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Il cardellino (Donna Tartt)

Una bella storia, ben raccontata.
Il cardellino è un piccolo quadro di un autore fiammingo, che il protagonista sta ammirando in una mostra, sapientemente guidato, nell’osservazione, dalla mamma, quando….
Le prime cento pagine si leggono d’un fiato, Donna Tartt è di quelle scrittrici che ti fanno sentire l’odore della polvere.
Il cardellino, comunque al centro delle molteplici vicende, mi ha ricordato la palla da baseball di De Lillo in Underworld. L’oggetto che attira gli avvenimenti, li piega, li produce, li scansa.
E la relazione fra due bambini che si ritrovano uniti dalla stessa tragedia, e poi negli anni si rincorrono a loro modo, ha qualcosa de “La Solitudine dei numeri primi”.
Un difetto è la ridondanza. Eppure le tante pagine anche “in più” sono quelle che fanno durare qualche sera ancora il rapporto con i personaggi a cui ti affezioni.
E poi quello che a me è parso un eccesso proprio quantitativo di sballi da droghe alcool impasticcamenti, non sempre necessari nelle descrizioni troppo puntuali, quasi da manuale del piccolo drogato.
Una storia così lunga, che accompagna il ragazzino dodicenne delle prima pagine fino ai circa trent’anni, ha bisogno di qualche colpo di scena, e non ne mancano. Ma le morti improvvise – manco fosse un film di Ozpetec – sopravvengono a freddo, se ne avverte la funzione di sostegno alla storia più che la intrinseca necessità stilistica.
Il finale – l’atmosfera nebbiolosa di Amsterdam è quella (lì a Bruges) de “La coscienza dell’assassino” – è travolgente come un film d’azione americano di quelli fatti bene.
Ma attenzione: la sostanza c’è ed è lo spessore di ciascun personaggio, che emerge dai rispettivi vissuti, senza che ci sia mai il bisogno che l’autrice ci dica “come è” Tizio o Caio.
Il finalino – ormai i romanzi hanno tutti la struttura della sceneggiatura – invece ci poteva essere risparmiato: le considerazioni cosmiche dell’autrice posso condividerle ma non aggiungono sostanza al romanzo che già ne straborda di suo.
Comunque: da leggere, e domani vado a cercare i precedenti di Donna Tartt (ma che razza di cognome è?).

PS non è forse irrilevante aggiungere che per la prima volta ho letto un romanzo su Kindle.
Beh, mi dispiacerà ma – in generale – il libro in carta è da considerare morto a brevissimo, resterà solo per edizioni preziose o per chi non saprà rinunciare a com’era bello prima, come i patiti del vinile per i dischi, e sarà anche disposto a spendere – fra un paio d’anni, direi – tre o quattro volte tanto.
Oggi (14/09/14) ho preso in mano per la prima volta “Il cardellino” in libreria: sono circa 900 pagine, sarebbe stato scomodissimo da leggere al letto ma anche sul divano. E, sempre oggi, ero intenzionato a comprare “Il conte di Montecristo”, che non ho mai letto, ma di fronte alle 1.000 pagine scritte piccolissime mi sono detto che è certo che lo leggerò su Kindle e che, essendo un classico senza più diritti di autore, lo troverò pure gratis.

L’ufficiale e la spia (Robert Harris)

L’affare Dreyfus, nella Francia di fine ottocento.
Avevo informazioni vaghe, sui fatti, avevo una reminiscenza del J’accuse di Zola, ne ho ricavato un’informazione completa, circa i fatti, organizzati in un romanzo appassionante.
Un ufficiale francese – Dreyfus, ebreo, e quindi anche l’antisemitismo farà la propria parte – ingiustamente accusato di essere una spia dei tedeschi, condannato con prove false e deportato sull’isola del diavolo (Sudamerica, di fronte alla Caienna) in condizioni disumane, e un altro ufficiale francese che andrà a fondo dei dubbi che, all’inizio casualmente, gli verranno sulla vicenda. E che per questo sarà a sua volta perseguitato.
Ecco un romanzo che non aggiunge niente alla storia della letteratura, che non contiene sperimentazioni, che non ha una lingua elaborata, che non ti sorprende con la frase ad effetto.
Ecco un romanzo.
Quattrocento pagine ben scritte, che scorrono e ti prendono e vuoi leggere ancora per sapere come andrà a finire anche se lo sai già.
E ritrovi e riconosci i burocrati – questi i grandi burocrati della guerra, ma non sono diversi i burocratini – prima ottusi poi disposti a qualsiasi nefandezza pur di mantenere il punto pur di non dover riconoscere di aver sbagliato. Non li ho conosciuti tanto diversi, anche se in – per fortuna – contesti non così drammatici, nella capacità di piegare qualsiasi virgola alla verità pregiudiziale già stabilita.
Un gran bel libro, che mi ha fatto venire voglia di andare a cercare Il conte di Montecristo, che ho solo visto reso per lo schermo, ma mai letto.
E gli altri libri di Robert Harris.

