Che la festa cominci (Niccolò Ammanniti)

Riletto dopo qualche anno resta uno dei libri più divertenti che io abbia letto.

I satanisti de noantri.
Il parvenue che si è comprato Villa Ada per esibire la più grande festa cafonal-chic mai vista, da far impallidire Westworld, per le variazioni tematiche previste.
Il giovane scrittore che io non ci vado ma no ci vado e poi li smerdo tutti su Repubblica e intanto propone ad almeno tre donne lì incontrate di scappare nella sua casetta in Spagna.
Gli atleti russi rifugiatisi nelle catacombe di santa Priscilla in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960 che, come in Underground, non sanno che cosa è successo in superficie.
Aggiungeteci la cantante convertita, lo scrittore giovanissimo, il vecchio scrittore, il medico cocainomane, alcuni calciatori e altri personaggi di questo livello.

Ammanniti ha scritto un piccolo capolavoro di perfidia e si dev’essere lui per primo divertito come un matto.

Uno scià alla corte d’Europa (Kadar Abdolah)

Lievi capitoletti di due, tre, non ricordo più di cinque pagine, di un viaggio dello scià di Persia venuto, a fine ottocento, a conoscere l’Europa, ci mostrano il mondo in un momento di grandi cambiamenti visti dallo sguardo curioso, infantile, colto, di un despota che si è portato dietro l’harem e gli intrighi di corte.

Strada facendo qualche iman o funzionario fastidioso scompare, mentre la prediletta riesce a tessere alleanze con regine e principesse per tentare di realizzare il sogno di una vita autonoma.

Lo scià si rende conto di aver svenduto la sua terra ad interessi di cui non è stato in grado di cogliere la portata finchè non ha visitato le catene di montaggio, la fabbrica delle aspirine…

L’autore alterna, ai capitoletti ottocenteschi, incursioni – la ricerca dei diari da cui trarre il suo romanzo, con l’aiuto di una bella studentessa del suo dipartimento universitario di studi orientali – nell’oggi, dove le contraddizioni di un secolo e mezzo fa sono esplose e altre se ne sono aggiunte.

Sono sempre più convinto che l’originalità del racconto possa venire sempre più spesso da culture meticciate: stavolta è un iraniano trapiantato in Olanda.

Alla fine della notte (Jan Philipp Sendker)

Uno di quei libri solo annusati in libreria e scelto per la caratteristica che. da quando lessi “I versetti satanici”, sono convinto sia una chiave per qualche originalità: l’incrocio di culture.

Jan Philipp Sendker è tedesco, vissuto a lungo negli USA, per anni corrispondente in Asia. Ci regala questo road book nella Cina di periferia, dove la famiglia costretta alla fuga dal capriccio del rampollo di un qualche indeterminato boss si muove senza punti di riferimento sicuri e deve appoggiarsi senza certezze ad un vecchio in un paese sperduto, ad una donna in una città semivuota, ad un amico da tempo perso, infine ad un bambino che cerca la madre.

È una storia cruda, con poca redenzione, nella quale, oltre all’angoscia per la sorte propria e del loro figlio, lui occidentale lei cinese di Hong Kong, non riescono ad essere solidali fino in fondo, mentre riaffiorano ferite fra loro non sanate.

Forse ce la faranno, di sicuro il loro passaggio non sarà indolore nè per chi li accoglie nè per chi li lascia per strada.

Bello, ne cercherò altri di questo autore che non conoscevo affatto.

Anna Karenina (Lev Tolstoi)

Ce l’ho fatta, a leggerlo. Tante volte avevo pensato di farlo, sempre avevo desistito, fondamentalmente per un pregiudizio rispetto ai “russi pallosi”.

Ho letto poco dei russi: il Dostoevskij di Delitto e castigo e di Memorie dal sottosuolo, il Tolstoi de La morte di Ivan Il’ič, niente altro.

In comune hanno, mi pare, lo scavare fin nelle pieghe più profonde delle contraddizioni umane.

Oggi – più volte celebrata la “fine del romanzo” – uno scrittore tende a far partecipare il lettore alla costruzione delle personalità dei personaggi che propone, cerca di far dedurre il sentire dalle azioni, dai tic, dai dialoghi, difficilmente “racconta” direttamente i sentimenti che attraversano e avvolgono e sconvolgono i protagonisti.

Questo fa Tolstoi. Sarà pure un modo datato di scrivere, resta appassionante dopo quasi centocinquant’anni.

