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Macchine come me (Jan McEwan)

L’autunno a noi
promette primavera
a voi l’inverno

Il modello nella foto di copertina corrisponde all’idea che, leggendo, mi sono fatta di Adam, l’androide che Charlie, non proprio benestante, ha comprato.

Ce ne sono solo venticinque esemplari al mondo, gli è costato una fortuna, ci ha investito tutta l’eredità della madre.

Siamo nel 1982, quindi del tutto inverosimile che un androide indistinguibile da un umano potesse esistere, ma McEwan si diverte a portarci in un retrofuturo in cui, per esempio, la Gran Bretagna è stata sconfitta nella spedizione per la riconquista delle Falkland, i Beatles ancora cantano, il settantenne Turing è sopravvissuto alla castrazione chimica e si gode una buona relazione con il suo compagno. Questa forma di riscrittura benevola della storia mi ha fatto pensare al Tarantino di “Bastardi denza gloria” e di “C’era una volta… a Hollywood”.

Turing è uno degli artefici di questo capolavoro, che una volta sballato va inizializzato dal proprietario con le – sofisticatssime – caratteristiche caratteriali desiderate. Charlie coglie l’occasione per aggiungere un tassello all’opera di seduzione in corso verso Miranda, alla quale affida una parte dell’impegno a “dare forma” ad Adam.

Charlie è tutto sommato un sempliciotto; Miranda, che nasconde una storia drammatica, è incapace di chiedere aiuto e ha il talento di ottenerlo comunque. La presenza di Adam, che a mano a mano viene autoconfigurandosi anche nei sentimenti, nelle istanze etiche, e nel costruire una forma di coscienza di sè, fa da catalizzatore di una serie di eventi che riguardano la relazione fra Charlie e Miranda.

Alcuni spunti, che McEwan ha la capacità di restituirci in forme originali, richiamano situazioni presenti in altri suoi romanzi: una minaccia incombente come ne “L’amore fatale”, i dilemmi etico/giuridici de “La ballata di Adam Henry”, una casualità – un bambino problematico, forse adottabile – che modifica profondamente la vita corrente, come in “Sabato”:

Quanto più Adam – e i suoi fratelli e sorelle, con i quali in qualche maniera riesce ad essere in contatto – approfondisce la comprensione dell’umanità, tanto più si trova di fronte a istanze indecidibili, che inducono a scelte ora immerse in un’etica dell’assurdo, ora drammatiche, ora inaspettate, che incidono nella vita di quelli che dovrebbero essere i suoi “proprietari” in modi totalmente diversi dalle aspettative.

Adam legge tutto Shakespeare e ne svela alcune magagne: la godibilità di McEwan sta nel fatto che, senza una conoscenza profonda della letteratura inglese non si è in grado di capire se si tratti di verità o finzione narrativa. Matura quindi anche una consapevolezza artistica che si si esprime nella forma degli Haiku, le composizioni poetiche giapponesi semplici all’apparenza ma dalla struttura rigorosa e dai significati trascendenti.

L’ultimo Haiku che Adam compone mi è sembrato buon testimone del significato di questo romanzo.

Sono diversi anni che aspetto il Nobel per McEwan, direi che sia più che maturo.

Il mio romanzo viola profumato (Jan McEwan)

Un libretto di meno di cinquanta pagine, diviso in due.

Nella prima metà un raccontino delizioso sulla gloria degli scrittori affidata alla casualità, alla nemesi, alla slealtà.

Nella seconda metà una riflessione profonda, sempre con la scrittura leggera di cui McEwan ci delizia anche quando scrive di tragedie, sull’io come forma narrativa.

Da non mancare.

Nel guscio (Ian McEwan)

Un gioiellino godibilissimo, e mi fermerei qui, perchè McEwan è uno dei più grandi scrittori al mondo.

Ero restio, mi sembrava una trovata ad effetto far parlare in prima persona un feto vicino alla nascita, ma il risultato è un piccolo capolavoro.

I personaggi – lei, lui, l’amante di lei, l’amante di lui, che ci potrebbe essere di più banale? – li conosciamo attraverso il punto di osservazione limitato del nostro protagonista invisibile, che ascolta i discorsi, percepisce i movimenti interiori del corpo della madre, e ci dà modo di avvicinarci ai fatti in maniera graduale, aggiungendo pezzetti di verità passo passo.

