La vegetariana (Han Kang)

Il romanzo – 176 pagine – è diviso in tre parti: nella prima il protagonista è il marito, nella seconda il cognato, nella terza la sorella. Marito, moglie, sorella di Yeong-hye: la vegetariana.

Il titolo può trarre in inganno, da qualche parte ho letto commenti insensati del genere “hai visto che succede a non mangiare più carne?”.

Si tratta della storia della follia di una donna, che parte da alcuni sogni spaventosi. Ma l’autrice non vuole condurci nell’abisso che può aver prodotto quei sogni e i comportamenti succesivi, si limita a mostrarci il baratro del presente e come se ne varca, inesorabilmente, la soglia.

La scrittura è “povera”; mi sono interrogato sulla difficoltà di tradurre dal coreano, ho cercato in giro e ho scoperto che in realtà il testo italiano è una traduzione della iniziale traduzione inglese, a quanto pare fonte di forti polemiche in Corea e non solo.

Ho immaginato di poter leggere la seconda parte, di gran lunga la più bella, in originale e mi è piaciuto convincermi di come – forse – sarebbe stato visionario il movimento di due corpi dipinti di fiori mentre fanno all’amore, uno coinvolto allo spasimo e l’altro partecipe per inerzia. Una specie di violenza consensuale, se mi si passa l’ossimoro.

Inquietante. Peccato non conoscere il coreano: ho provato con i film di Kim-Ki-Duk (da non perdere) sottotitolati ma temo non sia sufficiente 😉 .

Il sussurro del mondo (Richard Powers)

Un miliardo e mezzo di anni fa, vi siete separati, ma persino oggi, dopo un viaggio immenso in direzioni diverse, voi e il vostro albero condividete un quarto dei vostri geni.

Le seicentocinquanta pagine e la tematica “ecologica” (che noia!) non mi ci avrebbero mai fatto avvicinare, se non fosse stato per il consiglio di un amico, suggellato dal premio Pullizer.

Una volta aperto, si rivela uno di quei libri che non vedi l’ora di riprendere per vedere come prosegue, combattuto fra il piacere di continuare e la tristezza di vedere le pagine mancanti che diventano sempre meno.

I primi capitoli sono le storie – ciascuna un racconto compiuto – di alcuni personaggi che, nei modi più diversi, nei luoghi più diversi, nella loro vita hanno o hanno avuto a che fare con un albero, o una foresta, o un piccolo parco.

Nella seconda parte questi personaggi incrociano le loro vite. Qualcuno per scelta consapevole, qualcuno perchè ci si trova dentro e sceglie di restarci.

L’episodio centrale è un’epica lotta per salvare una sequoia pluricentenaria, alta novanta metri, sulla quale è stata installata una piattaforma che funge da alloggio e riparo per chi la vuole difendere dall’abbattimento.

La descrizione delle stupide e sagacissime trovate per rallentare le distruzioni e delle piccole e grandi crudeltà – peraltro (quasi) tutte “secondo legge” – messe in campo per fiaccare la tenacia di chi resiste ti fa essere presente sul posto, ti fa gridare “dai resisti ancora, smetteranno e vincerai!” oppure “ormai basta, non ce la puoi fare, accontentati, hai dimostrato ciò che volevi, ne parlano tutte le televisioni!”.

Sanno di essere destinati alla sconfitta certa, renderanno dura la vita più che potranno ai taglialegna tecnologizzati.

Non si rassegneranno, perchè la voce degli alberi ha parlato loro, perchè hanno intuito il senso delle infinite connessioni sotterranee di radici, e andranno oltre, con attenzione, applicando conoscenze specialistiche, nella consapevole illusione di continuare una lotta persa in partenza.

I destini umani di ciascuno si svolgeranno secondo disegni illogici, come è la vita vera: il più rigoroso tradirà, il più improbabile sceglierà una coerenza inconcepibile per i suoi affetti più cari.

Un libro epico. Finito di leggerlo, guardo gli alberi con occhi diversi, sorrido alle radici dei pini di Roma che piegano l’asfalto: noi non ci saremo più, loro sì.

Da non mancare.

Qualche spigolatura:

le ragazze dicono il contrario di quello che intendono, per verificare se afferri la loro vera natura. Cosa che vogliono. E poi, quando ci riesci, si offendono

Il geniettio dell’informatica davanti all’insegnante; “Sa perchè lei lo odia. Quelli come lui la porteranno all’estinzione

Yuki (Flaminia Nucci)

Scorre, la scrittura scorre proprio bene e, anche se alcuni passaggi emotivo-relazionali mi sono arrivati più dichiarati che vissuti, sono arrivato alla fine con leggerezza.

La protagonista, dopo una delusione d’amore, si ritira in un posto solitario in Lapponia, vicina ad una coppia di amici di lì.

