Ho ucciso l’angelo del focolare (Virginia Woolf)

“Ho ucciso l’angelo del focolare. È stata legittima difesa.”
“Uccidere l’angelo del focolare faceva parte del mestiere di scrittrice.”

 
 

di Virginia Woolf, tratto dal saggio “Professioni per le donne” , pubblicato all’ interno della raccolta “The death of the moth and other essays” (La morte della falena e altri saggi 1942).

“Mi accorsi che se volevo recensire dei libri, dovevo combattere contro un certo fantasma. E il fantasma era una donna, e quando imparai a conoscerla meglio la chiamai come la protagonista di una famosa poesia, la chiamai l’Angelo del focolare. Era lei che quando scrivevo una recensione si metteva in mezzo tra me e il mio foglio. Era lei che mi angustiava e mi faceva perdere tempo e mi tormentava a tal punto che alla fine la uccisi. Voi che appartenete a una generazione più giovane e più felice forse non capite che cosa intendo per Angelo del focolare. Proverò a descrivervela il più brevemente possibile. Era infinitamente comprensiva. Era estremamente accattivante. Era assolutamente altruista. Eccedeva nelle difficili arti del vivere familiare. Si sacrificava quotidianamente. Se c’era il pollo, lei prendeva l’ala; se c’era uno spiffero, ci si sedeva davanti lei; insomma era fatta in modo da non avere mai un pensiero, mai un desiderio per sé, ma preferiva sempre capire e compatire i pensieri e i desideri degli altri. E soprattutto(non occorre dirlo) era pudica. Il pudore era ritenuto la sua bellezza più grande, i suoi rossori il suo più bell’ornamento.

A quei tempi (gli ultimi della Regina Vittoria) ogni focolare aveva il suo Angelo. E quando incominciai a scrivere me la trovai davanti alle prime parole. L’ombra delle sue ali cadevano sulla mia pagina; sentivo nella stanza il fruscio delle sue gonne. Non appena presi in mano la penna per recensire il romanzo di quell’uomo famoso, insomma, lei mi scivolò alle spalle sussurrandomi:« Mia cara, sei una ragazza giovane. Stai scrivendo di un libro che è stato scritto da un uomo. Sii comprensiva; sii tenera, lusinga, inganna, usa tutte le arti e le astuzie del nostro sesso. Non far mai capire che sai pensare con la tua testa. E soprattutto, sii pudica». E fece come per guidare la mia penna. Ora voglio registrare l’unico gesto per cui mi assumo qualche credito, anche se di diritto il credito va dato a certi miei ottimi antenati che mi lasciarono una certa somma di denaro (facciamo cinquecento sterline l’anno?), sicché non mi trovavo nella necessità di dipendere esclusivamente dalle mie grazie per sopravvivere. Mi voltai e l’afferrai per la gola. Feci del mio meglio per ucciderla.

La mia giustificazione, se mi avesse trascinata in tribunale, sarebbe stata che avevo agito per legittima difesa. Non l’avessi uccisa, lei avrebbe ucciso me. Avrebbe succhiato la vita dai miei scritti. Perché, e me ne resi conto subito appena impugnata la penna, non si può recensire neppure un romanzo senza pensare con la propria testa, senza esprimere quella che secondo noi è la verità sui rapporti umani, sulla morale, sul sesso. E di tutti questi problemi, secondo l’Angelo del focolare, le donne non devono parlare liberamente e apertamente; le donne devono ammaliare, devono conciliare, devono, per dirla brutalmente, dire bugie se vogliono avere successo. Perciò, ogni volta che avvertivo l’ombra della sua ala sulla pagina, o la luce della sua aureola, afferravo il calamaio e glielo scagliavo contro.

Ce ne volle per farla morire. La sua natura fantastica le dava un vantaggio. È molto più difficile uccidere un fantasma che una realtà. Credevo di averla liquidata e invece eccola li di nuovo. Benché mi lusinghi di averla uccisa infine, fu una lotta durissima; che richiese del tempo che sarebbe stato più utilmente impiegato a imparare la grammatica greca; o a girare il mondo in cerca di avventure. Ma fu una vera esperienza; un’esperienza che doveva toccare a tutte le donne scrittrici a quell’epoca. Uccidere l’angelo del focolare faceva parte del mestiere di scrittrice”.

Grazie a Mara Venuto per la citazione

Punto esclamativo e punto interrogativo: origine

Nel mondo classico, i testi erano quasi sempre scritti senza interporre spazi fra le parole, la cosiddetta scriptio continua.

