Settimo cielo (Andreas Desen)

Film del 2008, premiato a Cannes nella sezione “Un certain regard”.

Il film comincia con una scena di sesso, di grande delicatezza, fra Karl, un uomo di 76 anni, e Inge, una donna di 60.
Karl è solo, Inge è sposata da trent’anni
Inge e il marito si vogliono bene, il marito ha un figlio, che ha una propria vita, da una precedente relazione, e ha cresciuto insieme con la moglie la figlia di lei, pure nata da una precedente relazione, ormai grande e con una bambina.
Inge è felice e confusa, si confida con la figlia, che le suggerisce di viversi questo innamoramento ma di tenerlo nascosto al marito, al quale la figlia è molto affezionata.
Inge ci prova ma non ci riesce: a un certo punto glielo dice.
Qualche discussione, qualche scontro, alla fine Inge va a vivere con Karl.
Arrivati a questo punto, è il momento del finale.
Un film così può finire in tanti modi: la storia è stata raccontata, i temi – la possibilità di sentimento e sesso a un’età avanzata, le contraddizioni fra desiderio e impegni presi, etc – sono stati ben sviluppati.

Potrebbe esserci un finale consolatorio, con il marito di Inge che trova anche lui un nuovo amore, oppure una forma di menage a trois, in cui tutti si adattano alla nuova situazione e nessuno ne soffre più di tanto, oppure un finale aperto, con Inge che lascia la casa coniugale e si gira indietro e si incrociano gli sguardi di marito e moglie ancora pieni di sentimento.
La gamma di finali sarebbe stata ampia.
Il regista ha scelto di far morire suicida il marito di Inge.
L’ho trovata una scelta stupida e moralistica, punitiva nei confronti di scelte di vita certo del tutto discutibili ma sincere.

La regina degli scacchi

Una bambina orfana che diventa donna attraverso un’ossessione – gli scacchi – che diventa la sua salvezza.

Il titolo originale era “Gambetto di donna”, che è una tipica sequenza di mosse di apertura degli scacchi, ma “La regina degli scacchi” sicuramente ha reso meglio sul piano marketing, e non risulta affatto forzato.

Dopo la morte della mamma in un incidente/suicidio, Beth va in un orfanotrofio femminile dove incontra, in uno scantinato, un custode che le insegna gli scacchi.

Beth, anche per l’effetto di tranquillanti che allora – anni ’60 – venivano somministrati regolarmente a tutti gli ospiti, “vede” la scacchiera e i movimenti dei pezzi sul soffitto, quando non riesce a prendere sonno.

Diventerà brava e poi bravissima, fino a sconfiggere i migliori prima al torneo del paesetto e poi al mondo – i russi – a casa loro.

Detta così sembra una storiella come tante, e invece mai gli scacchi sono stati rappresentati con tale intensità sullo schermo.
Chi ci gioca, anche se non c’è mai il tempo di osservare una partita e nemmeno una singola posizione, lo capisce ma, visto il successo, immagino che anche a chi non conosca gli scacchi sia arrivata la tensione che circola, la volontà di annientamento dell’avversario insieme al piacere sublime di avere trovato la giusta combinazione di mosse o di aver intuito la strategia giusta per quella posizione o per quell’avversario.

Gli scacchi attraversano tutto il racconto, ma la storia è quella della crescita di una bambina alla quale solo l’ossessione degli scacchi permette, senza autodistruggersi nelle dipendenze, di diventare giovane ragazza e poi donna, prima con una madre adottiva alcolista e poi totalmente sola.

Ci sono anche gli uomini, nella vita di Beth, e forse non sono la parte più riuscita della serie, perchè inesorabilmente tutti bravi ragazzi che si comportano tutti nel modo giusto al momento giusto, eppure nell’insieme – nella confezione, se si vuole – nessuno sembra mai stonato o fuori posto.

Qualche piccola americanata da happy end non nega la drammaticità vera, sentita, dell’evoluzione di Beth che, dopo aver battuto il bambino campione russo, che vuole diventare campione a sedci anni, gli chiede e poi, a sedici anni, che cosa farai della tua vita?

Tanti episodi di scacchisti che sono nella storia degli scacchi vengono richiamati, ed emerge, anche dalle scelte di chi è molto bravo ma capisce di non poter mai esserlo “abbastanza”, che gli scacchi sono forse l’unico gioco in cui la fortuna non conta e in cui ognuno può scoprire i propri limiti.

