La direzione del pensiero (Marco Malvaldi). Helgoland (Carlo Rovelli)

Concentrati di intelligenza, suscitatori di domande più che elargitori di risposte pacificatrici.

Marco Malvaldi è più noto come scrittore della serie di gialli Sellerio con i vecchietti del bar della Versilia, ma è un chimico, che ha messo la gradevolezza della sua scrittura al servizio di qualcosa di cui oggi mi pare ci sia tanto bisogno: distinguere cause da conseguenze.
Carlo Rovelli è un fisico teorico importante, già autore, fra l’altro, de “L’ordine del tempo”. Helgoland è l’isola sperduta nel Mare del nord dove Heisenberg, a ventitrè anni, avviò la teoria quantistica.
È stato casuale che mi sia trovato a leggerli uno dietro l’altro, e in qualche momento alternandoli.
Non mi azzardo a ripercorrerne gli argomenti; in questi casi io funziono così: leggo, mi appassiono, qualcosa capisco, molto intuisco, tanto so che è fuori dalla mia portata, eppure provo un’attrazione fortissima per l’inarrivabile.

Malvaldi parte da Hume: “la causa è qualcosa che, se rimossa, fa sì che l’esito non avvenga”. Poi allarga l’orizzonte a “che cosa accadrebbe se?” e a “che cosa sarebbe (o non sarebbe) accaduto se invece?” come metodi per individuare, per approssimazioni successive, quali dati sono più significativi per assumere una decisione. Molto interessante il risultato del confronto fra Cina e Italia sulle diverse risposte al virus.

Alcuni esempi sul calcolo delle probabilità pure sono gustosi, come quello del giudice che assolve colui che è stato trovato con 50 bustine di polvere bianca e le uniche tre esaminate contenevano tutte eroina. Lo assolve perchè dall’arresto al processo le 50 bustine sono state distrutte, e l’avvocato convince il giudice che, senza la prova che tutte e 50 c0ntessero eroina, le sole tre potevano essere per solo uso personale. In un caso analogo, un altro giudice condannò, quando calcolò che la probabilità che su 50 bustine fossero state casualmente prese le sole tre contenenti eroina era 1/26.000.
Spunti finali su possibili teorie della “coscienza di se”.

Rovelli ci dice che la fisica, non descrive “come la Natura è”, ma solo “quanto possiamo dire della Natura”.
Qualcosa che sembra ormai provato è che nulla esiste “di per sè”, ma solo “in relazione a”.
Ciò, non soltanto nel mondo delle relazioni umane, dove il concetto è da tempo acquisito, ma anche nel mondo della materia, dove le cose fisiche hanno proprietà solo quando interagiscono: l’interazione è parte inseparabile dai fenomeni.

Il mondo pullula di correlazioni, la maggior parte delle quali non significa letteralmente niente: succede qualcsa di straordinario quando identifichiamo quelle significative, quando si combinano informazione ed evoluzione.
La sfida sta ancora nell’approfondire come significato, intenzionalità, sensazioni soggettive si combinano e, per tornare al primo libro, dove sta la causa e dove l’effetto.

Concentrati di intelligenza, suscitatori di domande più che elargitori di risposte pacificatrici.

Story / Dialoghi (Robert McKee)

Nel tempo, ho letto tutto ciò che mi è capitato circa come si scrive, il senso dello scrivere, eccetera: dalle Lezioni americane di Calvino a Carver, Yehoshua, Piperno, Franzen, Vargas LLosa, Patricia Highsmith e altri che ora non ricordo.

Ho letto anche testi su come si scrive una sceneggiatura, come si racconta una storia, sulla struttura dei miti riconoscibile in ogni drammaturgia.

I due volumi di Robert McKee sono quanto di meglio possa desiderare chi abbia di questi interessi, direi proprio che saziano.

I concetti fondamentali sono essenzialmente pochi, e sono esattamente esposti all’inizio di ognuno dei due testi, che procedono a spirale: un concetto alla volta viene ripreso, spiegato, esemplificato.

Ogni ripetizione si arricchisce di contenuto finchè il concetto acquista una forma, un colore, diventa sudore, fatica e, infine, soddisfazione.