È una storia di amore e tradimenti che strada facendo sconfina in un potenziale giallo/noir, i cui protagonisti sembrano assumere le caratteristiche dei delinquenti stupidi dei fratelli Coen, da Il grande Lebonsky a Fargo.

Mi ha richiamato, per il susseguirsi di eventi e di evoluzioni interiori in un tempo e in uno spazio (numero di pagine) limitato, Cecil beach, pure quello un piccolo capolavoro. La grandezza di McEwan sta nella capacità di passare da tragedie (Bambini nel tempo, Giardino di cemento), a irrimediabili contrasti di personalità e cultura (Cecil beach, appunto), a un divertimento come questo Nel guscio, con la stessa resa letteraria.

Il finale, poi, è proprio delizioso.

Da non mancare.

Eccomi (Jonathan Safran Foer)

L’ho comprato per ragioni opposte: la segnalazione da parte di uno scrittore, una stroncatura su “Internazionale” così netta (una pallina su cinque) da mettermi in curiosità.

Avevano qualche ragione entrambi.

Più di seicento pagine di un libro per il quale la prima sintesi che mi è venuta è stata “esageratamente ebraico”. Perchè se è vero che lo spunto iniziale è il bar mitzvah (la festa di passaggio all’età adulta) del secondo di tre figli di una coppia di facoltosi intellettuali newyorkesi, che il bar mitzvah è anche l’occasione per l’arrivo a New York degli zii e cugini da Israele, dove un terremoto dà inizio ad una serie di catastrofi, però il fulcro del romanzo è la crisi di questa coppia.

E non c’era proprio bisogno di scomodare le sacre scritture per descrivere lo sfaldarsi di una relazione fra un acclamato autore di serie televisive – il massimo dell’intellettuale del momento – e un’architetta di successo.

Tutto origina, poco originalmente, da alcuni sms captati per caso, dei quali nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se solo di parole scritte si tratta o di fatti, ai quali segue una ripicca della quale pure nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se consumata o solo avvicinata.

Come – con ben altro spessore, e in un terzo delle pagine – in Cecil Beach di McEwan, la crisi precipita quasi senza la volontà di alcuno, e una famiglia con tre figli ben cresciuti ed alla quale non manca niente, esplode in modo insensato, senza uno straccio di tentativo di riparazione.

Le famiglie – le coppie – esplodono sì anche per occasioni futili, ma il lettore si aspetta di almeno poter intuire che cosa ci potesse essere dietro, sotto, sul fondo. Invece nessun indizio viene fornito, e forse non ce ne sono, e forse l’autore ha solo voluto fare sfoggio di bravura della serie scrivo così bene che vi faccio passare qualsiasi cosa,

Perchè, a scrivere bene scrive bene, se no non sarei arrivato a finire le seicento pagine (che se non ricordo male sono più vicine alle settecento che alle seicento).

Ma l’ambientazione ebraica è giustapposta al nucleo narrativo, non è “necessaria”, e francamente di questo ebraismo newyorkese, presente in tanti romanzi film e serie televisive, ne ho un po’ piene le scatole, convinto che sia sovraesposto rispetto alla realtà.

I dialoghi interminabili, con la inutile pretesa di farli apparire “veri”, nel senso di riprodurre le ripetizioni del linguaggio parlato, coprono almeno un quarto delle pagine. Ed hanno un difetto davvero grave: dal vitalista quasi animalesco zio d’Israele al nonno stra-anticonformista al ragazzino di tredici anni tutti parlano allo stesso modo: intelligente, capace di spaccare il capello in otto, ironico nel modo giusto, allusivo quanto basta eccetera.

Il libro è anche l’occasione per esaminare da vicino le infinite contorsioni dialettiche fra stare in Israele è un dovere per un ebreo e meglio scapparne prima possibile.

Lo consiglierei? Sì, con tanti distinguo, gran parte dei quali sono esposti qui sopra.