La vita davanti a sè (Roman Gary)

Il commovente Momo, nel collegio dei figli di puttana.

Momo è un ragazzino arabo di dieci anni, ma forse undici, e strada facendo scoprirà che potrebbe averne anche quattordici.
Modo vive con Madame Rosa che, all’ultimo piano di un condominio senza ascensore, alleva una mezza dozzina di flgli di puttana. Alla lettera: sono figli di prostitute che, per le leggi allora vigenti, hanno paura che i servizi sociali glieli tolgano e li diano in affido, e dunque li consegnano a Madame Rosa affinchè se ne prenda cura.
Per Madame Rosa è un lavoro: ogni madre le invia periodicamente soldi, ma Madame Rosa continua a tenere i bambini anche quando le madri scompaiono.
Madame Rosa è una vecchia ebrea nera che ci sta poco con la testa, ogni tanto rivive epoche lontane ed è piena di acciacchi.
Momo se ne prende cura alla fine più di quante cure abbia ricevuto.
Momo si è costruito un linguaggio tutto suo e una visione del mondo del tutto singolare.

Momo soffre per quanto Madame Rosa si deteriora: Madame Rosa gli ha detto che c’è una faccenda che si chiama Ordine dei medici che è fatto apposta per farle delle sevizie e impedirle di morire. Perciò Momo si arrabbia con il dottor Katz, talmente vecchio da dover essere portato in braccio per le scale per visitare Madame Rosa, quando gli dice che non la può abortire.
Momo se la caverà a modo suo, e alla fine ci sarà anche chi si occuperà di lui.

PS: Romain Gary ha vinto il Goncourt con questo romanzo ma con uno pseudonimo: si è saputo solo qualche mese dopo che si era suicidato con un colpo di pistola. Era stato il marito di Jean Seberg, suicida un anno prima. Ha lasciato un biglietto: “Nessun rapporto con Jean Seberg, i patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove

A proposito di niente (Woody Allen)

Uno che ha capito tutto e ce lo regala da più di cinquant’anni

Quattrocento pagine di autobiografia che vanno dagli inizi – quindicenne – come scrittore di battute vendute a una società di promozione che li attribuiva a personaggi famosi della politica, dello sport, dello spettacolo fino agli ultimi film.

Mi ha fatto venire voglia di recuperare i pochi film che non ho visto e di rivedere i tanti che ho visto. Sono tutti, senza eccezione alcuna, film che è valsa la pena vedere e non ce n’è uno che non offra, oltre al divertimento, qualche spunto di riflessione esistenziale, ottima musica classica e citazioni colte anche se buttate là come se non lo fossero.
Autobiografia più film restituiscono una persona che ha capito come funziona il mondo, che soffre delle ingiustizie ma non se ne meraviglia, così come non si meraviglia delle giravolte sentimentali di noi umani e che attribuisce al caso il principale peso di ciò che viviamo.

In mezzo, anche qualcosa sulla vita privata e sulle accuse che ha subito. Non c’è niente di pruriginoso, preferisco affidarmi alla riconstruzione che ne ha fatto il Il Post. Da parte mia trovo ignobile che l’editore Usa abbia rinunciato alla pubblicazione di questo libro così come il boicotaggio degli ultimi film e mi limito a due osservazioni: il matrimonio in corso dura da venticinque anni, alla coppia sono state date due bambine in adozione.

Nel libro sono citati credo tutti coloro che, nelle posizioni più diverse, lo hanno accompagnato nella lunga vita professionale e per ciascuno c’è almeno una parola di apprezzamento. Tanti elogi anche per gli attori e le attrici: più d’una ha vinto Oscar con i suoi film e molte sono state candidate.
I film corrispondono al personaggio che emerge dal libro: pieno di paure e ossessioni e tuttavia con una voglia di vivere smisurata – “io sono contrario alla morte” – che si realizza negli affetti quotidiani e nella produzione di sceneggiature – tutti i film sono “scritto e diretto da Woody Allen” – e regie dove è facile immaginare che rielabori fantasie e vissuti propri e di chi gli sta intorno.

Credo sia sincero quando, in conclusione, scrive “ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro”.
Lo posso condividere: nessuno dei suoi film, da solo, è un capolavoro, Ma nessun regista al mondo ha girato più di cinquanta film – una media di uno all’anno – che vale la pena vedere, senza eccezioni.