Se un concetto ho trovato espresso con più forza e originalità che in qualsiasi altro testo, questo è la necessità che, chi scrive, sia capace di stare davvero dentro non solo al protagonista, ma ad ogni singolo personaggio, con carne e sangue, con il corpo, non solo con l’intelletto.

Come non mai mi sono reso conto che la buona, l’eccellente scrittura, non è di per sè sufficiente a scrivere un buon testo.

L’analisi dei dialoghi di Lost in traslation (Sofia Coppola), la straordinaria capacità di dire tanto con il minimo delle parole, mi ha fatto venir voglia di rivedere, forse per la terza o quarta volta, uno dei film che più amo. Attenzione: per chi scrive racconti, o romanzi, le osservazioni di McKee sono altrettanto utili che per chi scrive sceneggiature.

Da non mancare, per chi vuole imparare anche qualcosa su di sè, circa il piacere e la dannazione di scrivere.

Homo Deus (Yuval Noah Harari)

Un concentrato di intelligenza, come ogni volta che un rigoroso esame del presente e del passato induce a porsi domande epocali, senza la pretesa di avere le risposte.

Non riesco a riprodurre i percorsi con i quali Harari arriva ad una serie di – ipotetiche e potenziali, sia ben chiaro – previsioni, cerco di limitarmi ad esporne alcuni assunti.

L’evoluzione tecnologica consente quantomeno di “pensare” che l’immortalità sia possibile, insieme al raggiungimento della felicità, ma questi bei progetti sembrano presupporre un’economia a crescita infinita che probabilmente ci condurrà all’estinzione, per mano di creature superiori all’ homo sapiens che noi stessi stiamo cominciando a generare.

Uno degli assunti, mi pare sia proprio il principale, su cui poggiano gli argomenti di Harari è che i neuroscienziati avrebbero dimostrato che non esisterebbero gli individui, ma che ogni essere umano sarebbe costituito di un insiemi di algoritmi, sopratutto biochimici. Ad esempio, le emozioni – “provare” qualcosa – sarebbero prodotte da una serie di algoritmi che sono stati essenziali per lo sviluppo dell’homo sapiens, secondo i principi di Darwin della sopravivvenza del più adatto.

Se “sentire” deriva da algoritmi biochimici, allora anche gli animali “sentono”, e non si può escludere che “entità” di provenienza informatico/elettronica possano/potranno “sentire”. La superiorità dell’homo sapiens è data dalla nostra capacità di collaborare e di farlo con estrema duttilità, a differenza ad esempio delle formiche o delle api,

Altra superiorità dell’homo sapiens sta nella capacità di raccontare storie, e dunque di dare un senso al passato, fare previsioni per il futuro. costruire entità immateriali e intersoggettive come il denaro, gli dei, etc, con funzioni rilevantissime nella nostra esistenza.

Fra queste entità, quella che da qualche secolo ha prevalso, è l’umanesimo, che riconosce una serie di diritti fondamentali a ciascun uomo, fra cui la capacità di realizzarsi al meglio. Qui il punto è in che cosa consisterebbe la libertà: di certo possiamo scegliere quali azioni compiere, ma possiamo scegliere quali desideri avere? E se questi sono determinati da processi biochimici in che cosa consiste esattamente la libertà?

L’evoluzione dell’economia, d’altra parte, tende a rendere sempre meno utili i singoli individui, o meglio la massa dei singoli individui, che possiamo constatare come vengono sempre più rapidamente sostituiti da algoritmi non-umani, anche se creati da uomini. Ma a mano a mano che questi nuovi organismi diventano “capaci di apprendere” sempre meno l’intervento umano sarà necessario. Basta pensare alla medicina: una volta immagazzinati una mole sterminata di dati di tutti gli individui, un computer potrà fare nella maggior parte dei casi diagnosi più accurate e proporre terapie più efficaci della maggioranza dei singoli medici.

La nuova religione dell’umanità potrebbe essere basata appunto sui dati. I Datisti sostengono che un computer che conosca la maggior parte delle informazioni significative su di me potrebbe essere in grado di conoscermi meglio di me stesso e di anticipare i miei desideri. Il che è ciò che, in forma ancora largamente grezza, già fanno i vari Google, Facebook, Amazon etc.