Maschio bianco etero (John Niven)

Una bella sorpresa, uno di quei libri comprati a naso, cioè aprendo a caso e provando a leggere qualche pagina. A volte funziona.
Il protagonista è uno scrittore di successo, ora soprattutto sceneggiatore corteggiatissimo, sciupone in tutti i sensi nato con un talento che è anche la sua maledizione.
La prima metà del libro in America, Los Angeles, alle prese con la solita necessità di concludere una serie di lavori se no il fisco, e la seconda in Inghilterra, da cui proviene, con la ripresa di contatto con la famiglia di origine, la moglie separata, la figlia adolescente.
Situazioni sempre un po’ eccessive, come una via di mezzo fra Bret Easton Ellis – ma senza alcuna efferratezza – e Nick Norby – ma senza la sua leggerezza – e comunque godibile. Secondo me anche Californication ha contribuito ad inspirare.
Sono rimasto deluso dal finale, costruito proprio con la grammatica di finalino e finale, ma sono sicuro che ai più la conclusione piacerà.
Vale la pena leggerlo, credo che cercherò il precedente e, a quanto sembra, più noto, “A volte ritorno”.

Le correzioni (Jonathan Franzen)

Storia di un’anziana coppia e dei tre figli.

Suona banale, vero? E, infatti, nemmeno c’è una vera “trama”, se non un debole filo che porta a convergere verso “un ultimo Natale insieme in questa casa”. Se pure ci si riuscirà.

Enid ed Alfred sono rimasti nella casa familiare, nel Midwest, mentre i tre figli sono sparsi fra Philadelphia, New York, addirittura Lituania.

Non so bene come parlarne: non ha senso che racconti le storie di ciascuno, nè le storie parallele dei vari personaggi di contorno, ognuno dei quali ha una sua storia “importante”. Anzi, se c’è un limite può essere questo, ma se pure qualcuna di queste storie potrebbe non esserci, e non si perderebbe niente dell’essenziale, pure niente suona superfluo, inutile.

Me la caverò così: è un romando bellissimo, di quelli che riconciliano con la lettura.

Ci sono pagine emozionanti, pagine commoventi, pagine terribili, pagine divertenti, graffianti, tragiche… se dovessi cercare ad ogni costo una sintesi, direi un’ironia amarerrima.

Un libro da leggere. Se non fosse un avverbio talmente abusato da aver perso la propria valenza, direi: da leggere assolutamente.

Il weekend (Peter Cameron)

Un nuovo amore che può far ripartire, ad un anno di distanza da un’insopportabile perdita.

Conosciuto da poco, e quindi non c’è stato tempo nè modo di spiegare che gli amici presso i quali stanno andando a passare il weekend sono amici speciali, perchè lui era il fratello dell’amore morto.

E nemmeno di spiegare che l’amore precedente, ancora presente – e come potrebbe essere altrimenti? – nel ricordo e nella pelle, è morto proprio lì, lì dove stanno andando per il weekend.

Non solo: è morto proprio un anno fa.

Perciò, un nuovo amore appena nato, con già qualche handicap iniziale – la differenza di età e condizione sociale – si confronta con una vita passata, un’importante vita passata, proprio nel primo anniversario della morte.

Non sarà facile.

Il problema Spinoza (Irvin D. Yalom)

Di Yalom, che prima non conoscevo, un amico mi regalò qualche anno fa “La cura Schopenauer”, che mi piacque abbastanza.

Così, quando mi sono trovato davanti, in libreria, “Il problema Spinoza”, con lo stesso accattivante formato e colore, mi sono detto perchè no, in fondo di Spinoza so poco, se sarà riuscito come con Shopenauer a renderne il pensiero in un intreccio ben congegnato…

Si intrecciano due storie: quella di Spinoza, giovane brillante studioso della comunità ebrea di Amsterdam, destinato ad alti traguardi, ma che non si piega alle tradizioni e alle verità consolidate, vuole ricercare liberamente, e per questo – a ventitrè anni – viene espulso dalla comunità, con una formula tale che nessuno degli ebrei potrà più nemmeno rivolgergli la parola.