Il finale di “Basta che funzioni”:

Qualunque amore riusciate a dare e ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare, qualunque temporanea elargizione di grazia: basta che funzioni.
E non vi illudete. Non dipende per niente dal vostro ingegno umano.
Più di quanto non vogliate accettare, è la fortuna a governarvi: quante erano le probabilità che uno spermatozoo di vostro padre tra miliardi trovasse il singolo uovo che vi ha fatto?
Non ci pensate, sennò vi viene un attacco di panico.

 
Almeno una cosa (ultima pagina del libro) ce l’ho in comune con Woody Allen: “Il mio eroe preferito? Il cavaliere della valle solitaria“.

 

Joker (di Todd Phillips)

Joker. Da non mancare.


La fotografia ha i colori – fra carico e sbiadito, non gli esagerati HD – dei film degli anni in cui è ambientato.


Anche i risvolti sociali – i fondi per l’assistenza tagliati, etc – servono all’ambientazione, non appartengono in nessun modo al protagonista, totalmente estraneo a tutto ciò che possa suonare anche vagamente politico.

È stato presentato (Mymovies) come “La storia sulle origini di uno dei più famosi super-cattivi della DC”, ma è solo un espediente commerciale: anche se città si chiama Gothan City e il castigo finale del cattivo di turno è una citazione esplicita da Batman begins. si tratta “solo” della storia di un uomo che non ricorda un solo momento di felicità nella sua vita, che non è mai sicuro di esistere davvero e tuttavia “sa” di esistere.

Anche se parte della sua esistenza la immagina soltanto, ed è bravo il regista a farci stare nell’incertezza, in molti episodi.

L’infanzia è stata molto più che difficile, ma non c’è accenno di giustificazionismo.
Stiamo con Joker perchè il regista Todd Phillips, del quale non ricordo niente di memorabile – ma Joker lo è eccome – ci fa sentire la sofferenza di quest’uomo, ce la fa vivere come raramente, forse mai, ricordo di aver vissuto al cinema: ci commuove senza effetti speciali.

L’interpretazione di Joaquin Phoenix è stata magnificata da tutti e non posso aggiungere niente, se non che recita con ogni cellula del suo corpo.

Andateci e andateci e andateci.


PS: Complimenti al cinema Barberini che, forse solo nel weekend, ma è già tanto, proietta quasi tutti i film anche in originale con sottotitoli.

C’era una volta a… Hollywood (Q. Tarantino)

Ho constatato con sorpresa – mio errore, la sorpresa, visto che i fatti risalgono al 1969 – che due su tre (statistica casereccia) di chi ha visto il film non sa che nel periodo in cui si svolge il film Sharon Tate, incinta di otto mesi, e altri suoi amici furono massacrati da una banda di balordi nella villa di Roman Polasky, marito di Sharon, in quel momento a Londra per lavoro.

Poichè Roman Polansky – rappresentato con gli abiti di scena di “Per favore non mordermi sul collo” – e Sharon Tate, nel film, vivono nella villa adiacente a quella del protagonista, senza conoscerne la storia è difficile vivere la tensione dello spettatore che aspetta di vedere come Tarantino risolverà, ed è impossibile sciogliersi nella commozione del geniale finale.

Finale preparato da due ore in cui Tarantino ci ha portato a spasso per i suoi amori per i B-movies, da Bruce Lee – esilarante la scena in cui appare – e i western italiani, dove Sergio Corbucci viene citato come il secondo migliore regista del genere.

Tarantino cita e cita e cita finché cita pure se stesso e si arrotola in un manierismo a momenti scostante. Ma riesce a restituirci sempre pagine di cinema-cinema che comunque ci ripagano.

Credo che come autore abbia da tempo detto tutto, mi piacerebbe che come regista dirigesse la sceneggiatura di qualcun altro, ma forse è il suo destino, come di altri grandi – penso, in generi opposti, a Woody Allen o anche a Fellini – fare sempre lo stesso film.

Non tutti sono Kubrik, che ha diretto solo capolavori spaziando su tutti i generi, ma vedere un film di Tarantino resta sempre un godimento puro.


The girlfriend experience (serie 1 e 2)

Vita da escort. Il titolo significa che si può comprare anche il “pacchetto fidanzata”.