Alcune pagine, anche di personaggi minori, restano memorabili: in due pagine si passa dall’avvicinamento di un uomo e una donna che passeggiano soli ed entrambi sanno che adesso o mai più e quando è quasi adesso basta una banale interruzione esterna per passare al mai più. Nella pace di entrambi, che si stavano avventurando dove non erano certi di potercela fare.

Anna Karenina, invece, e Vronskij, si buttano nell’adesso, lo vivono a dispetto delle convenzioni e delle convenienze. La fragilità di Anna, che ad un certo punto le fa ingigantire all’iperbole alcuni timori sull’amato, la porterà al suicidio, devastando le vite intorno.

Il mondo dei nobili russi fra Mosca e Pietroburgo, fatto di salotti, maldicenze, piccoli intrighi, fidanzamenti, amanti, non sembra tanto diverso da quello della Vienna di Joseph Roth, anche per la totale indifferenza rispetto alle montagne di debiti da cui tanti sono sommersi e dai quali prima o poi saranno travolti.

Ciò che mi ha colpito di più e – non so bene come dirlo, trattandosi di un capolavoro univeralmente riconosciuto – convinto di meno, sono stati i passaggi bruschi, come moti dell’animo del tutto incontrollabili, che quasi ogni personaggio mostra, dagli abissi alle stelle, o viceversa, e poi in direzione opposta. Senza che fattori esterni li provochino, come se l’animo umano (russo?) fosse incapace di autodeterminarsi e preda di un determinismo incontrollabile.

Alcune vicende “di coppia” sono gustose per quanto ancora attualissime, come quando lui vorrebbe andare da una parte ma non ci va perchè a lei dispiacerebbe e però cova risentimento anche se lei lo ha espressamente “autorizzato”, e infine decide di andare ed ora è lei a covare risentimento perchè è vero che gli ho detto che mi avrebbe fatto piacere visto che a lui faceva piacere ma lui avrebbe dovuto capire che mi sarebbe mancato e ne avrei sofferto.

Cos’altro? Levin attaccato alla terra e alla concretezza, incapace di dominarsi e mantenere le buone maniere verso un giovane che esprime educati apprezzamenti verso la moglie Kitty appena – e faticosamente – conquistata. E poi si pente di aver dubitato e le chiede perdono piangente e il giorno dopo caccia di casa il giovane.

“Dal canto suo, nonostante quanto aveva desiderato fosse diventato realtà in ogni sua piega, Vronskij non avrebbe potuto dirsi del tutto felice… e si scopriva a comprendere quanto sbaglia chi confida che la felicità venga, appunto, dall’avverarsi dei desideri.”

Open (Andre Agassi)

Un gran bel libro, tanto più perchè inaspettato.

Sport: tennis, certo. E anche amicizia, amore, crescita personale, famiglia. Senza mai una sbavatura, un auto-compiacimento.

Un padre tiranno e tuttavia infine rispettato, nelle sue idee fisse e certezze incrollabili. Allenatori amici – grandi veri amici – che lo aiutano a crescere, e non solo nel diventare il numero uno al mondo.

Non dev’essere stato un tipo simpatico, Andre Agassi, nè cerca di esserlo nel libro. Non risparmia frecciate velenose a qualche collega – Pete Sampras, l’eterno rivale, di cui riconosce la superiorità, che dà un solo dollaro di mancia al ragazzo che gli porta l’auto da centinaia di migliaia di dollari – e tuttavia si avverte sempre un grande rispetto verso tutti gli avversari, per la condivisione di un impegno mentale e fisico che in certe partite porta l’organismo oltre i limiti umanamente sopportabili, che comunque sono superati da una riserva di energia che sempre da qualche parte si riesce ad estrarre.

La fatica immane ed il dolore fisico si respirano, sopratutto sugli odiati campi in terra battuta.

Sposerà la più grande tennista di quei tempi, forse di tutti i tempi – Steffi Graf – e scriverà belle pagine di amore, per lei e per i due figli.

Leggendo le fatiche, le delusioni, lo stress, i tormenti di polso e spalla e schiena, ti chiedi se ne valga la pena. Non so rispondere per me, anche se credo che chi ha un talento così grande per qualcosa, per qualsiasi cosa, semplicemente non possa fare a meno di assecondarlo, anche se l’inizio ha significato la negazione dell’infanzia con un padre che lo teneva ore davanti al drago, uno feroce sparapalle autoprogettato.