L’altra stora è quella di un ancor più giovane – diciassette anni – allievo di un liceo estone, Rosenberg, a cui il preside, ebreo, a fronte di espressioni violentemente antisemite, impone la lettura di Goethe, che di Spinoza fu grande estimatore.

Per tutta la vita Rosemberg, che diventerà uno dei nazisti più feroci, sarà ossessionato dal “problema Spinoza”: come era possibile che un ebreo avesse scritto cose di tale profondità che lo stesso Goethe ne aveva tratto ispirazione?

Si alternano, così, i dialoghi serrati di Spinoza con i suoi amici che di nascosto lo vanno a trovare con le ossessioni di Rosemberg e lo sviluppo del nazismo.

La scrittura scorre fluida, sempre piacevole, ma la costruzione d’insieme mi arriva un po’ artefatta. Vedo che Yalom ha scritto anche un “Le lacrime di Nietzsche”, a cui, nonostante la mia curiosità su Nietzsche, di cui ho ammirato la forza della scrittura, dubito vorrò avvicinarmi.

Miele (Ian McEwan)

Se avessi letto “Miele” senza conoscerne l’autore avrei scommesso su John Le Carrè. Avrei perso, ma fino alla fine – e soprattutto alla fine – avrei creduto che questo fosse un romanzo di Le Carrè.

Naturalmente, un fine analista letterario troverebbe le ragioni per smentirmi, e comunque il fatto è che il romanzo lo ha scritto Ian McEwan.

Siccome sono entrambi scrittori di cui ho letto credo tutto (di Le Carrè tutto, di McEwan quasi tutto), il fatto che mi si possano sovrapporre a me fa solo piacere. Magari entrambi si scoccerebbero di questo accostamento, ma tanto nessuno dei due lo saprà mai 🙂  .

Sicuramente di McEwan, ad ogni modo, è la capacità di entrare nell’animo femminile in tutte le sfumature e sottigliezze. La protagonista, infatti, è una giovane, poco più che ventenne negli anni settanta, che si ritrova ad essere parte di un progetto di “guerra fredda culturale” gestito dai servizi segreti inglesi.

La descrizione delle piccole meschine rivalità, i doppi tripli giochi all’interno dei Servizi, lo sfondo storico dell’IRA (quella sì che era una cosa seria…), dell’epica battaglia sindacale dei minatori poi sfociata in una terribile sconfitta, prodromo della vittoria della  Thatcher qualche anno dopo, tutto questo potrebbe essere della penna di Le Carrè.

Difficile dire altro della trama senza togliere il piacere delle sorprese, sempre sostenute dal rigore della storia, mai gratuite.

Anche il sottile dubbio insinuato che il protagonista possa essere un alter ego dello scrittore è proposto con levità, e non ti fa venir voglia di “voglio vedere se può essere vero”, ma ti dà il piacere intellettuale – che però arriva alla pelle – del gioco che potrebbe essere realtà.

Perciò, sia che McEwan abbia davvero vissuto una storia del genere, sia che gli sarebbe piaciuto averla vissuta, sia che l’abbia solo inventata, resta il godimento di una storia e di pagine memorabili, come il ritorno a casa per natale della protagonista, attraverso luoghi dove l’umidità mischia ricordi adolescenziali con turbamenti adulti e ci restituisce una figura di donna con tutte le sfumature dell’arcobaleno, tendente al grigio.

Infine, a differenza che in altri suoi romanzi, dove la tragedia incombe o ha segnato le vite dei protagonisti, qui predomina le leggerezza: il finale è aperto, anche se la ricorsività proposta (potrà essere pubblicato solo fra trent’anni, quando nessuno potrà esserne danneggiat0) guida in una specifica direzione.

Il matematico indiano (David Levitt)

Matematica e geometria vanno forte, nei titoli dei libri degli ultimi anni, ma qui non è un pretesto: Ramanujan è il matematico indiano davvero vissuto fra Cambridge e Oxford a cavallo della prima guerra mondiale.

È Hardy – importante matematico inglese dell’epoca – che, ricevuta una lettera di Ramanujan, ne intuisce il genio e fa in modo di farlo arrivare in Inghilterra.