Episodi di 25/30 minuti ma effettivi, fra che cosa è successo prima e lunghissimi titoli di coda, saranno non più di 20. È un tempo giusto, perchè la regia è lenta, le situazioni tutto sommato si ripetono, l’attenzione è tutta rivolta ai risvolti psicologici dei personaggi.

Le scene di sesso sono quasi esplicite, tutte ben girate e credibili. Alcune nella seconda serie (quelle degli episodi Erica & Anna) davvero coinvolgenti.

Gli uomini fanno tutti abbastanza pena, tutto sommato sembrano meno penosi i veri uomini duri machi rispetto a quelli alla ricerca di una qualsiasi forma di relazione, che pretenderebbero autentica pur nel contesto della prostituzione.

Le protagoniste sono donne che hanno un buon lavoro, una carriera davanti, comunque donne colte, eleganti, che prima o poi si trovano, rispetto alla vita personale e lavorativa, in contraddizioni impossibili da sciogliere senza implodere.

Gli ambienti, sia di lavoro che delle abitazioni, sono tutti da architetto di interni, inesorabilmente spogli di quadri di suppellettili di oggetti. Per lo più grigi. Facile, ma efficace, l’accostamento alla povertà relazionale dei personaggi.

Anche le donne non sono trattate bene. Con forse l’eccezione di Anna, nella seconda serie, nessuna sembra esprimere sentimenti che non siano la paura o la voglia di dominio e comunque l’uso dell’altro o dell’altra. Anna invece si innamora ma in pochi giorni decide che vuole avere un figlio e si fa mettere incinta da un cliente e ovviamente tutto defragra.

Se c’è un sentimento che domina è la tristezza, vicina alla disperazione. Tuttavia, da vedere. magari per sentirsi migliori.

Il flauto magico secondo l’orchestra di Piazza Vittorio

L’orchestra di piazza Vittorio – per chi non è di Roma si tratta della piazza dove fino a qualche anno fa c’era il più grande mercato di Roma, nel quartiere Esquilino, il più multi etnico di tutti – fu fondata nel 2002 da Marco Tronco, allora chitarrista degli Avion Travel, che raccolse appunto la pluralità umana, musicale e culturale della zona.

Il flauto magico ambientato a piazza Vittorio è dunque tutto un programma: si tratta di un musical vero e proprio, con brani – sottotitolati – in almeno dieci lingue diverse che mai diventano una Babilonia e anzi danno vigore e varietà. Mozart irrompe talvolta con tutti i crismi o anche sotto forma jazz o reggae e sempre Mozart è: irraggiungibile.

Petra Magone è la regina, Fabrizio Bentivoglio il re, il loro duetto finale varrebbe da solo il film. La evidente scarsità di mezzi è stata sublimata da una scenografia esplicitamente povera e tuttavia a suo modo sontuosa.

Mi piace immaginare che Mozart si sarebbe divertito un sacco. Per me, un’ora e venti di divertimento continuo, di vero piacere. Forse non proprio per tutti – conosco qualcuno che mi odierebbe se glielo consigliassi – ma se appena vi sentite attratti non ve lo fate scappare!

“Fortunata” e “Napoli velata”: o del cinema troppico

Ho visto di recente due film di qualche tempo fa: “Napoli velata” di Opzetek e “Fortunata” di Castellitto.

Mi ha colpito il fattore che li accomuna: il troppismo (“troppismo” già ci si potrebbe provare, “troppico” del titolo in effetti non suona bene ma ho voluto mantenere la coerenza 😉 )

In Napoli velata la protagonista ha assistito all’omicidio del padre da parte della madre, poi al suicidio della madre, poi la zia (materna) le rivela di essere stata l’amante del padre, poi c’è uno zio (zio?) che muore improvvisamente per un’aranciata fredda ma forse è stato ucciso perchè sa qualcosa che non dovrebbe sapere, in quanto il bellissimo ragazzo con cui la protagonista ha passato una notte d’amore straordinaria è implicato in un delinquenziale traffico di opere d’arte per cui la nostra protagonista, che nella vita fa l’anatomo-patologa, se lo ritrova privo di occhi sul tavolo autoptico. Aggiungiamo che il tipo assassinato ha un fratello gemello che si scoprirà esistere solo nella fantasia della protagonista ma alla fine fine, con lo scambio di un oggetto, ci faranno venire il dubbio essere esistito davvero.