È scritto in prima persona e, potrei ricordare male, ma il nome della protagonista non è noto. La chiamerò, perciò, casualmente, F, per non confonderla con Diana, che è invece la protagonista del romanzo che F sta scrivendo, durante il ritiro in Lapponia.

Diana, con le sue storie d’amore difficili – prima la sofferenza di doversi mettere d’impegno a staccarsi da una relazione con una donna che ama ma che pretende di vivere liberamente continuando a mantenere Diana legata, poi la difficoltà di avere vicino l’amore di una persona non ancora del tutto emersa alla vita – rappresenta, alla mia lettura, la stessa F “prima” dell’ultima delusione.

La scelta della Lapponia si rivela fortunata: la lunga, ostinata, caparbia, tenera operazione di avvicinare una lince – Yuki: il titolo – ha successo, e il saluto tra F e la lince e i suoi cuccioli ha il sapore di un equilibrio ritrovato, prima del ritorno a casa.

Una piccola nota critica: della ricetta e del brano musicale che accompagnano ogni giornata non sono riuscito sempre a cogliere le connessioni con quanto stavo leggendo. Possibile pure che non fossero previste 😉 .

Leggete, regalate tranquilli, io ci ho inaugurato kindle.

Story / Dialoghi (Robert McKee)

Nel tempo, ho letto tutto ciò che mi è capitato circa come si scrive, il senso dello scrivere, eccetera: dalle Lezioni americane di Calvino a Carver, Yehoshua, Piperno, Franzen, Vargas LLosa, Patricia Highsmith e altri che ora non ricordo.

Ho letto anche testi su come si scrive una sceneggiatura, come si racconta una storia, sulla struttura dei miti riconoscibile in ogni drammaturgia.

I due volumi di Robert McKee sono quanto di meglio possa desiderare chi abbia di questi interessi, direi proprio che saziano.

I concetti fondamentali sono essenzialmente pochi, e sono esattamente esposti all’inizio di ognuno dei due testi, che procedono a spirale: un concetto alla volta viene ripreso, spiegato, esemplificato.

Ogni ripetizione si arricchisce di contenuto finchè il concetto acquista una forma, un colore, diventa sudore, fatica e, infine, soddisfazione.

Se un concetto ho trovato espresso con più forza e originalità che in qualsiasi altro testo, questo è la necessità che, chi scrive, sia capace di stare davvero dentro non solo al protagonista, ma ad ogni singolo personaggio, con carne e sangue, con il corpo, non solo con l’intelletto.

Come non mai mi sono reso conto che la buona, l’eccellente scrittura, non è di per sè sufficiente a scrivere un buon testo.

L’analisi dei dialoghi di Lost in traslation (Sofia Coppola), la straordinaria capacità di dire tanto con il minimo delle parole, mi ha fatto venir voglia di rivedere, forse per la terza o quarta volta, uno dei film che più amo. Attenzione: per chi scrive racconti, o romanzi, le osservazioni di McKee sono altrettanto utili che per chi scrive sceneggiature.

Da non mancare, per chi vuole imparare anche qualcosa su di sè, circa il piacere e la dannazione di scrivere.

Io sono il fiume (Mario Santamaria)

Un romanzo impegnativo. Già le oltre cinquecento pagine, tutte dense, dicono molto dell’impegno profuso.

La sintesi della storia sta nella seconda di copertina, perciò non mi ripeterò.

Personalmente non credo ai generi, credo ai buoni libri ben scritti, e questo è un buon libro ben scritto. Rispetto a ciò, trovo irrilevante che si svolga oggi o, come in questo caso, in un futuro indefinito, dopo una serie di conflitti, evocati sullo sfondo, che hanno prodotto uno stravolgimento dell’organizzazione sociale.

Il modello, per dirne uno , è quello di “Fuga da New York”: qui una Roma divisa in quadranti, settori, recinti, abitati da strati sociali ridefiniti dalle attitudini o dalla maggiore o minore integrazione rispetto al nuovo, fortemente esclusivo, ordine costituito.

Analogamente a Jena Plissken anche Bliss, una delle protagoniste, deve superare una quantità di ostacoli per salvarsi la vita da un qualcosa che le è stato impiantato nel cervello. Qui, più raffinatamente, non si tratta di un veleno a tempo determinato ma dell’innesto di ricordi altrui che funzionano da metastasi disgreganti. Diversamente che da Jena Plissken, Bliss non si salva soltanto con le sue capacità ma grazie all’aiuto, sopratutto ma non solo, dell’altro protagonista, Appo, genietto dei codici binari, che mi è piaciuto immaginare somigliante al Sergio Rubini di Nirvana.