Nel corso del Medioevo si diffonde l’uso di separare le parole con uno spazio e, consequenzialmente, l’uso della punteggiatura. In questo periodo nascono molti segni moderni come il punto interrogativo e il punto esclamativo.

In greco antico al posto del punto interrogativo si usava il punto e virgola.

I monaci copisti, per evidenziare le domande, iniziarono a scrivere a fine frase “qo” che significava “questio” (domanda). Successivamente, per evitare confusione all’interno della frase, il “qo” venne stilizzato trasformando la “q” in una sorta di ricciolo e la “o” in un punto facendo nascere il punto interrogativo (?).

Il punto esclamativo fu invece ideato per sottolineare la gioia o sorpresa. Alla fine della frase veniva scritta la parola “io” che nel latino classico rappresentava una interazione di sorpresa. Nel tempo la “i” passò sopra la “o” che, anche in questo caso, si trasformò in un punto (!).

Fonti: di Jan Viktor White, Ideografia. Segni, simboli e immagini. Corso avanzato di grafica professionale, Milano, Editiemme, 1985.

quel genio di Umberto Eco

40 regole per parlare e scrivere bene l’italiano.

1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.

2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.

3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

4. Esprimiti siccome ti nutri.

5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.

6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.

7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.

8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.

9. Non generalizzare mai.

10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.

11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”

12. I paragoni sono come le frasi fatte.

13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).

14. Solo gli stronzi usano parole volgari.

15. Sii sempre più o meno specifico.

16. L’iperbole è la più straordinaria delle tecniche espressive.

17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.

18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.

19. Metti, le virgole, al posto giusto.

20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.

21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.

22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.

23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?

24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.

26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.

27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!

28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.

29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.

30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.

31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).

32. Cura puntiliosamente l’ortograffia.

33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.

34. Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.

35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.

36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.

37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.

38. Non indulgere ad arcaismi, hapax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differenza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.

39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.

40. Una frase compiuta deve avere.

(da: La Bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 2000)

Sei passeggiate nei boschi narrativi (Umberto Eco)

… dare forma al disordine dell’esperienza…

Stephen King, a proposito di scrivere.

14- Se lo puoi fare per piacere lo puoi fare per sempre.

Story / Dialoghi (Robert McKee)

Nel tempo, ho letto tutto ciò che mi è capitato circa come si scrive, il senso dello scrivere, eccetera: dalle Lezioni americane di Calvino a Carver, Yehoshua, Piperno, Franzen, Vargas LLosa, Patricia Highsmith e altri che ora non ricordo.

Ho letto anche testi su come si scrive una sceneggiatura, come si racconta una storia, sulla struttura dei miti riconoscibile in ogni drammaturgia.

I due volumi di Robert McKee sono quanto di meglio possa desiderare chi abbia di questi interessi, direi proprio che saziano.

I concetti fondamentali sono essenzialmente pochi, e sono esattamente esposti all’inizio di ognuno dei due testi, che procedono a spirale: un concetto alla volta viene ripreso, spiegato, esemplificato.

Ogni ripetizione si arricchisce di contenuto finchè il concetto acquista una forma, un colore, diventa sudore, fatica e, infine, soddisfazione.

Se un concetto ho trovato espresso con più forza e originalità che in qualsiasi altro testo, questo è la necessità che, chi scrive, sia capace di stare davvero dentro non solo al protagonista, ma ad ogni singolo personaggio, con carne e sangue, con il corpo, non solo con l’intelletto.

Come non mai mi sono reso conto che la buona, l’eccellente scrittura, non è di per sè sufficiente a scrivere un buon testo.

L’analisi dei dialoghi di Lost in traslation (Sofia Coppola), la straordinaria capacità di dire tanto con il minimo delle parole, mi ha fatto venir voglia di rivedere, forse per la terza o quarta volta, uno dei film che più amo. Attenzione: per chi scrive racconti, o romanzi, le osservazioni di McKee sono altrettanto utili che per chi scrive sceneggiature.

Da non mancare, per chi vuole imparare anche qualcosa su di sè, circa il piacere e la dannazione di scrivere.

Più lontano ancora (Jonathan Franzen)

Una raccolta di articoli, riflessioni, presentazioni.

Una miniera di indicazioni di libri da leggere. O da non leggere.

Le pagine dedicate all’amico David Foster Wallace restituiscono la grandezza dello scrittore e la sua pochezza umana senza che l’amicizia vacilli.

