Westworld

Da un vecchio (1973) film di Crichton con Yul Brinner sono state tratte queste dieci puntate di circa un’ora l’una. L’idea, che Crichton estenderà poi in Jurassik Park, e quella del parco di divertimenti di altissimo livello dove ad un certo punto i visitatori diventano vittime delle creature costruite per il parco stesso.

Qui gli “abitanti” sono androidi indistinguibili dai visitatori umani, che abitano un territorio sconfinato dove danno vita ad una quantità di filoni narrativi governati da una complessa macchina organizzativa, e dove i visitatori, in un’ambientazione western, possono sfogare i propri istinti violenti senza temere conseguenze. E’ un mondo di visitatori, con pochissime eccezioni, di soli uomini.

Se ci si mettesse a cercare la contraddizioni se ne troverebbero in quantità e perciò, scontato che la credibilità narrativa sia inesistente, vale la pena farsi prendere dal gioco di rimandi e anche da qualche non ingenua riflessione circa libertà, determinismo, coscienza di sè.

Saremo sorpresi – senza eccessi, direi – dallo scoprire qualche inversione di ruolo fra umani e androidi, dallo svelamento della verà identità di qualche umano invecchiato lì perchè vi ha scoperto la sua vera natura, ammirati dalla luciferina intelligenza del creatore di tutto ciò.

Come ci comporteremmo in un mondo dove potessimo ammazzare chi ci pare e come ci pare solo perchè ci abbia guardato storto e sedurre o, se ci piacesse di più, stuprare bellissime donne? Insomma, nella vita reale ci limitiamo per senso morale o per paura delle conseguenze? Alla fine, noi umani siamo naturalmente buoni o cattivi? Egoisti o altruisti?

Già essere indotti a porsi tali interrogativi, su cui la filosofia indaga da sempre senza che si sia giunti a conclusioni univoche, dà dignità ad un prodotto che è comunque di buon livello.

Su tutti, Ed Harris ed Anthony Hopkins.

E’ stata annunciata una seconda serie; la mia impressione è che ciò che poteva essere dato sia stato dato, difficile immaginare novità tematiche, senza le quali le infinite storie che si potranno aggiungere rischieranno la ripetitività. Vedremo quando sarà il monento, comunque.

Quirke

Tre episodi di circa un’ora e mezza l’uno, quindi di fatto tre film con ciascuno una propria storia e con gli stessi protagonisti.

Gabriel Byrne è Quirke, un anatomopatologo che si trova quasi suo malgrado ad investigare su morti sospette.

Non è tuttavia il giallo la cifra tematica delle mini serie, quanto l’ambientazione nella Dublino bacchettona ed ipocrita del secondo dopoguerra ed i collegamenti peccaminosi con la Boston di derivazione irlandese. Abbiamo dunque il vecchio giudice sopra alla legge, triangolazioni e intrecci familiari tortuosi con il fratellastro, la moglie, la figlia e sullo sfondo i bambini abbandonati negli orfanotrofi, la ricerca dei genitori e di tutto un po’.

Nulla di particolarmente originale, ambientazione curatissima, attori tutti che ti immagini usciti dai teatri shakespeariani, la sola interpretazione, sommessa ed intensa come in “In treatment”, di Gabriel Byrne vale la visione.

La serie – BBC – è del 2014.

Mia madre (Nanni Moretti)

Mia madre
E’ un film – delicato quanto può esserlo considerato l’argomento – sulla morte. Meglio: sull’avvicinarsi della morte richiamato dalla morte delle persone care.

Nell’ordine naturale delle cose, stavolta, quindi senza la drammaticità de “La stanza del figlio”, con le esistenze sconvolte dalla morte di un figlio, di un fratello piccolo. Qui muore una madre, una nonna.

Nanni Moretti si sdoppia nella coppia di sorella/fratello al capezzale della mamma. Ritaglia per sè/attore la parte ragionevole, pensosa, tranquilla, tuttavia insofferente al lavoro routine, tanto da lasciarlo, e lascia a Margherita Buy, che non a caso impersona una regista, la propria parte nevrotica ansiosa intollerante.

Intorno, tutti personaggi dolenti – l’ex marito, il compagno mancato, l’infermiera, l’attore che non ricorda le battute, i compagni di set – e tendenzialmente spenti da esistenze che si intuiscono faticose, nelle quali il piacere non ha lasciato tracce consistenti. Fa eccezione, con la sua vitalità, la nipote liceale, a cui la nonna regala le ultime lezioni di latino, ma fa eccezione, sembra, solo perchè giovane, solo perchè “non sa ancora”. Fanno anche eccezione, per la verità, gli ex alunni ora di mezza età, rimasti affezionati alla professoressa di latino e che regalano ai figli qualche bel ricordo inedito.

