Articoli

Danny l’eletto (Chaim Potok)

Ancora mi chiedo che cosa mi abbia convinto a leggere tutte le quasi trecentocinquanta pagine di due adolescenti, che diventano amici dopo una quasi tragica partita di baseball, e dei loro padri. Più un paio di insegnanti, un fratello, una madre, ma tutti di contorno.

Siamo a Brooklin, fra l’inizio della seconda guerra mondiale e la costituzione dello stato di Israele.

Già: i due ragazzi sono ebrei osservanti, ma uno è osservante normale, mentre l’altro è di quelli vestiti sempre di nero con i riccioli la barbetta eccetera. Entrambi destinati a diventare rabbini, uno per scelta e l’altro perchè gli tocca in quanto figlio di una dinastia di rabbini che ha accompagnato la propria comunità nei secoli fra ricchezze e persecuzioni.

La tensione, dentro una scrittura piana e quasi dolce, è continua. È la tensione dell’ottenere il permesso del padre a frequentare questo ragazzo di un gruppo di ebrei con tradizioni e regole diverse, la tensione di un padre che non parla mai – mai, e quando la farà sarà per interposta persona – con il figlio se non nello studio del Talmud. Che finalmente ho capito (forse) che cos’è: una serie di commenti alla bibbia e di precetti e norme consolidati nei secoli dai sapienti riconosciuti.

A complicare le cose ce ne sono due versioni, del Talmud.

Così si possono stare giorni e giorni sull’interpretazione di cinque / sei righe, mettendo a confronto le diverse versioni, i punti di vista dei diversi sapienti che ne hanno scritto, le sfumature di significato, e la cabala che ogni parola trasforma in numero e cerca rapporti tra i numeri per risalire ad altre verità

Potok è riuscito ad appassionarmi a questo spaccare il capello in ventiquattro senza mai parlare del contenuto del contendere, e anche solo questo lo considero un risultato letterario straordinario.

Ho anche imparato che gli ebrei più ebrei degli altri erano contrarissimi alla costituzione dello stato di Israele, tanto da inscenare manifestazioni contro, perchè nasceva ad opera di ebrei non abbastanza religiosi.

Gli scontri ideologici tra i padri coinvolgeranno i figli, che per due anni, pur frequentando la stessa scuola, la stessa classe, non si potranno parlare. A me è parso un paradigma della “necessità” di vivere nella sofferenza, molto più efficace e sottile di quella indotta dai sensi di colpa cattolici, che alla fine con una bella confessione te li puoi lavare via, perchè è come se tutto il dolore del mondo fosse sulle loro – degli ebrei – spalle.

Continuo ad interrogarmi su chi propriamente “sia” un ebreo, visto che le razze sono molteplici, e che la religione non è discriminante, dato che pretendono di dirsi ebrei anche i non credenti. La risposta – provvisoria – che mi do è che si tratta della gloria di essere diversi. Speciali. E anche se non credi in dio la tua specialità deriva comunque dall’essere parte del popolo eletto. Una vita di paradossi, in cui che sia centrale lo studio del Talmud è tutt’altro che casuale.

A tutt’altri livelli, somiglia alla risposta che ci davano alla domanda a che serve studiare il latino: forma la mente. Già.

Finisco il libro con più domande che risposte, ammirato, toccato, sconvolto dai danni che le religioni, le ideologie, possono fare. Ma pare che non se ne riesca a fare a meno.

 

 

Coral Glynn (di Peter Camerun)

Un romanzo classico, in cui i fatti sono raccontati nella loro sequenza cronologica.

Già solo questo, oggi, ne fa una rarità, affogati come siamo da capitoli alternati di vite parallele, flashback a gogo, decine di personaggi che si intrecciano si perdono e si ritrovano in matasse aggrovigliate.

Peter Camerun, invece, mette in scena i personaggi, introduce un solo elemento fortemente drammatico  – tragico – che resterà comunque a lato di una vicenda di relazioni personali che si snoda piana, pur nei contrasti di sentimenti.

Il finale è sorprendente e asciutto, nessuna palla va nella buca che ci possiamo essere immaginati, ma tutte vanno in una buca che, a posteriori, ci diciamo che avremmo potuto pensare: più come nella vita vera che nei romanzi. E questa, forse, è la sua migliore qualità.

Perciò: il romanzo sarà pure morto, ma un buon romanzo tiene buona compagnia, qua e là ci suscita qualche riflessione, qualche ricordo, qualche progetto. Resta tempo sempre ben speso. Il che non si può dire di tante attività umane.

L’estranea (Patrick McGrath)

Un segreto di famiglia, svelato, – resterà ignoto se per consapevole volontà o per un momento di defaillance – cambia inesorabilmente, nel profondo, le esistenze di tutti i protagonisti di questo romanzo.