“La narrativa autobiografica” è uno dei testi più interessanti e veri che ho letto sullo scrivere, da parte di chi scrive. Ecco le quattro domande – “il prezzo che dobbiamo pagare per il piacere di apparire in pubblico” – antipatiche alle quali tocca rispondere:

1. Da quali autori ti senti influenzato?
2. In quale momento della giornata lavori, e come scrivi?
3. Succede anche a te che i personaggi prendano il sopravvento e ti dicano cosa fare?
4. La tua narrativa è autobiografica?

Una chicca a caso: “L’homo sapiens è l’animale che vuole credere, a dispetto della dura legge naturale, che gli altri animali facciano parte della sua famiglia. Potrei presentare ottimi argomenti etici a favore della nostra responsabilità verso le altre specie, eppure a volte mi chiedo se, fondamentalmente, la mia preoccupazione per la biodiversità e il benessere degli animali non sia una specie di regressione alla mia cameretta di bambino e alla sua comunictà di pupazzi di peliche: un sogno di coccole e armonia fra le specie.”

Il mio romanzo viola profumato (Jan McEwan)

Un libretto di meno di cinquanta pagine, diviso in due.

Nella prima metà un raccontino delizioso sulla gloria degli scrittori affidata alla casualità, alla nemesi, alla slealtà.

Nella seconda metà una riflessione profonda, sempre con la scrittura leggera di cui McEwan ci delizia anche quando scrive di tragedie, sull’io come forma narrativa.

Da non mancare.

Per Isabel (Antonio Tabucchi)

Una bella sorpresa in libreria, incontrare un testo inedito di Antonio Tabucchi. Anche questo un racconto lungo – non capisco il bisogno dell’editore di farlo passare per romanzo – a cerchi concentrici, a mandala dice Tabucchi.

Il protagonista è alla ricerca di senso, forse di perdono, sulle tracce di Isabel, scomparsa misteriosamente dopo essere entrata in clandestinità nel Portogallo di Salazar, forse morta, forse finta morta, forse chissà.

La ricerca ci fa incontrare personaggi e luoghi, ciascuno dei quali fornisce un pezzetto di verità, una briciola di Pollicino sulla strada di Isabel.

Sia il protagonista sia Isabel sono leggeri, vogliosi di o disponibili a scambiare conoscenza ma lontani dalle passioni, aerei.

Dice la nota finale della curatrice che Tabucchi lo teneva nel cassetto da diversi anni, che ne aveva parlato, forse ci stava rimettendo mano prima di ammalarsi e morire, ed io ammiro l’integrità morale di non mandare in giro qualcosa di cui non era evidentemente ancora del tutto convinto, e che invece a me arriva come un regalo inaspettato, allo stesso livello del resto della sua opera.

Da leggere, senza riserve.

PS: mi sono soffermato ad analizzare alcune pagine (da 102 a 106) che contengono una sequenza di dialogo tutta nel corpo di soli tre paragrafi, e mi sono messo a sottolineare le espressioni verbali con cui la parola passa all’uno e all’altra, e questo è il risultato:

osservai—

disse

 

dissi—

continuò

 

dissi—

continuò

 

dissi—

continuò

 

continuò

 

ripetei—

disse

 

chiese

 

risposi—

rispose

 

risposi—

disse

 

pregai—

continuò

 

sussurrò

 

risposi—

continuò

 

disse

 

risposi—

continuò

 

dissi—

disse

 

ripetè

 

dissi—

disse

 

disse

 

rassicurai—

continuò

 

chiese

 

risposi—

continuò

 

chiese

 

risposi—

chiese

 

dissi—

chiese

 

risposi—

confermò

 

 

 

Su quarantadue, ben trentasei sono sostanzialmente “neutre” (dissi/e, continuai/ò, chiesi/e, risposi/e) e soltanto sette hanno una valenza più significativa (osservai, pregai, sussurrò, rassicurai, confermò, ripetè).

Mi sono messo a fare questo elenco perchè all’inizio avevo notato quasi soltanto i dissi / disse, ed ero sorpreso di come il tutto scorresse comunque fluido e piacevole, nonostante le ripetizioni che in qualsiasi scuola di scrittura sarebbero state decisamente represse.

Mi sono anche chiesto con quale criterio uno scrittore scelga di differenziare i dialoghi con una iniziale – ” << etc oppure preferisca mantenerli nel corpo generale. Al momento non ho risposta. Anche come lettore non saprei. Penso che abbia a che fare con l’intenzione di staccare o di dare continuità. Da approfondire