È seduto a una scrivania. Piccolo di statura, con grossi baffi ancora scuri, a contrasto con i lunghi capelli bianchi. La stanza è ampia, stracolma di libri che appesantiscono le mensole fino a curvarle, scura e ingombra. Finisce di scrivere qualcosa su un taccuino, lo chiude, spegne quel che resta della sigaretta, consumata fino al filtro, si alza.

Scalda, in un pentolino rosso di smalto, scrostato qua e là, la dose d’acqua necessaria a radersi. Si è convertito a malincuore alle lamette, e poi ai rasoi a consumo – ciascuno lo fa durare settimane – ma non alle bombolette di schiuma. Così, si massaggia a lungo le guance con il pennello che intinge prima nell’acqua calda e poi nella cuccuma dove è contenuta la crema che produce una bella schiuma dall’odore di mandorla. È rito di tutte le mattine. Stamattina, Libero inaugura un nuovo rasoio. Fa attenzione a non tagliarsi: la mano ha bisogno di adattare la pressione rispetto a quella necessaria con la vecchia lama usurata.

Il quintetto per pianoforte e archi di Brahms lo segue dalla piccola radio appoggiata su una mensola. Libero conviene che sia una musica adatta alla giornata che si presenta.

Non sarà semplice, ma ha deciso.

Vestito elegante, con un cappello a falde, attraversa la via nella mattinata primaverile e arriva davanti alla vetrina seminascosta di una piccola pasticceria.

Entra, il negozio è tutto rivestito di velluto rosso. Sul bancone, cioccolatini e dolci preziosi.

Sceglie da esperto e sorride alla giovane commessa, che confeziona il pacchetto con aria complice.

— Pacchetto speciale oggi, eh, signor Libero?

— Sapesse quanto è speciale! Lei non era ancora nata, la prima volta che comprai, proprio qui, i marron glacé con le violette candite.

Mentre paga ci ripensa.

— Allora, erano un vero lusso. E forse non erano nati nemmeno i suoi genitori.

La commessa lo guarda uscire dietro il din-don della porta. Gli sorride. Le sta simpatico quel vecchietto magro che a volte, quando c’è folla, approfitta del tempo di attesa per scrivere fitto fitto su un taccuino nero.

Ha preso il treno. Tiene il pacchetto appoggiato sulle ginocchia e lo protegge di lato con le mani, come qualcosa di molto prezioso.

È una pazzia, si dice. E ride, guardando la campagna e le volute del Tevere scorrere dal finestrino.

Alla stazione si fa portare da un taxi a un incrocio verso le colline vicine. L’Osteria è diventata “Hostaria”. Strade fangose. Si avvia a fatica per una salita tortuosa chiusa da mura di lato. A qualche curva si apre il panorama che da una parte mostra il duomo e dall’altra, più in basso, il Tevere.

Strada facendo guarda con vero odio le macchine parcheggiate su una piazza, a scempio della bella chiesa romanica.

È arrivato. Suona a un cancello. Aspetta abbastanza a lungo. Intanto fa scorrere lo sguardo sull’edificio più in alto, dall’aria di essere stato ricco, quanto ora è malconcio, cadente, il prato incolto. Un abbaio lontano. Un cartello “Vendesi”.

Nessuna risposta.

Ragionevolmente, non ne avrebbe motivo: non ha avvisato. Ma, infantilmente, era certo di essere atteso. Perciò, è contrariato.

Peraltro, a pensarci bene, non aver avvisato sarebbe niente, rispetto al solo essere lì.

Libero sorride alla propria dissennatezza e il bambino allegro che gli è rimasto dentro, quello che tanti dolori non hanno cancellato, è comunque contento dell’impresa tentata, anche se non è riuscita.

Suona ancora. Aspetta.

Si gira e fa per andarsene, quando la serratura del cancello scatta.

È quasi deluso: il sollievo per l’imbarazzo scampato stava già prendendo il sopravvento sulla frustrazione per l’iniziativa fallita. Spinge a fatica il cancello sui cardini non curati e se lo richiude dietro.

— Lo chiuda bene.

La voce proviene da una gradinata – erbe tenaci tra uno scalino e l’altro – da cui si accede alla villa e verso la quale Libero si sta dirigendo con passo incerto. Un uomo, anch’esso anziano, ma di corporatura massiccia tanto quanto Libero è minuto, è in attesa sulla soglia.

— Se no i cani scappano e poi chi li riprende più?

— Buongiorno. Mi scuso di non aver annunciato il mio arrivo.

Riprende fiato. Soprattutto, raccoglie le forze.

— È in casa la signora Olimpia?

— No, non è in casa.

Mario ha risposto neutro, né secco né accogliente. Non cambia l’aria stanca e dolente, come avvelenata dal tempo. Un momento di esitazione, poi lo invita, con un gesto, a entrare.

A entrambi, la vita ha regalato Olimpia. Uno, l’ha sciupata. L’altro, non è stato capace di coglierla.

Dalla televisione, pubblicità a tutto volume. Libero guarda con curiosità e apprensione la casa che si apre spaziosa e spenta.

Mario si allontana verso l’interno. Libero esita, poi lo segue e resta impalato, in piedi in mezzo all’ingresso, con la scatola di dolci tra le mani.