Ramanujan è in origine un autodidatta che, solo bevendo avidamente qualsiasi testo di matematica o geometria gli capiti tra le mani, è arrivato a risultati straordinari. Che, appunto, colpiscono Hardy. Dirà di se stesso che l’esser riuscito a far arrivare Ramanujan in Inghilterra è stato il suo maggior contributo alla matematica.

Fin qui, la parte storica sicuramente vera.

Le relazioni tra gli accademici di Cambridge, gli amori, le gelosie personali e professionali, le invidie, le difficoltà di  ambientamento di Ramanujan sia culturali – bramino ortodosso e vegetariano – che pratiche, e le magie delle scoperte matematiche che tanto mi affascinano quanto mi risultano di inarrivabile astrattezza.

Le apparizioni di personaggi come Russel, Keynes, Wittgenstein danno la misura del livello di concentrazione di intelligenze in quei luoghi in quel periodo.

La bravura di Levitt sta nel raccontarti gli intrecci della vita quotidiana come se davvero lui stesso l’avesse vissuta, tanto ti senti immerso, nel leggere, in quell’atmosfera di eccitazione intellettuale, di miserie personali e di slanci solidali.

Un romanzo denso, che mi ha lasciato pieno di quella tristezza feconda.

PS trovo ignobile che nella nota di copertina sia citato Hardy e non Ramanujan.

L’esclusiva (Annalena McAfee)

Siamo nella Londra di fine anni ’80.

Una giovane freelance, tanto intraprendente quanto ignorante, ha – per qualche equivoco, si capirà poi – quella che potrebbe essere l’occasione della vita professionale, fino a quel momento dedicata ad un giornaletto scandalistico e altre minuzzaglie come capita: un’intervista esclusiva alla più che ottantenne grande giornalista, della quale sta per uscire un libro che raccoglie i migliori articoli di decenni di carriera.

Il primo incontro è decisamente pessimo: le due non comunicano proprio. La giovane cerca il pettegolezzo scabroso o almeno piccante, l’anziana verifica l’abissale ignoranza – sia del mondo che dei suoi articoli – della ragazza e la prende in giro facendole credere inesistenti suoi amori con cantanti di epoche sfalsate.

Da qui in poi la ricerca affannosa della giovane di qualche particolare che le permetta di tirar fuori un articolo significativo è l’occasione – mi è capitato di pensare, e il dubbio mi resta, che questo potesse essere lo scopo vero del romanzo – per immergersi nel mondo brillante e falso della Londra intellettual-letteraria-giornalistica. Pieno di gente che difficilmente dovrebbe venir voglia di frequentare, almeno a leggerne.

Ma scava scava, forse ci avviciniamo ad un segreto inconfessabile della vegliarda, qualcosa che rappresenterebbe una contraddizione enorme rispetto ai valori ai quali ha dedicato la vita, sui campi di battaglia (veri campi di battaglia) e tra le ingiustizie del mondo.

In parallelo, l’anziana giornalista scrive e riscrive, cambiando ora un verbo, ora un aggettivo, come in un esercizio di stile di Queneau, l’articolo che non ha mai voluto scrivere, quando per prima entrò in un campo di sterminio appena liberato.

Alla fine, ciascuno avrà avuto il suo, compresa la giovane freelance che l’autrice accompagna senza alcun giudizio e senza alcuna pietà ove la porta il suo essere una vera, integrale cretina.

 

Forte movimento (Jonathan Franzen)

Franzen è un incantatore di serpenti: ti tiene attaccato alle pagine e certe volte ti chiedi perchè lo sto leggendo?

Perchè scrive bene. Ma questa è (dovrebbe: si vede certa roba in libreria…) una precondizione. Perchè ti fa vivere con i suoi personaggi, anche se a volte le lunghe e dettagliate descrizioni ti fanno venir voglia – e capita di soddisfarla – di saltare al paragrafo successivo.

Come in “Libertà”, i temi disastri ambientali  / disastri relazionali sono dominanti. Qui con più di una punta di giallo industriale / rifiuti tossici, argomenti oggi di senso comune, ma va ricordato che il libro è uscito nel 1992, e perciò a Franzen va riconosciuto di stare in pieno nel suo tempo.

Ho sul tavolo da tempo “Correzioni”, che certamente leggerò, ma tra un Franzen e l’altro un po’ di tempo in mezzo lo sento necessario.