Tante cadute e tante risalite. Infine i patrimoni di Andre e Steffi dedicati alla costruzione di una scuola per ragazzi che se no non ci andrebbero. Forse per questo è valsa la pena giungere a dover accontentare la schiena, quando serve, e dormire sul pavimento.

La versione di Barney (Mordecai Richler)

Tre mogli: la prima negli anni degli amici di Parigi, la seconda quasi per caso, la terza amore della vita che lo lascerà per un intellettuale perfettino.

Il suo migliore amico scomparso senza lasciare tracce: tutti gli indizi portano a Barney che infatti ne sarà accusato, processato, assolto; ma manterrà su di sè il sospetto per tutta la vita.

Sta tutto nelle prime pagine, non svelo niente. La maestria sta nel portare le tre storie e intrecciarle con la scomparsa dell’amico e con le vicende del quotidiano – Barney è un produttore televisivo che guadagna un sacco di soldi da opere ignobili – ossessionato da due attese: quella che Miriam, la terza moglie, torni da lui, e quella che il suo amico, peraltro abituato periodicamente a sparire, ricompaia.

Nelle ultime pagine il mistero della scomparsa dell’amico sembra svelato, i tre figli litigano fra chi vuole comunque credere alla parola del padre e chi sostiene che si debba cedere a quella che sembra l’evidenza.

Non so che cosa darei per essere capace di scrivere quasi cinquecento pagine e far capire com’è davvero andata nelle ultime quattro righe.

Un godimento continuo, uno di quei libri che prima non vedi l’ora di finire e alla fine rimpiangi di aver finito. Da non mancare.

Il manifesto del libero lettore (Alessandro Piperno)

Il sottotitolo è “Otto scrittori di cui non so fare a meno”.

Va letto da chiunque ami leggere, sopratutto se ama anche scrivere.

“Dopotutto, i libri sono strumento di piacere, come la droga, l’alcol, il sesso, non il fine ultimo della vita”

Sono molto d’accordo che l’unico criterio, con una parvenza di oggettività, per decidere della qualità di un romanzo sia la sua longevità. Aggiungo che, da un punto di vista più personale, è la voglia di rileggere che ci fa dire quanto amiamo uno scrittore. (Il record, per me, è di Kundera).

Meno d’accordo che quando diciamo che un autore scrive sempre lo stesso libro (ho il fondato dubbio che Piperno potesse riferirsi a sè stesso) sia perchè non lo amiamo abbastanza.

Non mi vengono, così all’istante, paragoni letterari, ma credo di rendere l’idea se dico che Woody Allen è un genio che fa sempre lo stesso film, ma che Stanley Kubrik è un genio superiore per come si è espresso al massimo in ogni genere.

Ed ecco gli otto autori, e che cosa mi ha dato per ciascuno la lettura che ne fa Piperno:

  • Tolstoi: ho sempre avuto un rapporto difficile con i russi, penso che alla fine mi deciderò a leggere Anna Karenina
  • Flaubert: resterò sazio della Madame Bovary letta da giovane.
  • Stendhal: anche qui, “La certosa di Parma” mi basterà.
  • Austen: non mi è venuta voglia nemmeno stavolta di avvicinarmici; non mi massacrate, so che non è un criterio, ma della riduzione cinematografica di Orgoglio e pregiudizio non ho retto nemmeno il primo tempo.
  • Dickens: non ne ho letto niente, e non me ne è venuta voglia.
  • Proust: che ci posso fare? Preso in mano tante volte, mai riuscito ad andare oltre la seconda pagina.
  • Svevo: mi rifaccio, voglio rileggere al più presto “La coscienza di Zeno”, che ricordo godibilissimo gà da giovane.
  • Nabokov: Lolita l’ho già letto due, forse tre volte. Non escludo una quarta.

Temo che alla fine di questa ricognizione risulterò un terribile ignorante, ma il manifesto del libero lettore mi ha assolto a priori!

Esquilino (Nicola Lagioia)

Riflessioni oneste di un intellettuale sul rapporto fra intellettuali e poveri, sulla totale mancanza di un luogo linguistico di confronto.

“Un intellettuale è costretto a analizzare le acque del fiume in cui nuota molte ore al giorno per giungere alla conclusione che la sorgente è marcia o avvelenata. Un povero, per fare la stessa cosa, ci mette meno di un secondo.”

