Apeirogon (Colum McCann)

Abir è una bambina palestinese di dieci anni che va a comprare le caramelle e viene colpita alla testa da un proiettile di gomma sparato da una camionetta con dentro soldati israeliani. Morirà dopo qualche giorno.

Smadar è una ragazza israeliana di tredici anni che muore in attentato suicida al centro di Tel Aviv.

Bassam Aramin è il padre di Abir, Rami Ethanan è il padre di Smadar.

Ognuno dei due uomini ha un proprio percorso, e ne comincia un altro dopo la morte della figlia. A un certo punto i due percorsi si incontreranno, i due uomini diventeranno amici e andranno, quando insieme quando individualmente, a girare il mondo per parlare di pace.

Il romanzo è spezzettato a piccoli e piccolissimi capitoli, come a rappresentare anche letterariamente la scomposizione nell’anima di un uomo che si trova di fronte al peggiore evento che possa mai aver immaginato per la propria vita. Ed è tuttavia un romanzo in cui la ricomposizione umana va in parallelo con la ricomposizione formale.

I due fatti sono narrati a cerchi concentrici: da una parte il lungo viaggio, disseminato di ostacoli di ogni genere, per arrivare dal territorio palestinese all’ospedale israeliano dove la bambina sarà accolta e curata, dall’altra la ricerca affannosa della figlia, che “non poteva” stare nella zona dell’attentato.

In entrambi i casi con il coinvolgimento dei parenti, degli amici, ciascuno che cerca una notizia, porta un conforto, una maledizione.

Quando i due uomini arriveranno alla decisione di esporsi pubblicamente a favore della pace, riceveranno, dalle rispettive comunità, qualche comprensione e molte critiche e accuse di tradimento. Andranno avanti.

Il romanzo è inframezzato da parti quasi saggistiche, sulla storia della nascita dello stato di Israele e della Palestina, con una quantità di notizie sugli interventi di artisti e di politici, a restituire al lettore il contesto storico in cui sono maturate quelle due tragedie. Il progetto è riuscitissimo.

Colum McCann è di Dublino, e ne sa qualcosa dei conflitti infiniti fra popoli che vivono sulla stessa terra.

“Apeirogon” è una figura geometrica ideale: un poligono con un numero infinito di lati di lunghezza qualsiasi.

Da leggere, senza alcun dubbio.

Il crepuscolo del mondo (Werner Herzog)

Di Herzog lessi “Sentieri nel ghiaccio”: un viaggio a piedi da Monaco a Parigi per andare a trovare un’amica molto malata; una specie di fioretto, di preghiera laica, di sacrificio per amore dell’amica.

Herzog è anche, direi sopratutto, il regista autore di Nosferatu con Klaus Kinsky, suo attore preferito, interprete anche di tanti western all’italiana, e di Fitzcarraldo, dove fece ripercorrere alla troupe l’insana idea di risalire un fiume in America latina e di trasportare sulla terra la nave nei punti in cui non poteva navigare.

Dunque, la storia estrema di Hiroo Oneda, il soldato giapponese che per oltre venti anni continuò a tenere la postazione, e combattere, nell’isola filippina di Lubang, è proprio una storia per Herzog, che cerca le situazioni limite.

Sono poco più di cento pagine, che rendono la solitudine estrema, la paranoia fatta necessità di sopravvivenza, e infine gli onori tributatigli a partire dal presidente delle Filippine, e poi in patria.

Herzog lo incontra nel santuario dove si è ritirato, dove sono conservati i resti, a brandelli, della sua uniforme, che a Herzog viene permesso di toccare e dove scopre un oggetto che Hiroo aveva dimenticato.

Quello che non ti dicono (M. Calabresi)

Pochi, come Mario Calabresi, hanno raccontato una vicenda, e insieme un periodo storico, con altrettanto equilibrio.

Mario Calabresi è stato direttore de La Stampa e di Repubblica, da dove è stato mandato via perchè “troppo equilibrato” (ovviamente non fu questa la motivazione ufficiale).