Per chiudere con le associazioni che ho fatto circa le possibili ispirazioni, e qui trascuro l’imprescindibile Philip Dick, mi sembra di aver colto anche un livello di lettura che sembra voler realizzare il programma di superamento dell’homo sapiens che Harari, quello di Homo deus, preconizza.

Il mondo descritto è quello delle diverse marginalità, mentre del mondo dei potenti e dei benestanti si ha traccia solo dagli strumenti di controllo – droni, principalmente – che qua e là arrivano a rendere la vita difficile ai protagonisti.

Si svolge tutto a Roma, non sappiamo niente di che cosa ne sia del resto del mondo ma non ci viene mai in mente di chiedercelo perchè Roma è evidentemente la parte per il tutto.

C’è una parte di quasi divulgazione scientifica che viene proposta per dare credibilità alla ricerca su “che cosa è il tempo”, ai margini della fisica quantistica. Sono argomenti che, personalmente, ogni volta che incontro ho l’impressione di aver abbastanza ben intuito e che regolarmente dimentico un attimo dopo e avrei difficoltà a riproporli. Ho avuto la stessa impressione, e anche qualche momento di appesantimento, nel leggere queste parti di “Io sono il tempo”, ma capisco e apprezzo il grande impegno che c’è sotto: impegno non solo narrativo ma proprio di “comprensione”, come se dover accettare razionalmente le conseguenze del principio di indeterminazione fosse stato acquisito come necessario ma non pacificante. Confesso di essere rimasto deluso nel leggere che il presente potesse essere stato identificato di durata definita ma lascio aperta la porta alla possibilità che io non abbia ben capito.

Le parte migliori a mio parere sono le scene di azione: si vedono, se ne sentono gli odori, i suoni, se ne respirano le emozioni: un livello davvero alto di scrittura.

Considerata la già notevole complessità dell’insieme, con flashback che di continuo modificano i contesti e le convinzioni dei protagonisti circa la narrazione in cui sono inseriti, avrei risparmiato al lettore l’onere di equiparare i diversi nomi e appellativi con i quali sono di volta in volta identificati i tanti protagonisti. Ad un certo mi ci sono perso ed ho lasciato perdere ma il racconto di avventura non ha perso di credibilità nè di intensità.

Appo e Bliss sono i giovani protagonisti, ma i tre scienziati più il loro maestro, della generazione precedente che ha prodotto la catastrofe e che ora cerca di controllarla, sono forse i protagonisti veri, con i loro continui cambi di posizione esistenziale e le diverse sfere emotive: anche questi passaggi non sono facili da seguire ma da un certo punto in poi ho deciso di avere fiducia nel fatto che l’autore li avesse ben chiari in mente tutti ed ho preferito l’immersione in ciò che stava succedendo nella pagina.

Ambientare un romanzo complesso in un futuro indefinito da una parte dà spazio ad ogni immaginazione e dall’altro dà il notevole vantaggio narrativo di costruire senza alcun limite che non sia una coerenza interna. Una volta data coerenza ad una visione in cui possono coesistere piani di esistenze parallele con trasferimento di brandelli di ricordi da uno all’altro, tutto è possibile, e lo svelamento finale dei due capitoli iniziali può far girare la testa per il rutilare di sovrapposizione di narrazioni, ma il sostegno di una scrittura non facile ma sempre scorrevole e limpida fa accettare il controllo ferreo, che immagino “costoso” per l’autore, della (non) linearità della storia: ma, nella vigenza del principio di indeterminazione, forse anche questa è coerenza.

Ne potrebbe anche uscire un ben film, per quanto forse ne vedrei più adatta la trasposizione in una graphic novel e, visto che c’è già un eccellente – vedi splendida copertina – illustratore, chissà…

In conclusione: la scrittura è superba, la capacità di organizzazione drammaturgica è piena, mi piace immaginare un prossimo lavoro in cui la sfida sia affrontare i paletti di una storia ambientata in un mondo totalmente reale.

E poi siamo arrivati alla fine (Joshua Ferris)

Scritto in prima persona plurale, ad intendere non qualche “tu ed io”, come nelle ultime pagine potrebbe sembrare – in realtà è rimasto un solo personaggio in scena – ma un gruppo di pubblicitari annoiati e strapagati. Preoccupati di licenziamenti incombenti, di mutui da pagare e in generale di status da mantenere, eppure tenacemente attaccati al chiacchiericcio da macchinetta del caffè, ore a discutere circa la legittimità di essersi qualcuno appropriato della sedia dell’ultimo licenziato e della perfidia organizzativa di aver reso individuabili le sedie con un numero di riconoscimento.