Il film nel film è una scelta di sceneggiatura già sperimentata ne “Il caimano”, che qui mi pare risulti un po’ debole, ma che benedico per la presenza di John Turturro, che ci regala una gamma completa di prova d’attore, fino al memorabile ballo – non manca mai un momento “musical” nei film di Moretti – godibile non meno del Jesus de “Il grande Lebowsky”.

Gli ultimi fotogrammi sul bel viso di Margherita Buy mentre torna sulle ultime parole – forse reali, forse immaginate, ma che importa – scambiate con la madre trasmettono il passaggio dalla sofferenza per la morte della persona cara all’incedere della consapevolezza dell’inevitabile avvicinarsi della propria.

Le serve. Un caso che non esiste (regia Marco D’Amelio)

Adattato e ridotto da Marco D’Amelio, che ne è anche regista, da un testo di Genet.
Due sorelle a servizio di “madame”. Le due sorelle, raccolte e allevate da madame, hanno verso la loro benefattrice il risentimento di chiunque riceva doni in condizione di inferiorità, e ne progettano e mimano l’omicidio.
Anche perchè terrorizzate di poter essere scoperte di aver fatto – forse ingiustamente, forse giustamente – arrestare, con lettere anonime, l’amante di madame.
Un omicidio ci sarà. Lo scambio di ruoli fra le due sorelle, qualche accenno potenzialmente incestuoso, le reciproche recriminazioni circa impegni presi e non mantenuti di solidarietà assassina, la più che fragilità psicologica di entrambe tutto ciò lascia sullo sfondo, come inessenziale, chi ne sarà la vittima. Questo, mi è sembrato, il tema di fondo.
Il regista dichiara di aver voluto mettere in scena un lavoro “senza sentimenti”. Forse senza sentimentalismi, perchè tutta l’ora e un quarto dello spettacolo è pervasa da odio, rancore, più ancora che di voglia di vendetta.
Un odio molto di testa, peraltro, e quindi, infine, a conferma delle intenzioni dichiarate.
Frequento pochissimo il teatro, mi mancano molti strumenti critici, e tuttavia forse, una volta entrati nella logica dell’adattamento, poteva valer la pena di lavorare anche sul linguaggio perchè in qualche momento le parole – antiche – fra serva e padrona stridono con alcune attualità, e l’obiettivo dell’opera nel non-tempo rischia di scontrarsi con tempi giustapposti.
Brave le tre attrici, sopratutto la serva che recita fino a poco prima della fine tutta compressa in un’atonalità che non dev’essere stato facile conseguire.
Complimenti al regista – molto giovane, attivo anche nel cinema, e di cui si sentirà parlare ancora – per il rigore dell’allestimento e la mano sicura nella conduzione.
Infine: anche occasione per aprire una nuova categoria nel mio blog.

Il capitale umano (Paolo Virzì)

Quello che si chiama un film riuscito, ben fatto, che si vede con soddisfazione.
Il tema delle due famiglie di livello sociale e culturale diverso, che permette di esplorare i diversi contesti sociali e le contraddizioni che nascono, accompagna Virzì dai quasi esordi di “Ferie d’agosto”.
Qui c’è in più un vero giallo con un morto in un incidente che si rivelerà colposo, anche se classificarlo “thriller” come fa Mymovies mi è sembrato eccessivo.
Il racconto si svolge in una spirale in cui la storia, vista volta a volta dal punto di vista di un personaggio diverso, si arricchisce di particolari che confermano o sviano rispetto alle precedenti ipotesi. Il meccanismo è bel oliato – addirittura “troppo”, a tratti – dalla sceneggiatura.
Gli attori: tutti bravi, gran parte del meglio del cinema italiano. A voler cercare il pelo nell’uovo forse lo spiritello commedia all’italiana ha reso Bentivoglio anche troppo gaglioffo, mentre tutti sopra la media gli altri – Valeria Bruni Tedeschi, Luigi Lo Cascio, Valeria Golino – con una citazione particolare per Fabrizio Gifuni che a me è parso semplicemente perfetto.