Un passo indietro: quando, per stornare le indagini sulla bomba di piazza Fontana dai fascisti – poi riconosciuti responsabili – lo stato cercò di indirizzarle verso gli anarchici, il commissario Calabresi era colui che aveva in custodia l’incolpevole anarchico Pinelli, che morì dopo essere volato giù da una finestra della questura di Milano.
Perciò il commissario Calabresi diventò, in quella stagione dolorosa, uno dei “cattivi” designati, e fu assassinato a revolverate.

Mario Calabresi è il figlio del commissario Calabresi e ha raccontato, in “Spingendo la notte più in là”, l’evoluzione della sua famiglia dopo l’assassinio del padre – 1972 – con un equilibrio più che raro.

In questo nuovo libro scrive che, dopo il precedente, aveva giurato di non tornare più su quel periodo, ma un frate dall’Algeria gli parla di una sua quasi coetanea, che ha vissuto una vicenda dolorosa rimasta dimenticata.

Quasi coetanea perchè nata dopo la morte del padre, nel 1975, a sua volta morto senza sapere che gli sarebbe nata una figlia.

Marta è la figlia di Carlo Saronio, proveniente da una delle più influenti famiglie di Milano, ricca di un impero chimico.
Carlo rifiutava i suoi privilegi e oscillava fra volontariato cattolico e istanze gruppettare rivoluzionarie, tanto da mettere a disposizione alcune residenze familiari per attività criminali/terroristiche.

Quando, anche perchè innamorato della madre di Marta, se ne stava probabilmente staccando, fu rapito, forse consenziente, forse no, dai suoi stessi compagni, che ne chiesero il riscatto.
I criminali comuni ai quali fu appaltato il rapimento furono talmente stupidi – sembra di stare in un film dei Coen – da sbagliare la dose di anestetico, tanto che Carlo morì subito. Riuscirono tuttavia a far credere che fosse vivo e a ottenere un riscatto.
La storia è quella del dramma di una famiglia, in un periodo in cui i rapimenti erano il mezzo preferito della malavita – otto in contemporanea, in quei mesi – e del dramma di una giovanissima che si ritrova da pochissimo incinta e con la famiglia del compagno, con l’unica eccezione della madre di Carlo, che la vede come un’approfittatrice.
Solo anni dopo, grazie a un pentito, il corpo di Carlo sarà ritrovato.
Il frate dall’Algeria è un cugino di Carlo, schifato dal comportamento della propria famiglia verso la madre di Marta.
Questa la storia.
Tutto sommato una storia “semplice”, che Mario Calabresi sa restituire come un appassionante giallo attuale, ricostruendo il clima, gli odori, i sapori di un periodo della nostra storia difficile da immaginare per chi non l’abbia vissuto.
La scrittura è piana e onesta, a testimonianza di un equilibrio raro.

Anatomia di un istante (J. Cercas)

Un pezzo di storia recente reso in un racconto appassionante

Il ventitrè febbraio 1981 il colonnello Tejero irrompe nel parlamento spagnolo e interrompe la seduta di investitura di un nuovo governo.

Con un tricorno in testa spara da una pistola colpi in aria, seguiti da scariche di mitraglia, ancora in aria, da parte di altri della Guardia civil che partecipavano al golpe.

Intimano a tutti i presenti di nascondersi sotto ai banchi. Tutti – deputati, inservienti, commessi – ubbidiscono.

Tutti eccetto tre: il presidente del governo dimissionario Adolfo Suarez, il generale Gutièrrez Mellado e il capo del partito comunista Santiago Carrillo.

Da questo fermo immagine parte un’analisi del golpe, un’analisi dei principali personaggi implicati – entreranno in scena il re con i suoi consiglieri, saranno stanati i golpisti di retrovia – e ci viene restituto un affresco della società spagnola dopo solo cinque anni dalla morte di Franco, con la nuova democrazia che stenta ad esprimersi, appesantita da un passaggio che ha evitato la resa dei conti e una probabile nuova sanguinosa guerra civile ma al prezzo di portarsi dietro tutto il fascistume dell’era di Franco.