Chi perchè direttamente coinvolto, chi perchè legato a chi direttamente coinvolto.

E, siccome del segreto è rivelata la sostanza, ma non l’intero contesto nè i particolari, il romanzo scorre anche come un giallo in cui alcuni vogliono sapere, altri preferiscono evitare, ed ogni pezzetto di verità – o di interpretazione di chi la espone o trova? – che si aggiunge non si può prevedere quali effetti produrrà.

I protagonisti sono Constance, che vuole diventare padrona di se stessa finalmente liberandosi del padre da cui non si sente amata, ed il marito Sidney, che le risponde chiediti piuttosto perchè il cielo è azzurro alla domanda di Constance perchè dici di amarmi.

Constance e Sidney si alternano in prima persona capitolo per capitolo, ed è doloroso assistere alle rispettive letture degli stessi fatti che mai combaciano nell’essenziale.

Poi Iris, sorella un po’ sciamannata di Constance, innamorata di un pianista di pianobar, Howard, figlio di un precedente matrimonio di Sidney, Morgan, padre di Constance ed Iris, e Mildred, sua fedele governante.

Sullo sfondo, protagonista inconsapevole e tuttavia presenza discreta e metaforica del disfacimento e, forse, della ricostruzione, Penn station, la stazione dei treni al centro di New York che negli anni 60 fu demolita e ricostruita mentre il traffico continuava. E’ l’unico elemento che ci dà un’informazione sul tempo in cui il romanzo si svolge.

A me è piaciuto anche più di Follia, per il quale Patrick McGrath è soprattutto famoso. Ricordo anche Spider, che non ho letto ma di cui ho visto il bellissimo film che ne ha tratto Cronemberg. Non c’è allegria, di sicuro. Tanta vita, sì, c’è.

La scopa del sistema (David Foster Wallace)

Un romanzo sconclusionatissimo. Consapevolmente sconclusionato. E se penso che l’ha scritto a ventiquattro anni resto ammirato anche dalla padronanza di tanto materiale.
Una storia quasi non c’è: la nonna scappata dall’ospizio con altri venticinque vecchietti è qui e là evocata ma ne perdiamo le tracce, che pure sembrano portare al Grande Deserto (artificiale) dell’Ohio, la cui costruzione – il momento della decisione – è descritta in un esilarante capitolo che da solo vale il libro.
Superato un momento di stanchezza per quella che mi sembrava una dispersione, ho smesso di sforzarmi di identificare i protagonisti, di seguire le evoluzioni delle loro interazioni relazionali e sono rimasto immerso nel piacere delle situazioni paradossali e della lingua sorprendente. Il pappagallo che intercala il dialogo tra i due fidanzati con pezzi della conversazione svoltasi nello stesso luogo poche ore prima tra uno dei due e (forse) l’amante è un pezzo di bravura che dà un gusto ma un gusto! Quando poi il pappagallo diventa la voce di dio di un predicatore televisivo siamo proprio oltre. E il centralino telefonico con le sue diramazioni viventi, le due aziende concorrenti alla ricerca del mangime (!) per bambini che dia migliore dipendenza…
Insomma quando arrivo vicino alla fine mi dico e adesso come la conclude e dopo l’ultima pagina sono triste che non ce ne siano altre cinquecento.

La trama del matrimonio (Jeffrey Eugenides)

Quasi cinquecento pagine che scorrono, scorrono. Scorrono senza picchi e senza banalità, civettando tra i “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes e le atmosfere – sempre esplicitamente citate – da Jane Austin.
Potrebbe anche bastare, per giustificarne la lettura.

La descrizione di un amore in cui uno dei partner è affetto da disturbo bipolare – alternanza di periodi di depressione e di eccitato iperattivismo – è forse la parte migliore. A me è sembrata molto molto credibile. Vicina alla realtà. Che pure, per fortuna, non ho avuto occasione di incontrare.
Uno degli elementi che mi dicono di un libro hai fatto bene a leggerlo è quando sei vicino alla fine e hai voglia, proprio voglia, di sapere come va a finire.
Perchè i romanzi, come la vita, finiscono. E non è l’ultima delle ragioni per cui amiamo tanto leggerli.
Bene: il piacere maggiore mi è venuto proprio dalle pagine finali, in cui scivola una soluzione piana, con una propria bella coerenza che non si può dire inaspettata ma nemmeno attesa.