Non si può perciò escludere che saremo governati, “per il nostro bene” da macchine da noi costruite che si saranno da noi emancipate.

Sicuramente ho tagliato con l’accetta concetti che Harari espone con anche un sempre interessante corredo storico e scientifico. Difficile condividere la tesi centrale, che mi fa tornare alla mente suggestioni liceali / universitarie del Barkley che considerava la realtà come meri “fasci di sensazioni”, dell’individuo come “insieme di algoritmi”. Difficile anche confutarla.

Il codice angelico (Roberto Giovagnoni – Adriano Perna)

Chi mi conosce sa che niente è più lontano da me della “angeologia”, di cui questo libro tratta.

Ne ho lette le prime pagine, sfogliate le altre, perchè mi è stato regalato, con tanto di bella dedica, da Roberto, uno degli autori, che conosco di persona.

La parola magica delle teorie spirituali / esoteriche è energia, parola attraverso la quale, spesso con accenni a teorie della fisica delle particelle e alla indeterminatezza della nostra conoscenza, si fanno passare verità che, quando ne chiedi la prova, ti trovi di fronte ad espressioni che posso riassumere sotto “fede“, nel senso che proprio per principio si tratta di verità non conoscibili dalla ragione, e quindi possibile che tu miscredente non capisca che non è la ragione nè il metodo scientifico che puoi applicare se vuoi entrarci in contatto?

Al che ci si può solo ritirare in buon ordine perchè i contesti ermeneutici sono incompatibili.

Fatta questa premessa, testimonio che gli autori sono riusciti ad esporre i loro principi tenendosi sempre su quel filo di rasoio che da una parte cade nella magia e dall’altra mantiene un aggancio al razionale.

Non ci dicono che esistono gli angeli come effettive entità ma fanno l’ipotesi che dentro il DNA di ciascuno di noi sia inscritto questo “codice angelico”, una specie di PIN (Personal Identification Number), che sta a ciascuno di noi trovare, conoscere, sviluppare e che per farlo abbiamo bisogno di una guida che ci metta in contatto con l’energia – energia, appunto – che fluisce nell’universo etc etc etc .

Messa così, il “codice angelico” non sembra tanto diverso dalla “tendenza attualizzante” che Carl Rogers ipotizza essere la spinta che ogni essere umano ha in sè per orientarsi verso il completamento e l’attualizzazione delle proprie potenzialità.

Mi limito a questo parallelo; gli autori sono ben consapevoli del debito che hanno nei confronti di teorie psicologiche e anche delle più semplici tecniche per raggiungere l’autostima etc, e infatti citazioni al riguardo non mancano. Anche il corredo di esercizi, preghiere, etc, nella sostanza non è molto diverso da tanti esercizi che si fanno per attivare questo o quell’emisfero della mente, questa o quella capacità, attitudine, e così via.

L’introduzione degli angeli come elemento di marketing, dunque? Lo penserei se non conoscessi Roberto e parte della sua storia. Roberto tiene regolarmente seminari sugli angeli – li trovate su youtube se vi va – e sempre, a me pare, riesce a mantenersi al di qua di quel filo sottile che separa i ciarlatani da persone che hanno sofferto, che hanno trovato una propria strada di crescita e che hanno l’entusiasmo di trasmetterla ad altri, avendo l’accortezza di mettere in guardia con qualcosa che a me arriva come “non ci credere fino in fondo, per me sono stati gli angeli, tu cerca la tua strada!”.

Semprechè io abbia ben colto l’essenziale, del che potete legittimamente dubitare.

Il manifesto del libero lettore (Alessandro Piperno)

Il sottotitolo è “Otto scrittori di cui non so fare a meno”.

Va letto da chiunque ami leggere, sopratutto se ama anche scrivere.

“Dopotutto, i libri sono strumento di piacere, come la droga, l’alcol, il sesso, non il fine ultimo della vita”

Sono molto d’accordo che l’unico criterio, con una parvenza di oggettività, per decidere della qualità di un romanzo sia la sua longevità. Aggiungo che, da un punto di vista più personale, è la voglia di rileggere che ci fa dire quanto amiamo uno scrittore. (Il record, per me, è di Kundera).