Il libro è appassionante, ogni protagonista è reso a tutto tondo e in tutte le sfumature dei gesti e della storia personale e politica. Uno per tutti: Suarez è un galletto di provincia che, a carriera politica ormai finita, non esita ad affrontare a muso duro i golpisti. “…lo votavano perchè era come loro avrebbero voluto essere… la Spagna degli anni Settanta era più o meno così: un Paese popolato da uomini volgari, ignoranti, cialtroni, giocatori d’azzardo, donnaioli e senza tanti scrupoli, provinciali con una morale da sopravvissuti allevati tra l’Azione cattolica e la Falange che avevano vissuto comodamente sotto al franchismo, collaborazionisti che non avrebbero mai ammesso la propria collaborazione ma che in segreto se ne vergognavano sempre di più e confidavano in Suarez perchè sapevano che … sarebbe sempre stato uno di loro.

È anche una specie di giallo con la ricerca, nei fatti e nelle dichiarazioni, delle vere intenzioni di ciascuno, prima e durante il golpe; perchè il golpe fallì in un giorno e mezzo, ma in quelle ore la regione militare di Valencia si sollevò, restò aperta fino all’ultimo l’opzione golpe duro / golpe morbido, pochi, pochissimi, si schierarono subito apertamente da una parte o dall’altra mentre i più cercarono di mantenere l’ambiguità sufficiente a schierarsi dalla parte giusta – quella vincente – una volta conclusa la vicenda.

Una delle pagine più belle descrive i saluti affettuosi, all’uscita dal parlamento-prigione, di Suarez, Mellado, Carrilo verso il generale Armada, che sarà poi condannato per il golpe ma che in quel momento credono sia stato il loro liberatore, mentre la sua presenza è la garanzia che Tejero ha chiesto per infine arrendersi.

Non c’è una donna, non c’è una storia d’amore, tuttavia un gran libro. Cercherò anche “Soldati di Salamina”.

Canale Mussolini (Antonio Pennacchi)

Dopo qualche intermezzo, ho letto anche Canale Mussolini. (di Canale Mussolini seconda parte dico qui).

È un libro di storia scritto vorrei dire in poesia, nonostante la prosa sia per lo più brusca, ma scorrevole come se ci fosse dietro un enorme lavoro di pulitura degli argini – tanto per restare in tema – di cui tuttavia non si sente mai il peso.

Conosciamo la famiglia Peruzzi ai primi del ‘900 e la seguiamo – mezzadri, nelle pianure ferraresi dei maledetti Zorzi-Vila – durante la prima guerra mondiale e poi lungo l’affermazione del fascismo, fino a che, rovinati dalla “quota 90”, sono costretti ad accettare di andare a bonificare le paludi pontine. I cispadani, così li chiamavano dispregiativamente gli abitanti di Sezze, Sermoneta e dei paesi vicini. Ricambiati da “marochini”. Tanti episodi di scontri e solidarietà, senza mai bene di quà e male di là.

Non sono affatto d’accordo con chi ne ha criticato la mancanza di giudizio morale rispetto al fascismo: i fatti sono visti dal punto di vista di chi li ha vissuti, nel momento in cui li ha vissuti, e questo è il solo modo di farceli rivivere, ciascuno libero di formarsi il proprio convincimento circa i giudizi.

Tutto l’arco del fascismo, con i vari personaggi storici delineati attraverso i rapporti con questo o quello della famiglia Peruzzi, scorre lungo il romanzo.

Metà famiglia fascista, metà socialista, quasi tutti inconsapevoli della storia che li attraversa e che tuttavia vivono con sangue lacrime e sudore.

Il racconto della bonifica delle paludi pontine, con la costruzione del centrale canale Mussolini, con i riallagamenti per previsioni errate e le riprese caparbie, l’Opera combattenti che regpla i flussi e la distribuzione dei poderi, restituisce la grandezza di un’impresa e la sofferenza e la fatica di chi l’ha sia progettata sia compiuta nei decenni, fra malaria e fame.

Tanti personaggi memorabili, tante pagine commoventi senza nemmeno un briciolo di pietismo.

