Le affinità elettive (Johann W. Goethe)

Mi sento come il Fantozzi del cineforum: questo libro è una palla mostruosa.

Qui applausi zero, e se qualcuno mi leggesse mi massacrerebbe per l’impertinenza di dire male di uno dei libri più letti al mondo e di più duraturo successo.

Tant’è, pazienza. Ma questi quattro che passano la vita ad aggiustare siepi e piegare colline per ottenere l’ambiente ottimale per le loro viste sono tanticchia insopportabili, anche perchè alcuni passaggi emotivi fondamentali sembrano dipendere proprio da qualche maggiore o minore interesse o passione o attitudine a questi giardinaggi.

Un abisso da carne e sangue che si respirano in Anna Karenina.

La conclusione tragica poi, dopo aver passato metà libro a convincerci della quasi ineluttabilità – addirittura per chimica – del tradimento sentimentale, sembra una vendetta moralistica dell’autore sui protagonisti.

Almeno Edipo era tragico perchè punito senza colpa: costoro sono invece puniti dal destino per aver scelto il loro destino.

Pollice verso, e chi se ne importa se è quasi unanimemente considerato un capolavoro evergreen.

Ogni cosa è illuminata (Jonathan Safran Foer)

Avevo il ricordo vago di un bel film, diretto da un attore che stimo molto: Liev Schreiber, protagonista de “Il candidato della Maciuria” e, più di recente, dell’ottima serie “Ray Donovan”.

Tanto di cappello a Foer che lo ha scritto a venticinque anni. Tanto di cappello perchè è un esercizio di bravura che da una parte difficilmente ti aspetti da uno così giovane ma che, riflettendoci meglio, ti aspetti proprio da uno così giovane.

Si tratta della ricerca, a partire da una sola foto e da un vago riferimento geografico ucraino, di una donna che salvò dai nazisti il nonno del protagonista, e cioè lo stesso scrittore con nome e cognome.

La bravura sta nel linguaggio con cui l’intraprendente e improbabilissima guida ucraina Alex, che si deve pure barcamenare fra un nonno ed un padre caciaroni e oppressivi, si rivolge al protagonista: immagino i salti mortali del traduttore Massimo Bocchiola, che qui merita assolutamente una citazione di merito.

Un esempio da una pagina aperta a caso: “Io ho roteato verso l’Eroe e ho detto: tu non hai mai adocchiato una cosa tale e quale”.

Divertente per cinque, dieci pagine, ma tanto tanto pesante. Tanto pesante che oltre pagina centonovanta (sono trecentosessantaquattro) non ce l’ho fatta a proseguire.

Foer è l’autore anche di Eccomi, qui recensito

Il maestro di nodi (Massimo Carlotto)

Meno di duecento pagine che scorrono lievi, anche se piene di trucidezze, perchè Carlotto scrive lieve e fa succedere un sacco di cose una appresso all’altra.

Tutto poco probabile con quei vecchi banditi con il loro codice d’onore eccetera che si trovano ad avere a che fare con l’ambiente BDSM (sado maso ma qui bello spinto).

In fondo noi che leggiamo vogliamo essere ingannati da chi scrive – non è questa la letteratura? – e Carlotto ci riesce bene.

Less (Andrews Sean Greer)

Uno scrittore bravino ma rimasto di media tacca ci fa fare il giro del mondo fra un premio, un’intervista, un incarico per un articolo e altre attività proprie di un intellettuale integrale.

Il viaggio è anche un modo per sfuggire al per lui fatidico compimento dei cinquant’anni senza essere diventato nè ricco nè famoso, e per evitare di essere presente al concomitante, con il compleanno, matrimonio dell’amore della sua vita con un altro.

Molto gradevole, per la parte che riguarda l’Italia suona vero, senza gli stereotipi soliti, e ciò mi ha reso credibili anche le altre ambientazioni.

Sembra che a questi intellettuali integrali riesca quasi ad ogni tappa di instaurare una relazione a perdere: sarà perchè fra omosessuali maschi questo è più facile o più credibile? Me lo sono chiesto, mi sono chiesto che ragione ci fosse di disegnare il protagonista come omosessuale, e mentre me lo chiedevo mi dicevo ma non è che per il fatto che tu (io che scrivo qui) te lo chieda ti fa omo de pregiudizio?

Francamente non mi ci riconoscerei. Mi rinforzo però nella convinzione, che se qualcuno mi leggesse mi farebbe etichettare come politicamente scorrettissimo, che omosessuali ed ebrei (qui non c’entrano ma vale in generale per letteratura e cinema) siano sovrarappresentati rispetto alla effettiva presenza nel mondo. È solo un’impressione, non dispongo di dati, e se mi chiedo da dove mi venga questa impressione devo rispondere che mi viene dalla mia – forse troppo banale – esperienza di vita.

“Storia di un matrimonio” era più profondo, qui si è più divertito, e questo è un bene perchè mi sono divertito anche io.

Ogni coincidenza ha un’anima (Fabio Stassi)

Il protagonista si è inventato un lavoro che a quanto pare gli funziona: ascolta i bisogni di persone che gli si rivolgono e prescrive loro libri.

Arriva la figlia di un grande intellettuale, malato ora di alzheimer, gli chiede di capire, in base a pochissimi indizi lasciati dal padre, di quale libro possa trattarsi.

L’impresa sembra impossibile, ma il nostro è sagace e fortunato.

Se troverà il libro ed eventualmente come utilizzerà il ritrovamento o il non ritrovamento non lo scrivo, perchè è questo il filo, tenue ma bel sviluppato, delle duecento cinquanta pagine – quelle piccole formato Sellerio – del libro.