Meno d’accordo che quando diciamo che un autore scrive sempre lo stesso libro (ho il fondato dubbio che Piperno potesse riferirsi a sè stesso) sia perchè non lo amiamo abbastanza.

Non mi vengono, così all’istante, paragoni letterari, ma credo di rendere l’idea se dico che Woody Allen è un genio che fa sempre lo stesso film, ma che Stanley Kubrik è un genio superiore per come si è espresso al massimo in ogni genere.

Ed ecco gli otto autori, e che cosa mi ha dato per ciascuno la lettura che ne fa Piperno:

  • Tolstoi: ho sempre avuto un rapporto difficile con i russi, penso che alla fine mi deciderò a leggere Anna Karenina
  • Flaubert: resterò sazio della Madame Bovary letta da giovane.
  • Stendhal: anche qui, “La certosa di Parma” mi basterà.
  • Austen: non mi è venuta voglia nemmeno stavolta di avvicinarmici; non mi massacrate, so che non è un criterio, ma della riduzione cinematografica di Orgoglio e pregiudizio non ho retto nemmeno il primo tempo.
  • Dickens: non ne ho letto niente, e non me ne è venuta voglia.
  • Proust: che ci posso fare? Preso in mano tante volte, mai riuscito ad andare oltre la seconda pagina.
  • Svevo: mi rifaccio, voglio rileggere al più presto “La coscienza di Zeno”, che ricordo godibilissimo gà da giovane.
  • Nabokov: Lolita l’ho già letto due, forse tre volte. Non escludo una quarta.

Temo che alla fine di questa ricognizione risulterò un terribile ignorante, ma il manifesto del libero lettore mi ha assolto a priori!

Esquilino (Nicola Lagioia)

Riflessioni oneste di un intellettuale sul rapporto fra intellettuali e poveri, sulla totale mancanza di un luogo linguistico di confronto.

“Un intellettuale è costretto a analizzare le acque del fiume in cui nuota molte ore al giorno per giungere alla conclusione che la sorgente è marcia o avvelenata. Un povero, per fare la stessa cosa, ci mette meno di un secondo.”

“Oneste riflessioni” è la qualità principale di questo libretto di sessantaquattro pagine, formato minuscolo, che Feltrinelli di viale Marconi (Roma) ha inopinatamente seppellito nella zona “Turismo”, ciò che potrebbe indurre l’autore, in una ipotetica, quanto improbabile, futura edizione, ad aggiungere una quarta ricognizione alle tre presenti.

Otto euro sono però troppi: va bene che non è la quantità a fare la qualità, ma una certa proporzione andrebbe salvaguardata. Ero stato tentato di leggermelo tutto in libreria, visto che c’era una poltrona disponibile.

Mi è rimasta la curiosità, non soddisfatta nemmeno dal web, circa queste “Edizioni dell’asino” che vantano il sostegno di Capossela, Lerner, Garrone, Servillo e tanti altri intelletuali di primo piano.

Presi per il PIL (Lorenzo Fioramonti)

Nel 1987 l’Italia diventò la V potenza economica del mondo grazie ad un trucco contabile: l’inserimento nella contabilità nazionale della (stima) dell’economia sommersa.

Il PIL (Prodotto Interno Lordo) è un indicatore che, come tale, ha una sua utilità, ma che preso come riferimento sostanzialmente unico per la ricchezza produce distorsioni intollerabili.

Fu introdotto nel 1934 negli USA, come strumento per “misurare” l’uscita dalla Grande Depressione.

Servì, a quello scopo. Sopratutto quando gli USA si trasformarono in una macchina da guerra per sconfiggere Hitler. Gli studi sul PIL permisero di trovare i punti di equilibrio fra gli obiettivi di produzione militare e di mantenere alto il consumo interno. Gli economisti ebbero ragione sui militari nel portare alla decisione che il momento adatto per l’intervento sarebbe stato nel 1943/44, come poi fu.

Kuznets, che lo aveva inventato, cercò di mettere in guardia sul fatto che uno strumento nato in occasione di una crisi temporanea e poi utilizzato in periodo di guerra fosse quello giusto anche in tempo di pace, ma gli USA continuarono ad estendere l’industria di guerra ed il PIL divenne una star intoccabile, estesa poi a tutto il mondo.