“Oneste riflessioni” è la qualità principale di questo libretto di sessantaquattro pagine, formato minuscolo, che Feltrinelli di viale Marconi (Roma) ha inopinatamente seppellito nella zona “Turismo”, ciò che potrebbe indurre l’autore, in una ipotetica, quanto improbabile, futura edizione, ad aggiungere una quarta ricognizione alle tre presenti.

Otto euro sono però troppi: va bene che non è la quantità a fare la qualità, ma una certa proporzione andrebbe salvaguardata. Ero stato tentato di leggermelo tutto in libreria, visto che c’era una poltrona disponibile.

Mi è rimasta la curiosità, non soddisfatta nemmeno dal web, circa queste “Edizioni dell’asino” che vantano il sostegno di Capossela, Lerner, Garrone, Servillo e tanti altri intelletuali di primo piano.

Dimenticare (Peppe Fiore)

Una bella storia che si legge d’un fiato, un bell’esordio per Peppe Fiore, il cui “Dimenticare” ho comprato attratto da una fascetta di Nicola Lagioia, che stimo sia come autore di romanzi che come intellettuale in generale.

Tra Fiumicino, il Messico e l’Abruzzo, il protagonista Daniele cerca di proteggere come può l’improteggibile fratello Franco – e per un po’ ci riesce pure – da malviventi di mezza tacca con i quali continua a non onorare per tempo debiti.

I personaggi femminili risultano di contorno, anche se bel delineati.

Il pregio maggiore è la scrittura pulita, senza fronzoli, distesa in capitoli brevi in ognuno dei quali succede qualcosa di significativo e resta aperto un dubbio a cui una risposta arriverà non troppo lontana.

Insomma un congegno perfettamente oleato dove ogni tassello va al suo posto al momento giusto. Troppo giusto, però. Tanto giusto che, per amore del congegno, il presupposto principale, la chiave della storia, che si scoprirà alla fine, risulta di una debolezza disarmante, perchè niente di tutto ciò che è accaduto prima ha dato nemmeno una minima traccia di “quel” modo di essere del protagonista.

Temo che l’essere Peppe Fiore anche sceneggiatore (si sa dalla terza di copertina) abbia fatto prevalere il gusto della costruzione sulla necessità della coerenza interna dei personaggi.

Comunque, centonovanta pagine ben scritte e di gradevole lettura, lo aspetto al prossimo.

Corruzione (Don Winsolw)

Con Don Winslow, dopo “Il potere del cane” e “Il cartello”, sapevo di andare sul sicuro e, dopo l’affresco approfondito sul traffico di droga fra Messico e Usa, con le ramificazioni in Nicaragua, Colombia eccetera, mi è piaciuta l’idea di un poliziesco a New York.

I due romanzi sul mondo della droga sono quanto di più violento io abbia letto e temo che, da qualcosa che qui e là si coglie dalle cronache, la realtà non sia più leggera. “Corruzione” punta più sull’intreccio di interessi e scambi di favori, sempre al limite del giuridicamente e/o moralmente accettabile in nome di qualche superiore interesse sociale, facile peraltro a diventare ideologia dietro la quale nascondere il privatissimo guadagno.

I protagonisti sono quattro / cinque poliziotti di una squadra speciale – “Corruzione” è fuorviante, il titolo originale è “The Force”, che è appunto il nome della squadra –
di quelle viste in mille film della serie basta che tenete pulita la città e noi chiudiamo un occhio sui metodi.

Titolo fuorviante non perchè la corruzione non sia al centro delle vicende narrate, ma perchè il tema sono le vite di questi poliziotti, le relazioni fra di loro – ciascuno si deve fidare al 110% di ognuno degli altri quando si fanno certe operazioni – le rispettive famiglie ed amanti. Poi mafiosi italiani e domenicani, Fbi, piccoli spacciatori, Sindaco, Capo della polizia, agenti infiltrati, Procuratore compongono un affresco che riesce a restituire l’insieme dei film e serie tv basati sui processi, i patteggiamenti, gli accordi indicibili, i tradimenti.

Un avviso importante: non leggete i risvolti di copertina che rivelano qualcosa che arriverà, e non era scontato che arrivasse, a due terzi delle cinquecentoquaranta pagine che si leggono d’un fiato.

Il richiamo della truculenza – qui sempre in secondo piano rispetto alla storia – dev’essere troppo forte per Don Wislow, che nelle ultime cento pagine si è sentito in dovere di elargircene una dose che secondo me si sarebbe potuto risparmiare, ma tant’è.

Un capolavoro? No. Nel suo genere, il meglio del meglio.