I personaggi che si alternano nello studio del biblioterapeuta servono a intervallare la storia principale che altrimenti sarebbe poca cosa; sono ben descritti, vivaci, ma del tutto inessenziali alla storia e un po’ fastidiosamente orientati a farci sapere come la pensa l’autore del mondo.

Anche i tanti libri citati – ce ne viene offerto l’elenco in appendice – mi hanno dato l’impressione che l’autore si sia messo davanti alla sua biblioteca e abbia scelto ciò di cui gli piaceva scrivere.

La storia è comunque gradevole e molto ben scritta, scivola via leggera con un finale grazioso e inesorabilmente political correct.

Non ci sono solo le arance (Janette Winterson)

Una ragazza adottata, con una madre fanatica religiosa che l’ha destinata a fare la missionaria, e la scoperta di amare le donne.

Lo scandalo, l’esorcismo, la scelta dell’autonomia, la ripresa di contatto con un mondo immutato.

Scritto – ho letto solo dopo che si tratta in gran parte di un’autobiografia, se no probabilmente non lo avrei scelto – senza rancore, con qualche arguzia. Non il capolavoro di cui da qualche parte avevo letto: a distanza di poco tempo ne ricordo poco, e questo per me è uno dei criteri per misurare se non il valore di un romanzo, certamente l’effetto che ha avuto su di me.

L’estensione ignota dei miei bisogni mi spaventa. Non so quanto grandi siano o quanto alti, so solo che non vengono soddisfatti

Il bosco silenzioso (Wolfgang Fleischhauer)

La storia scorre fluida, ben raccontata, appassionante.

Il tracciato è segnato dall’inizio, la godibilità non sta nei colpi di scena ma nell’inesorabile percorso che condurrà all’emergere di ciò che è stato con tanta attenzione nascosto.

Come nel lavoro della giovane ricercatrice che “sa far parlare il bosco”, il cui padre proprio in quei boschi scomparve vent’anni prima, bisognerà scoprire strato su strato prima di arrivare a capire. E capire non sarà indolore per nessuno dei protagonisti, ciascuno ben delineato.

Un giallo tedesco, in una fase storica in cui di letteratura tedesca arriva davvero poco, proposto da una piccola casa editrice – Emons – specializzata in gialli tedeschi.

Suggeritomi, insieme a “Uno scia alla corte d’Europa“, dalla libraia di una di quelle piccole librerie – Novarcadia, a Casalpalocco – dove i librai ti sanno consigliare un libro.

Più lontano ancora (Jonathan Franzen)

Una raccolta di articoli, riflessioni, presentazioni.

Una miniera di indicazioni di libri da leggere. O da non leggere.

Le pagine dedicate all’amico David Foster Wallace restituiscono la grandezza dello scrittore e la sua pochezza umana senza che l’amicizia vacilli.

“La narrativa autobiografica” è uno dei testi più interessanti e veri che ho letto sullo scrivere, da parte di chi scrive. Ecco le quattro domande – “il prezzo che dobbiamo pagare per il piacere di apparire in pubblico” – antipatiche alle quali tocca rispondere:

1. Da quali autori ti senti influenzato?
2. In quale momento della giornata lavori, e come scrivi?
3. Succede anche a te che i personaggi prendano il sopravvento e ti dicano cosa fare?
4. La tua narrativa è autobiografica?

Una chicca a caso: “L’homo sapiens è l’animale che vuole credere, a dispetto della dura legge naturale, che gli altri animali facciano parte della sua famiglia. Potrei presentare ottimi argomenti etici a favore della nostra responsabilità verso le altre specie, eppure a volte mi chiedo se, fondamentalmente, la mia preoccupazione per la biodiversità e il benessere degli animali non sia una specie di regressione alla mia cameretta di bambino e alla sua comunictà di pupazzi di peliche: un sogno di coccole e armonia fra le specie.”

La festa dell’insignificanza (Milan Kundera)

Stalin racconta di come, andando a caccia, vide su un albero ventiquattro pernici e di come, avendo solo dodici cartucce, potè colpirne solo dodici.

Siccome a Stalin piacevano molto le pernici, tornò a casa, si procurò altre dodici cartucce e così potè prendere le altre dodici.

Stalin raccontava questo aneddoto di vita vissuta e poi si ritirava in una stanza da dove poteva ascoltare i commenti dei presenti che nel frattempo si erano raccolti nel pisciatotio per sbeffeggiare di nascosto il grande capo, alla cui presenza nessuno si era azzardato a muovere obiezioni e anzi tutti avevano applaudito la sua sagacia e abilità venatoria.

Una donna vuole suicidarsi. Si butta nel fiume, ma un giovane si tuffa per salvarla. La donna non vuole essere salvata, quindi si divincola e, visto che il ragazzo insiste a volerla salvare, fa in modo di tenerlo sotto finche non smette di respirare. A qual punto la donna ci ripensa, decide che vale la pena continuare a vivere ancora un pò e nuota verso riva.

La festa dell’insignificanza, come credo tutti gli scritti di Kundera dopo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” – se finisce il mondo e devo salvarne solo uno io salvo questo – non è un vero romanzo. È un saggio di filosofia e un esercizio di scrittura sublime.

Non sempre colgo i nessi, che peraltro nel profondo sento esserci.

Qui, una pagina sull’io come volontà e rappresentazione e sul disprezzo.

Il mio romanzo viola profumato (Jan McEwan)

Un libretto di meno di cinquanta pagine, diviso in due.

Nella prima metà un raccontino delizioso sulla gloria degli scrittori affidata alla casualità, alla nemesi, alla slealtà.

Nella seconda metà una riflessione profonda, sempre con la scrittura leggera di cui McEwan ci delizia anche quando scrive di tragedie, sull’io come forma narrativa.

Da non mancare.