Le pareti del salotto sono coperte di fotografie e oggetti curiosi: un pugnale antico, un intarsio in avorio, Cristo in croce scolpito sul legno bitorzoluto di una radice. Sui bei mobili polverosi campeggia l’argenteria annerita. Un secrétaire di legno di rose e bella fattura.

Mario torna, una caraffa d’acqua e due bicchieri tenuti dall’interno con le dita artritiche. Indica a Libero il salotto adiacente.

— Si accomodi.

Mario spegne il televisore e si siede su una poltrona. Fa cenno a Libero, ancora esitante, di occupare la poltrona di fronte. Libero si siede in pizzo. Tiene la scatola di marron glacé sulle ginocchia, con le gambe strette in posizione da educanda.

In mezzo, un tavolo di marmo intarsiato. Polveroso. Intorno, i divani sono coperti da lenzuola, come nel finale di Lolita di Kubrik.

Come si è potuto mettere, si chiede – proprio lui: una vita contro! – in una situazione così assurda, a fare i salamelecchi in questa casa così borghese e perbene. Mario riempie i bicchieri d’acqua. I due vecchi bevono in silenzio.

— Non lo sapeva? È morta.

Libero posa la scatola sul tavolo, vicino al vassoio con l’acqua. Si stende indietro. Un ragno sta cominciando a tessere una ragnatela in un angolo del soffitto affrescato. Brutti affreschi. Fine ‘800, forse: corpi sgraziati, colori stinti, masse ammucchiate senza criterio. È qui che ha vissuto, dunque.

Restano lì in silenzio, seduti in una nebbia di ricordi. Libero abbassa la testa, gli sfugge un sorriso.

La rivede, aggrappata a un albero magro, sulla riva di un ruscello, che ride luminosa.

Si scuote, il suo sguardo incontra quello di Mario, il sorriso muore.

— Li avevo portati per la signora Olimpia.

— Li aveva portati per la signora Olimpia.

Mario ha ripetuto la frase di Libero a pappagallo, senza inflessioni.

— Li avevo portati per lei.

Dall’orologio a pendolo arrivano i lunghi rintocchi delle 12,30. Quattordici rintocchi: dodici don più due den per i quarti.

Libero si sente leggero. Dovrebbe essere schiantato dal dolore, si dice. Invece, si sente leggero.

— Adesso è ora di andare. Grazie. Scusi.

Libero non si muove.

— Una volta, da giovane – voi non esistevate ancora – glieli portai al paese. Ero andato a prenderli apposta a Roma. Le piacquero molto. Soprattutto le violette candite che accompagnavano i marron glacé.

Mario riempie i due bicchieri d’acqua.

— E un’altra volta li mandaste qui. Mi ricordo bene. Mi ricordo anche quegli stupidi libri di poesie.

Lo ha detto pianamente, ma solo perché non ha più forze da disperdere in rancori.

Libero beve un sorso d’acqua dal bicchiere con le impronte digitali di Mario impresse sul bordo interno.

— La conobbi alla festa delle arance. Era bellissima.

Mario corruga le sopracciglia. Libero continua a raccontare. Mario chiude gli occhi.

Una sagoma gli si disegna: è il viso sfuocato di Olimpia. Come uno schizzo a carboncino che pian piano si colora dei particolari che Libero descrive. Come se l’immagine di Olimpia, ormai scolorita nella mente di Mario, prendesse vita dalle parole di Libero.

Quanto sono durate, le rimembranze? Chissà. Nel frattempo, ha rinfrescato, il sole è ancora alto ma ha cominciato la discesa, tra le colline di viti e ulivi. Le nuvole si vanno appesantendo, qualche gocciolone si affaccia.

Libero si alza. Se ne va davvero, adesso.

Mario gli fa cenno di aspettare, come se si fosse ricordato di qualcosa di importante. Si allontana verso una stanza all’interno.

Libero adesso è sfinito. Non ha voglia di aspettare che l’altro torni.

Esce dalla porta, scende le scale.

Mario torna con una busta di supermercato gonfia. Come si rende conto che Libero non c’è più, si accascia sulla poltrona. Dalla busta tira fuori libri di poesie, riviste letterarie, lettere raccolte con un nastro colorato. Mentre soppesa il mucchietto di lettere, l’occhio gli va sulla scatola rimasta sul tavolino di marmo. Allora, come preso da furia, si alza e si precipita fuori.

— Senta un po’, lei…

Incespica sull’uscio, scivola sugli scalini che scende in affanno e riesce ad arrivare in fondo dritto, giusto in tempo per vedere il cancello richiudersi dietro a Libero. Si guarda una nocca sbucciata addosso al parapetto che accompagna le scale. Respira con affanno. Il noce: come cresce bene, solido, fronzuto. Bisogna far tagliare tutta quest’erba che se no. Piove, stamattina c’era il sole.

Quando fa per risalire le scale, si rende conto di avere tra le mani la scatola. Torna indietro verso il noce e, con tutta la violenza che trova disponibile dentro di sé, ce la scaglia contro. I marron glacé schizzano in tutte le direzioni, si mischiano con il fango. Le violette candite annegano nel rigagnolo che si sta formando.

Libero scende lo stradello con un vago sorriso.