispondono al personaggio che emerge dal libro: pieno di paure e ossessioni e tuttavia con una voglia di vivere smisurata – “io sono contrario alla morte” – che si realizza negli affetti quotidiani e nella produzione di sceneggiature – tutti i film sono “scritto e diretto da Woody Allen” – e regie dove è facile immaginare che rielabori fantasie e vissuti propri e di chi gli sta intorno.

Credo sia sincero quando, in conclusione, scrive “ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro”.
Lo posso condividere: nessuno dei suoi film, da solo, è un capolavoro, Ma nessun regista al mondo ha girato più di cinquanta film – una media di uno all’anno – che vale la pena vedere, senza eccezioni.

Il finale di “Basta che funzioni”:

Qualunque amore riusciate a dare e ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare, qualunque temporanea elargizione di grazia: basta che funzioni.
E non vi illudete. Non dipende per niente dal vostro ingegno umano.
Più di quanto non vogliate accettare, è la fortuna a governarvi: quante erano le probabilità che uno spermatozoo di vostro padre tra miliardi trovasse il singolo uovo che vi ha fatto?
Non ci pensate, sennò vi viene un attacco di panico.

 
Almeno una cosa (ultima pagina del libro) ce l’ho in comune con Woody Allen: “Il mio eroe preferito? Il cavaliere della valle solitaria“.

 

Open (Andre Agassi)

Un gran bel libro, tanto più perchè inaspettato.

Sport: tennis, certo. E anche amicizia, amore, crescita personale, famiglia. Senza mai una sbavatura, un auto-compiacimento.

Un padre tiranno e tuttavia infine rispettato, nelle sue idee fisse e certezze incrollabili. Allenatori amici – grandi veri amici – che lo aiutano a crescere, e non solo nel diventare il numero uno al mondo.

Non dev’essere stato un tipo simpatico, Andre Agassi, nè cerca di esserlo nel libro. Non risparmia frecciate velenose a qualche collega – Pete Sampras, l’eterno rivale, di cui riconosce la superiorità, che dà un solo dollaro di mancia al ragazzo che gli porta l’auto da centinaia di migliaia di dollari – e tuttavia si avverte sempre un grande rispetto verso tutti gli avversari, per la condivisione di un impegno mentale e fisico che in certe partite porta l’organismo oltre i limiti umanamente sopportabili, che comunque sono superati da una riserva di energia che sempre da qualche parte si riesce ad estrarre.

La fatica immane ed il dolore fisico si respirano, sopratutto sugli odiati campi in terra battuta.

Sposerà la più grande tennista di quei tempi, forse di tutti i tempi – Steffi Graf – e scriverà belle pagine di amore, per lei e per i due figli.

Leggendo le fatiche, le delusioni, lo stress, i tormenti di polso e spalla e schiena, ti chiedi se ne valga la pena. Non so rispondere per me, anche se credo che chi ha un talento così grande per qualcosa, per qualsiasi cosa, semplicemente non possa fare a meno di assecondarlo, anche se l’inizio ha significato la negazione dell’infanzia con un padre che lo teneva ore davanti al drago, uno feroce sparapalle autoprogettato.

Tante cadute e tante risalite. Infine i patrimoni di Andre e Steffi dedicati alla costruzione di una scuola per ragazzi che se no non ci andrebbero. Forse per questo è valsa la pena giungere a dover accontentare la schiena, quando serve, e dormire sul pavimento.

La libertà di andare dove voglio (Reinhold Messner)

…e così sono diventato un drogato di queste intense esperienza sui monti, e ho imparato a contenermi per poter proseguire. Nella libertà è compresa anche la rinuncia, però la libertà non ha limiti“. (pag 40).

Quattrocentocinquanta pagine di scalate e attraversamenti, di imprese al limite delle capacità umane. Quando, rispetto a tanti modi di sfidare l’impossibile, ci chiediamo ma chi glielo fa fare, qui una risposta la troviamo. Un Ulisse che cerca più di tutto sè stesso. E che sembra averlo trovato. Reinhold Messner si chiede di continuo che cosa lo spinga, che cosa lo induca a mettere in secondo piano tutto il resto, compresi gli affetti più cari.

Si tratta di una specie di spinta interiore irriducibile, è l’incarnarsi di quel “è più forte di me”, che a volte utilizziamo per non prenderci la responsabilità fino in fondo di qualche nostra scelta. Messner le responsabilità se le prende tutte, nei successi e nelle disgrazie. Dalle prime scalate, giovanissimo, sulle Dolomiti, all’Everest senza bombole di ossigeno, alla salita su tutte le quattordici montagne più alte di 8.000 metri, alla ricerca di “chi ci riesce per primo” – in concorrenza con un miliardario americano, e vincerà un poco noto canadese, di cui Messner riconosce quasi con affetto il primato – a scalare le sette montagne più alte di ciascuno dei sette continenti (ed è buffo leggere di queste diatribe sulla definizione di continente, che diventa fondamentale per decidere del primato) fino all’attraversamento dell’Antartide e dei deserti.

Non mi sono mai sentito al limite delle mie forze, nè mai l’ho cercato, nelle modeste montagne su cui sono salito, ma di quei momenti di essere soli nella natura e di quella selvaggia gioia al superamento di un ostacolo che sembrava impossibile un lieve sapore mi è capitato di sentire; Messner restituisce quale potrebbe essere stato il sapore pieno. E siccome scrive anche bene, fa vivere a chi legge la difficoltà da superare, la decisione da prendere dopo la quale alcune decisioni non si potranno più prendere, fa vivere il freddo dei bivacchi su uno spunzone, bagnati a meno trenta gradi, la difficoltà di comunicazione con il campo base o con altri alpinisti. L’amputazione di alcune dita congelate da entrambi i piedi. La tragedia della perdita di un fratello, di un amico, di un compagno di avventura.

Ho scoperto qui che le difficoltà maggiori non sono di ordine tecnico, come immaginavo, tipo una parete liscia senza appigli, ma dipendono dalla consistenza della roccia, che si sbriciola, non tiene, o dalla consistenza della neve – mi sosterrà o ci affonderò? – o da come girerà il vento rispetto alle potenziali slavine, o dai sassi che cadono da più in alto.

Di alcune miserie umane – chi ha letto il libro sul K2 di Walter Bonatti se ne sarà fatta un’idea – che attraversano anche il mondo dell’alpinismo, che ci piacerebbe immaginare tutto eroismo e altruismo, Messner dice qualcosa ma passandoci sopra senza addentrarvisi. Non dev’essere per niente un tipo simpatico, Messner, anche se pare sia un eccellente conferenziere, a cui piace condividere le proprie esperienze, a cui è anche necessario guadagnare per finanziarsi nuove imprese, ma il cui mondo è altrove, e che ha “sempre simpatizzato con una categoria particolare di persone, un po’ fuori dai ranghi, anticonformiste, tendenzialmente girovaghe, studenti fuori corso, guide, bracconieri, visti da tutti con un misto di scetticismo e di rispetto.”

La sua ultima impresa, finora, passati i settant’anni e quindi tenendo conto dei limiti fisici, è un castello ristrutturato con le sole proprie forze, dove ha sede il Messner Mountain Museum – MMM – che mi propongo di visitare.