Bambini nel tempo (Ian McEwan)

Una delle sceneggiatrici de “La stanza del figlio” (Nanni Moretti), nel raccontare l’evoluzione della sceneggiatura si chiedeva: “che cosa c’è di più terribile della morte di un figlio?”. La risposta fu “che tu, padre, te ne ritenga causa”.
In “Bambini nel tempo” il protagonista – avviene nelle prime pagine quindi non svelo nulla per chi non lo avesse ancora letto – “perde” la figlia di tre anni in un supermercato: arriva alla cassa, si gira, e la bambina semplicemente non c’è più.
Ho pensato che forse l’ignoto, al contrario della morte, lascia una speranza. E, dall’altra parte che, per quanto estrema, la ferita da una morte si può rimarginare, mentre quella da una scomparsa continuerà a sanguinare per sempre.
I libri di Ian McEwan hanno in comune eventi improvvisi che irrompono nella vita di una persona e ne stravolgono l’esistenza. Fa forse eccezione Chesil Beach.
In comune con “Chesil Beach”, “Bambini nel tempo” ha la straordinaria capacità di restituire l’intensità dei sentimenti che, con tutta la loro forza e contradditorietà. attraversano le persone.
C’è anche una sorta di storia parallella – una coppia di amici che improvvisamente, nel pieno di una carriera travolgente, si trasferiscono in un posto sperduto in campagna – anche bella ma che non aggiunge niente al dramma di un uomo e una donna che non sanno come ritrovarsi dopo la scomparsa della figlia. Rispetto a questo, il più recente “Chesil Beach” ha invece raggiunto l’essenzialità.
Entrambi da leggere, senza riserve.

Questa è l’acqua (David Foster Wallace)

Racconti. Mi rendo conto, a distanza di una decina di giorni da quando ho finito di leggerli, che di nessuno ricordo la trama.

Di tutti ricordo i personaggi, le atmosfere, le situazioni.

I racconti di David Foster Wallace una trama ce l’hanno: è che a me è rimasto impresso altro: una scrittura movimentata, allusiva e descrittiva insieme. Con tutta la gamma dall’ironia al sarcasmo.

Ecco qua: “Onassis, sul suo yacht …. rimugina davanti a un succo di sedano nell’angolo bar, seduto su uno sgabello di teak. Il sedile dello sgabello e la superficie del bancone sono rivestiti di raffinatissima pelle grigiazzurra ricavata dallo scroto di capodoglio sotto la supervisione personale della signora O. Onassis gira i cubetti di ghiaccio con il grosso dito.”

Da rileggere, prima o poi.

Cavalli selvaggi (Cormac McCarthy)

Dialoghi secchi. Paesaggi che sembra di uscirne impolverati dal deserto e con gli occhi pieni pieni di colori e odori.

Non tutto si chiude, quindi più come nella vita che come nei romanzi. L’amicizia fra due ragazzi poco più che ragazzini è il tema di tutto il romanzo, come l’amore tra padre e figlio lo era in “La strada”. Il viaggio, il superamento delle difficoltà. Le ingiustizie. Bello, intenso, non consolatorio.

Teoria degli infiniti (John Banville)

Non conoscevo l’autore, irlandese del 1945. Ne ho comprato il romanzo, come a volte faccio, dapprima attratto dal titolo e dal disegno di Picasso in copertina, poi dalla buona scrittura annusata sfogliando a caso. Una storia non c’è, nè vuole esserci. Trecento e più pagine di descrizione di una decina di personaggi e delle loro relazioni – tutto sommato prive di significativi elementi drammatici – possono risultare un po’ faticose, non fosse per la scrittura che le sorregge. Non c’è un protagonista, se non il grande vecchio morente, sullo sfondo, e la famiglia intorno al patriarca con Mercurio – sì, il dio Mercurio, o Ermes per i greci – narratore inconsueto. I personaggi femminili sono tutti, ciascuno a suo modo, segnati da qualche lacuna o manchevolezza di base, dalle quali quelli maschili sembrano invece immuni. Alcune pagine – un rituale autolesionista, un pollo appena sgozzato che si “vede” come in una natura morta fiamminga – sono memorabili. È, infatti, la scrittura protagonista, soprattutto quando impasta gli interventi dispettosi e lussuriosi degli dei – Mercurio non è il solo presente – con le miserie umane. Sicchè le pagine in cui un soffio improvviso travolge una donna stupita dell’ardore inusuale dell’uomo e poi stordita dal ricordo confuso – forse un sogno? – sono quelle per le quali, soprattutto, varrà la pena averlo letto.

Invisibile (Paul Auster)

Difficile dirne. Della scrittura non mi permetto: certo che si legge bene! Il primo rovesciamento di senso può sorprendere e far esclamare ah, ecco che adesso si spiega questa stranezza. Il secondo, bah, il secondo fa pensare al gran mestiere. Le diverse forme scritte – il manosctitto incompiuto, la lettera, … – che all’interno della storia si rincorrono ricorsivamente e cercano di spiegarsi l’un l’altra mi piegano ad una struttura narrativa che mi appare più furba che sapiente.