Still life (Uberto Pasolini)

Un omino piccolo e buono, senza una vita privata, tutto dedito, da un triste ufficio comunale di un quartiere londinese, a rintracciare i parenti di persone sole, decedute.
Svolge il suo lavoro con passione e sollecitudine, ovviamente – scontato in questo tipo di personaggi – con meticolosità vicina all’ossessività per i particolari, e perciò gli oggetti tutti perpendicolari sulla scrivania, etc.
Una nuova morte, un nuovo incontro, potrebbe cambiargli la vita.
L’happy end ci è risparmiata, ma non ci è risparmiato un finale che ho pensato lo avrà obbligato il produttore. Invece il produttore è lo stesso regista, che sta nel cinema – ho scoperto – principalmente proprio come produttore, e produttore di fiuto, visto che suo è stato Full Monty.
Peccato che nel duello tutto interiore che io immagino essersi svolto fra regista e produttore abbia prevalso il produttore, e il regista/sceneggiatore non si sia affidato ad un altro sceneggiatore per un finale diverso.
Gli ultimi due minuti, solo quelli.
Comunque visto volentieri.

Pina (Wim Wenders)

Non mi sono mai appassionato per la danza, e “Pina” è un po’ che lo tengo lì, in attesa.
È arrivata la serata giusta, e Pina è uno di quei film che vanno visti, piaccia o non la danza.
Dev’essere stata una persona straordinaria, Pina Baush, anche solo da come ne dicono i suoi compagni d’arte.
Wenders ci ha aggiunto ambientazioni esterne – mai paesaggi esotici o “belli” – che mi hanno ricordato quando “Paris Texas” e quando certi scorci di Pasolini in Teorema o in Medea.
Della danza, delle coreografie, dei danzatori – corpi capaci di qualsiasi – non so dire altro che riprendere una frase lì ascoltata: quando le parole non arrivano a dire, parla il corpo.
Stavolta il 3D credo ne sarebbe valsa la pena.

Venere in pelliccia (Roman Polansky)

Due soli attori – un’attrice strappa fuori tempo un’audizione ad un regista – mettono in scena una sequenza di scambio di ruoli scambio di parti scambio di persone.

La magia di Polansky sta nel farci passare dal livello reale (attrice / regista) al livello teatrale (donna / uomo) al livello lotta di potere fra i sessi al livello scambio di ruolo con qualche intervallo di cambio di prospettiva (l’attrice conosce davvero la fidanzata del regista? sta davvero facendo lì un lavoro diverso da quello dell’attrice?), il tutto miracolosamente privo di sbalzi, senza fare alcuna fatica nel sapere “dove siamo adesso” e tuttavia con la continua sorpresa del trovare uno al posto dell’altra o al posto di se stesso in altro ruolo.

E’ il tema del potere nelle relazioni di coppia che viene esplorato qui agli estremi del piacere della sottomissione e della dialettica servo/padrone. Come nei precedenti, e altrettanto belli, “La morte e la fanciulla” e “Luna di fiele”.

Infine, piacere inaspettato, ho scoperto che Polansky sta per girare un film su Dreyfus, tratto da L’ufficiale e la spia di Robert Harris, che ho appena letto.

Grande regista, Polansky.

18Filmografia Israele

Per ora vado a memoria, un po’ alla rinfusa. Mi propongo di approfondire. Sono graditi suggerimenti.

The believer

Il giardino dei limoni

Valzer con Rashid

Private

Lebanon

La sposa siriana

Munich

Vai e vivrai

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Pilar a Viterbo

In uma bella e spaziosa libreria, concerto di Pilar a sostegno di “Caffeina”, un’associazione culturale viterbese.
Pilar ha una voce con un’estensione come poche, e canta con vera intensità le sue canzoni non facili.
Pilar
È una di quelle cantanti che interpreta anche con il corpo, e in un momento questo è vero anche alla lettera: le mani sullo sterno come una percussione dal dentro.
Mi è mancata, paradossalmente, la musica. E non certo perchè fosse accompagnata da un solo, bravo, chitarrista: anche Petra Magoni canta con il solo contrabbasso. Mi è mancata la melodia. O meglio: le note mi arrivavano quasi disallineate dalle parole, come pretesti per vocalizzi di sapore jazz senza che di jazz si tratti.
Ma forse è proprio l’intenzione di Pilar, che ha presentato il nuovo album “Sartoria Italiana Fuori Catalogo”, proponendo “sartoria” come artigianato e “fuori catalogo” come musica fuori schema.
Sarà, ma il momento di emozione a me è arrivato con l’unica canzone non sua, ed era “Con Toda Palabra”, della cantautrice spagnola Lhasa de Sela.
Il che mi ha tolto il dubbio che solo con le canzoni da lei scritte potesse raggiungere tale intensità. Quindi, perchè non proporsi di più come interprete?