Aggiungiamo pure le bellezze di Napoli esibite ad ogni inquadratura ma che restano appiccicate alla storia senza diventarne parte: solo per dirne una, l’ultima scena si svolge dove è esposto il Cristo velato!

Fortunata è una giovane donna che corre facendo la parrucchiera a domicilio, ha avuto un padre drogato, adesso se la deve vedere con un ex marito violento ed ha per solo amico un coinquilino con disturbo bipolare alle prese con una madre ex attrice in preda a demenza senile. Ci si aggiunge uno psichiatra infantile di cui si innamora, che a freddo se ne esce con una botta da matto da burnout. Pure qui belle immagini ma messe lì perchè sono belle immagini, staccate dalla storia. La piccola figlia di Fortunata cade da una scala ma si salva, l’amico di Fortunata affoga per amore la madre nel fiume, si scopre che Fortunata ha assistito – forse facilitato: affogato in mare – alla morte del padre.

Entrambi i film ben girati, attori tutti bravi che riescono a dare qualche credibilità, ma tutto troppo, troppo, decisamente troppo. Che ci vuole a scrivere una sceneggiatura in cui ogni quarto d’ora c’è o un morto o una notizia di morto o un evento drammaticissimo, senza che mai se ne avverta la necessità rispetto alla storia raccontata?

Due storie costruite a tavolino col manuale del bravo scrittore o del bravo sceneggiatore. Irritanti.

The affair 1-2-3

Giunto alla fine della terza serie – dieci-dodici-dieci episodi – mi chiedo che cosa mi abbia spinto ad arrivare alla fine, visto che a raccontarne la trama così com’è la banalità potrebbe sopraffare il più volenteroso.

Nella prima parte Noah, uno scrittore – tre bei figli, sposato con la bella moglie Helen – è in vacanza in una zona di vacanze per ricchi (i genitori della moglie) e si innamora di Alison, in crisi per la morte di un figlioletto: passione, tradimento, separazione, casini vari anche da parte di Cole, marito di Alison.

Nella seconda parte lo sviluppo di questa nuova relazione, un nuovo matrimonio, e infine un omicidio stradale, intorno a cui ruotano i personaggi principali senza sapere l’uno dell’altro e che è il fulcro drammatico dell’intera serie, perchè Noah se ne dichiarerà inesplicabilmente responsabile e andrà in prigione.

Nella terza parte la discesa agli inferi di Noah, dipendente da una medicina prescrittagli inizialmente per il dolore da una frattura causatagli da un secondino sadico. La separazione da Alison, che in un momento di passione ha fatto una figlia con l’ex marito, il nuovo compagno di Helen, ex moglie di Noah, il ricovero in una clinica psichiatrica di Alison, che per questo lascia la figlia all’ex marito, nel frattempo risposatosi.

Nella terza parte i passati di ciascuno tornano e si intrecciano con le vite presenti che tutte si ingarbugliano.

La storia in sè. dunque, non è un granchè.

I passaggi emotivi, invece, sono tutti descritti in modo credibile, e qualche volta “spiegati” da qualche protagonista, senza che ciò risulti mai didascalico, in modo così piano ed efficace che se ne potrebbe suggerire la visione ad uno studente di psicologia che voglia specializzarsi in relazioni di coppia e triangolazioni varie.

In tutte queste relazioni, infatti, il fattore drammatico è la “necessità” di scegliere, è il fattore o/o mentre tutti tenderebbero a e/e, senza mai verificare se questo sia effettivamente possibile, vivibile. Soccorre l’ultimo personaggio, l’insegnante – francese, manco a dirlo, e questo è un limite stereotipato, per quanto abbastanza ben reso – che si innamora di Noah, lo rimette in sesto, e ci dice quanto abbia sofferto per la vita libera del marito, ora morente, di cui è stata studentessa e il quale considera la monogamia un complotto borghese.

La divisione in due di ogni puntata, con la stessa storia raccontata dal punto di vista dei due protagonisti principali della puntata è un bel “trucco di sceneggiatura”, che a lungo andare suona un po’ trito. Devi comunque essere un grande sceneggiatore per tenere in piedi una storia quasi senza storia, quasi solo basata sui movimenti emotivi.

E’ prevista la quarta serie: sarebbe potuta benissimo finire qui, ma le serie purtroppo vanno avanti fino a quando non si possono più vedere. Magari reggerà, come in fondo hanno retto più che dignitosamente The good wife e Homeland, tanto per dire i primi che mi sono venuti in mente.