Miele (Ian McEwan)

Se avessi letto “Miele” senza conoscerne l’autore avrei scommesso su John Le Carrè. Avrei perso, ma fino alla fine – e soprattutto alla fine – avrei creduto che questo fosse un romanzo di Le Carrè.

Naturalmente, un fine analista letterario troverebbe le ragioni per smentirmi, e comunque il fatto è che il romanzo lo ha scritto Ian McEwan.

Siccome sono entrambi scrittori di cui ho letto credo tutto (di Le Carrè tutto, di McEwan quasi tutto), il fatto che mi si possano sovrapporre a me fa solo piacere. Magari entrambi si scoccerebbero di questo accostamento, ma tanto nessuno dei due lo saprà mai 🙂  .

Sicuramente di McEwan, ad ogni modo, è la capacità di entrare nell’animo femminile in tutte le sfumature e sottigliezze. La protagonista, infatti, è una giovane, poco più che ventenne negli anni settanta, che si ritrova ad essere parte di un progetto di “guerra fredda culturale” gestito dai servizi segreti inglesi.

La descrizione delle piccole meschine rivalità, i doppi tripli giochi all’interno dei Servizi, lo sfondo storico dell’IRA (quella sì che era una cosa seria…), dell’epica battaglia sindacale dei minatori poi sfociata in una terribile sconfitta, prodromo della vittoria della  Thatcher qualche anno dopo, tutto questo potrebbe essere della penna di Le Carrè.

Difficile dire altro della trama senza togliere il piacere delle sorprese, sempre sostenute dal rigore della storia, mai gratuite.

Anche il sottile dubbio insinuato che il protagonista possa essere un alter ego dello scrittore è proposto con levità, e non ti fa venir voglia di “voglio vedere se può essere vero”, ma ti dà il piacere intellettuale – che però arriva alla pelle – del gioco che potrebbe essere realtà.

Perciò, sia che McEwan abbia davvero vissuto una storia del genere, sia che gli sarebbe piaciuto averla vissuta, sia che l’abbia solo inventata, resta il godimento di una storia e di pagine memorabili, come il ritorno a casa per natale della protagonista, attraverso luoghi dove l’umidità mischia ricordi adolescenziali con turbamenti adulti e ci restituisce una figura di donna con tutte le sfumature dell’arcobaleno, tendente al grigio.

Infine, a differenza che in altri suoi romanzi, dove la tragedia incombe o ha segnato le vite dei protagonisti, qui predomina le leggerezza: il finale è aperto, anche se la ricorsività proposta (potrà essere pubblicato solo fra trent’anni, quando nessuno potrà esserne danneggiat0) guida in una specifica direzione.

Bambini nel tempo (Ian McEwan)

Una delle sceneggiatrici de “La stanza del figlio” (Nanni Moretti), nel raccontare l’evoluzione della sceneggiatura si chiedeva: “che cosa c’è di più terribile della morte di un figlio?”. La risposta fu “che tu, padre, te ne ritenga causa”.
In “Bambini nel tempo” il protagonista – avviene nelle prime pagine quindi non svelo nulla per chi non lo avesse ancora letto – “perde” la figlia di tre anni in un supermercato: arriva alla cassa, si gira, e la bambina semplicemente non c’è più.
Ho pensato che forse l’ignoto, al contrario della morte, lascia una speranza. E, dall’altra parte che, per quanto estrema, la ferita da una morte si può rimarginare, mentre quella da una scomparsa continuerà a sanguinare per sempre.
I libri di Ian McEwan hanno in comune eventi improvvisi che irrompono nella vita di una persona e ne stravolgono l’esistenza. Fa forse eccezione Chesil Beach.
In comune con “Chesil Beach”, “Bambini nel tempo” ha la straordinaria capacità di restituire l’intensità dei sentimenti che, con tutta la loro forza e contradditorietà. attraversano le persone.
C’è anche una sorta di storia parallella – una coppia di amici che improvvisamente, nel pieno di una carriera travolgente, si trasferiscono in un posto sperduto in campagna – anche bella ma che non aggiunge niente al dramma di un uomo e una donna che non sanno come ritrovarsi dopo la scomparsa della figlia. Rispetto a questo, il più recente “Chesil Beach” ha invece raggiunto l’essenzialità.
Entrambi da leggere, senza riserve.