Kuznets fece notare che il PIL è sovrastimato, perchè include come valore beni e servizi, come il consumo di acque minerali causato dell’inquinamento delle risorse idriche etc, che derivano da distorsioni prodotte proprio dallo sviluppo industriale. Paradossi a non finire, come il lavoro salariato di una collaboratrice domestica che va nel PIL mentre non ci va lo stesso lavoro fatto da una casalinga. Insomma il lavoro “utile” non vale!

Il PIL USA beneficia delle enormi spese sanitarie private, mentre in quello cubano non conta la sanità gratuita!

E se un giorno la vendita di eroina diventasse legale ecco che il PIL aumenterebbe a dismisura per una legge senza che niete di essenziale sia cambiato nel mondo!

Nel tempo, in effetti, la metodologia di calcolo è stata più volte modificata: ad esempio nel 2007 Eurostat (ente statistico europeo) ha proposto di includere prostituzione e vendita di droghe leggere nel calcolo del PIL.

Qualcosa si è mosso: nel 2010 Cameron ha chiesto di stimare la “felicità” degli inglesi, Obama ha istituito una commissione per la misurazione del “benessere soggettivo”, nel 2012 il Segretario generale dell’ONU dichiarò il bisogno di nuovi indicatori che tengano conto sì dello sviluppo economico, ma anche di benessere sociale e ambientale.

Alla fine, il punto è che ogni società dovrebbe scegliere gli indici che misurino il proprio benessere, ma l’esistenza del Pil, dalla cui misura dipendono in larghissima parte i movimenti finanziari internazionali, rende difficilissimo questo lavoro.

Un libro molto, molto molto interessante. Agile (190 pagine). Da leggere e anche un pochino studiare.

L’ordine del tempo (Carlo Rovelli)

Insomma, sembra che l’abbiano letto proprio tutti, così eccomi qui.

Ho imparato che il tempo non scorre alla stessa velocità in tutti i posti. Anzi, non scorre alla stessa velocità in nessun posto! Per esempio, in montagna va più veloce che in pianura. Carlo Rovelli è un fisico, dice che ce ne sono prove sperimentali, mi fido, gli credo.

Sembra che si tratti di qualcosa di simile alle teorie di Newton prima che Einstein formulasse la teoria della relatività: le teorie di Newton restano vere, nell’ambito in cui sperimentiamo la quasi totalità della nostra esperienza, e sono utilissime per “fare cose”. Diventano inservibili, anzi false, se si cerca di applicarle al piccolissimo e al grandissimo.

Così per il tempo: quando ritroverò alla base il mio amico che è salito sulla montagna i nostri orologi segneranno la stessa ora, anche se per lui il tempo sarà passato più velocemente, ma questo dipenderà soltanto dalla insufficiente precisione dei nostri orologi, e per quanto riguarda esserci dati un appuntamento ad un’ora ci sarà più che sufficiente.

Quindi tranquilli: anche se ad altri livelli passato presente e futuro potrebbero scorrere in altre direzioni, per quanto riguarda le nostre limitate vite scorrono sicuramente solo in direzione della morte (alla quale, come è noto, Woody Allen è nettamente contrario).

Insomma il tempo non è un concetto assoluto, ma uno dei modi attraverso i quali le cose e le persone sono in relazione. Cioè non esiste “di per sè”, ma solo se c’è una relazione fra almeno due entità.

Ho trovato particolarmente stimolante il capitolo 12 “Il profumo della madeleine”, dove in una quindicina di pagine si spazia fra filosofie e religione, identità personale e memoria.

Mi è tornata alla mente Alice, alle prese con il suo sogno in cui c’è il Re rosso, che si chiede se anche lei sarà presente nel sogno del Re rosso.

È possibile che io non abbia ben capito ciò che ho cercato qui di riassumere e che, per la mia ignoranza di base circa la fisica, abbia scritto anche qualche sfondone. A chi volesse accertarsene toccherà munirsi di questo libricino di meno di 200 pagine (di quelle piccole, tranquilli) che garantisce in ogni caso una quantità di spunti di riflessione a largo raggio, e per riflettere non c’è bisogno di capire proprio tutto, no?