Un grande romanzo. Una scrittura originalissima. Insieme al secondo, costituisce un punto di riferimento della letteratura italiana. Da far leggere nelle scuole, all’ora di storia.

La qualità sta fra l’Olmi de L’albero degli zoccoli e il Bertolucci di ‘900. Basta?

Canale Mussolini parte seconda (Antonio Pennacchi)

Canale Mussolini (la prima parte) vinse il premio Strega qualche anno fa, ed io mi ritrassi da questo scrittore non professionista, che nelle interviste parlava senza quella gnaggnera delle persone colte.

Qualcuno me ne parlò molto bene, e mi sono deciso a leggerlo partendo, per motivi non identificati – forse solo per averlo incontrato in libreria – da questa seconda parte.

Mi è piaciuto veramente molto. La scrittura è originale senza ricerca di inutili preziosismi, e Pennacchi ha quella capacità dei narratori sudamericani di mischiare la storia di un popolo con apparizioni fantasmatiche, con la Storia, con la costruzione di una nuova città – allora Littoria – dal niente, con i legami familiari stretti dalle provenienze geografiche più disparate.

E’ la storia della seconda guerra mondiale vissuta nella pianura pontina, fra l’occupazione tedesca e il fallimentare sbarco di Anzio degli americani.

Pennacchi ha la capacità di raccontare, attraverso i personaggi che, ciascuno per strade diverse ma tutti provenienti dalla stessa zona, incontrano la resistenza, la repubblica di Salò, l’8 settembre, la fuga del re, quella di Mussolini e Claretta con la moglie di Mussolini sullo sfondo. E riesce, senza fare sconti a nessuno, ma sempre ricordando che c’è un prima e c’è un dopo, nelle cose che accadono, a disegnare un affresco di rara verità.

E con brani di inaspettata poesia. Gli sfollati, il mistero dell’oasi di Ninfa forse salvata perchè fonte di informazioni per gli alleati, altri misteri, il primo affacciarsi di quello che sarà il boom immobiliare e il cambiamento profondo di tutto.

Poi l’amore per la propria città, scenette laterali ma gustose come il prefetto che la mattina presto aspetta al varco della pensilina della stazione gli impiegati dei ministeri che arrivano a Littoria da Roma, mentre l’aumento di stipendio ricevuto per spostarsi a Littoria implicava che vi risiedessero.

Tante pagine gustose, drammatiche, epiche, e grande capacità di mantenere uno stile costante, con trovate linguistiche come far parlare personaggi storici con quello strano burino-cispadano che suonano del tutto coerenti e accettabili.

Insomma, prima o poi leggerò anche la prima parte, serve un po’ di tempo prima di rientrare in queste atmosfere.

L’ufficiale e la spia (Robert Harris)

L’affare Dreyfus, nella Francia di fine ottocento.
Avevo informazioni vaghe, sui fatti, avevo una reminiscenza del J’accuse di Zola, ne ho ricavato un’informazione completa, circa i fatti, organizzati in un romanzo appassionante.
Un ufficiale francese – Dreyfus, ebreo, e quindi anche l’antisemitismo farà la propria parte – ingiustamente accusato di essere una spia dei tedeschi, condannato con prove false e deportato sull’isola del diavolo (Sudamerica, di fronte alla Caienna) in condizioni disumane, e un altro ufficiale francese che andrà a fondo dei dubbi che, all’inizio casualmente, gli verranno sulla vicenda. E che per questo sarà a sua volta perseguitato.
Ecco un romanzo che non aggiunge niente alla storia della letteratura, che non contiene sperimentazioni, che non ha una lingua elaborata, che non ti sorprende con la frase ad effetto.
Ecco un romanzo.
Quattrocento pagine ben scritte, che scorrono e ti prendono e vuoi leggere ancora per sapere come andrà a finire anche se lo sai già.
E ritrovi e riconosci i burocrati – questi i grandi burocrati della guerra, ma non sono diversi i burocratini – prima ottusi poi disposti a qualsiasi nefandezza pur di mantenere il punto pur di non dover riconoscere di aver sbagliato. Non li ho conosciuti tanto diversi, anche se in – per fortuna – contesti non così drammatici, nella capacità di piegare qualsiasi virgola alla verità pregiudiziale già stabilita.
Un gran bel libro, che mi ha fatto venire voglia di andare a cercare Il conte di Montecristo, che ho solo visto reso per lo schermo, ma mai letto.
E gli altri libri di Robert Harris.

