Eccomi (Jonathan Safran Foer)

L’ho comprato per ragioni opposte: la segnalazione da parte di uno scrittore, una stroncatura su “Internazionale” così netta (una pallina su cinque) da mettermi in curiosità.

Avevano qualche ragione entrambi.

Più di seicento pagine di un libro per il quale la prima sintesi che mi è venuta è stata “esageratamente ebraico”. Perchè se è vero che lo spunto iniziale è il bar mitzvah (la festa di passaggio all’età adulta) del secondo di tre figli di una coppia di facoltosi intellettuali newyorkesi, che il bar mitzvah è anche l’occasione per l’arrivo a New York degli zii e cugini da Israele, dove un terremoto dà inizio ad una serie di catastrofi, però il fulcro del romanzo è la crisi di questa coppia.

E non c’era proprio bisogno di scomodare le sacre scritture per descrivere lo sfaldarsi di una relazione fra un acclamato autore di serie televisive – il massimo dell’intellettuale del momento – e un’architetta di successo.

Tutto origina, poco originalmente, da alcuni sms captati per caso, dei quali nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se solo di parole scritte si tratta o di fatti, ai quali segue una ripicca della quale pure nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se consumata o solo avvicinata.

Come – con ben altro spessore, e in un terzo delle pagine – in Cecil Beach di McEwan, la crisi precipita quasi senza la volontà di alcuno, e una famiglia con tre figli ben cresciuti ed alla quale non manca niente, esplode in modo insensato, senza uno straccio di tentativo di riparazione.

Le famiglie – le coppie – esplodono sì anche per occasioni futili, ma il lettore si aspetta di almeno poter intuire che cosa ci potesse essere dietro, sotto, sul fondo. Invece nessun indizio viene fornito, e forse non ce ne sono, e forse l’autore ha solo voluto fare sfoggio di bravura della serie scrivo così bene che vi faccio passare qualsiasi cosa,

Perchè, a scrivere bene scrive bene, se no non sarei arrivato a finire le seicento pagine (che se non ricordo male sono più vicine alle settecento che alle seicento).

Ma l’ambientazione ebraica è giustapposta al nucleo narrativo, non è “necessaria”, e francamente di questo ebraismo newyorkese, presente in tanti romanzi film e serie televisive, ne ho un po’ piene le scatole, convinto che sia sovraesposto rispetto alla realtà.

I dialoghi interminabili, con la inutile pretesa di farli apparire “veri”, nel senso di riprodurre le ripetizioni del linguaggio parlato, coprono almeno un quarto delle pagine. Ed hanno un difetto davvero grave: dal vitalista quasi animalesco zio d’Israele al nonno stra-anticonformista al ragazzino di tredici anni tutti parlano allo stesso modo: intelligente, capace di spaccare il capello in otto, ironico nel modo giusto, allusivo quanto basta eccetera.

Il libro è anche l’occasione per esaminare da vicino le infinite contorsioni dialettiche fra stare in Israele è un dovere per un ebreo e meglio scapparne prima possibile.

Lo consiglierei? Sì, con tanti distinguo, gran parte dei quali sono esposti qui sopra.

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