Il problema Spinoza (Irvin D. Yalom)

Di Yalom, che prima non conoscevo, un amico mi regalò qualche anno fa “La cura Schopenauer”, che mi piacque abbastanza.

Così, quando mi sono trovato davanti, in libreria, “Il problema Spinoza”, con lo stesso accattivante formato e colore, mi sono detto perchè no, in fondo di Spinoza so poco, se sarà riuscito come con Shopenauer a renderne il pensiero in un intreccio ben congegnato…

Si intrecciano due storie: quella di Spinoza, giovane brillante studioso della comunità ebrea di Amsterdam, destinato ad alti traguardi, ma che non si piega alle tradizioni e alle verità consolidate, vuole ricercare liberamente, e per questo – a ventitrè anni – viene espulso dalla comunità, con una formula tale che nessuno degli ebrei potrà più nemmeno rivolgergli la parola.

L’altra stora è quella di un ancor più giovane – diciassette anni – allievo di un liceo estone, Rosenberg, a cui il preside, ebreo, a fronte di espressioni violentemente antisemite, impone la lettura di Goethe, che di Spinoza fu grande estimatore.

Per tutta la vita Rosemberg, che diventerà uno dei nazisti più feroci, sarà ossessionato dal “problema Spinoza”: come era possibile che un ebreo avesse scritto cose di tale profondità che lo stesso Goethe ne aveva tratto ispirazione?

Si alternano, così, i dialoghi serrati di Spinoza con i suoi amici che di nascosto lo vanno a trovare con le ossessioni di Rosemberg e lo sviluppo del nazismo.

La scrittura scorre fluida, sempre piacevole, ma la costruzione d’insieme mi arriva un po’ artefatta. Vedo che Yalom ha scritto anche un “Le lacrime di Nietzsche”, a cui, nonostante la mia curiosità su Nietzsche, di cui ho ammirato la forza della scrittura, dubito vorrò avvicinarmi.

Il matematico indiano (David Levitt)

Matematica e geometria vanno forte, nei titoli dei libri degli ultimi anni, ma qui non è un pretesto: Ramanujan è il matematico indiano davvero vissuto fra Cambridge e Oxford a cavallo della prima guerra mondiale.

È Hardy – importante matematico inglese dell’epoca – che, ricevuta una lettera di Ramanujan, ne intuisce il genio e fa in modo di farlo arrivare in Inghilterra.

Ramanujan è in origine un autodidatta che, solo bevendo avidamente qualsiasi testo di matematica o geometria gli capiti tra le mani, è arrivato a risultati straordinari. Che, appunto, colpiscono Hardy. Dirà di se stesso che l’esser riuscito a far arrivare Ramanujan in Inghilterra è stato il suo maggior contributo alla matematica.

Fin qui, la parte storica sicuramente vera.

Le relazioni tra gli accademici di Cambridge, gli amori, le gelosie personali e professionali, le invidie, le difficoltà di  ambientamento di Ramanujan sia culturali – bramino ortodosso e vegetariano – che pratiche, e le magie delle scoperte matematiche che tanto mi affascinano quanto mi risultano di inarrivabile astrattezza.

Le apparizioni di personaggi come Russel, Keynes, Wittgenstein danno la misura del livello di concentrazione di intelligenze in quei luoghi in quel periodo.

La bravura di Levitt sta nel raccontarti gli intrecci della vita quotidiana come se davvero lui stesso l’avesse vissuta, tanto ti senti immerso, nel leggere, in quell’atmosfera di eccitazione intellettuale, di miserie personali e di slanci solidali.

Un romanzo denso, che mi ha lasciato pieno di quella tristezza feconda.

PS trovo ignobile che nella nota di copertina sia citato Hardy e non Ramanujan.