Anche un forse-cancro sarà oggetto di ipotesi, argomentazioni, lunghe dissertazioni circa le intenzioni della forse-malata e circa che cosa sia giusto e utile fare rispetto ad una forse-paura che impedisca alla forse-malata di farsi curare ma non potrebbe essere che la voce l’abbia messa in giro lei stessa per vedere come avremmo reagito o per prenderci in giro e così via di questo passo su ogni avvenìmento significativo o del tutto irrilevante sul quale quel micromondo si avventa ogni giorno.

All’inizio ho faticato un pochino ad entrare, ero un po’ annoiato da questi dibattiti sul (forse) niente, poi sono stato preso dalla progressiva forma che ciascuno dei personaggi, all’inizio quasi indistinti, veniva prendendo, dal divertimento delle situazioni alcune fra il tragico e l’esilarante, ammirato dalla capacità di far passare il lettore da uno stato emotivo ad un altro, e del tutto fluidamente, con una sola frase o anche una sola parola.

L’autore è fortemente ambivalente verso i suoi personaggi, non li ama ed è tuttavia indulgente, quanto basta a rendere il libro godibile fino alla fine.

Homo Deus (Yuval Noah Harari)

Un concentrato di intelligenza, come ogni volta che un rigoroso esame del presente e del passato induce a porsi domande epocali, senza la pretesa di avere le risposte.

Non riesco a riprodurre i percorsi con i quali Harari arriva ad una serie di – ipotetiche e potenziali, sia ben chiaro – previsioni, cerco di limitarmi ad esporne alcuni assunti.

L’evoluzione tecnologica consente quantomeno di “pensare” che l’immortalità sia possibile, insieme al raggiungimento della felicità, ma questi bei progetti sembrano presupporre un’economia a crescita infinita che probabilmente ci condurrà all’estinzione, per mano di creature superiori all’ homo sapiens che noi stessi stiamo cominciando a generare.

Uno degli assunti, mi pare sia proprio il principale, su cui poggiano gli argomenti di Harari è che i neuroscienziati avrebbero dimostrato che non esisterebbero gli individui, ma che ogni essere umano sarebbe costituito di un insiemi di algoritmi, sopratutto biochimici. Ad esempio, le emozioni – “provare” qualcosa – sarebbero prodotte da una serie di algoritmi che sono stati essenziali per lo sviluppo dell’homo sapiens, secondo i principi di Darwin della sopravivvenza del più adatto.

Se “sentire” deriva da algoritmi biochimici, allora anche gli animali “sentono”, e non si può escludere che “entità” di provenienza informatico/elettronica possano/potranno “sentire”. La superiorità dell’homo sapiens è data dalla nostra capacità di collaborare e di farlo con estrema duttilità, a differenza ad esempio delle formiche o delle api,

Altra superiorità dell’homo sapiens sta nella capacità di raccontare storie, e dunque di dare un senso al passato, fare previsioni per il futuro. costruire entità immateriali e intersoggettive come il denaro, gli dei, etc, con funzioni rilevantissime nella nostra esistenza.

Fra queste entità, quella che da qualche secolo ha prevalso, è l’umanesimo, che riconosce una serie di diritti fondamentali a ciascun uomo, fra cui la capacità di realizzarsi al meglio. Qui il punto è in che cosa consisterebbe la libertà: di certo possiamo scegliere quali azioni compiere, ma possiamo scegliere quali desideri avere? E se questi sono determinati da processi biochimici in che cosa consiste esattamente la libertà?

L’evoluzione dell’economia, d’altra parte, tende a rendere sempre meno utili i singoli individui, o meglio la massa dei singoli individui, che possiamo constatare come vengono sempre più rapidamente sostituiti da algoritmi non-umani, anche se creati da uomini. Ma a mano a mano che questi nuovi organismi diventano “capaci di apprendere” sempre meno l’intervento umano sarà necessario. Basta pensare alla medicina: una volta immagazzinati una mole sterminata di dati di tutti gli individui, un computer potrà fare nella maggior parte dei casi diagnosi più accurate e proporre terapie più efficaci della maggioranza dei singoli medici.

La nuova religione dell’umanità potrebbe essere basata appunto sui dati. I Datisti sostengono che un computer che conosca la maggior parte delle informazioni significative su di me potrebbe essere in grado di conoscermi meglio di me stesso e di anticipare i miei desideri. Il che è ciò che, in forma ancora largamente grezza, già fanno i vari Google, Facebook, Amazon etc.

Non si può perciò escludere che saremo governati, “per il nostro bene” da macchine da noi costruite che si saranno da noi emancipate.

Sicuramente ho tagliato con l’accetta concetti che Harari espone con anche un sempre interessante corredo storico e scientifico. Difficile condividere la tesi centrale, che mi fa tornare alla mente suggestioni liceali / universitarie del Barkley che considerava la realtà come meri “fasci di sensazioni”, dell’individuo come “insieme di algoritmi”. Difficile anche confutarla.

Essere una macchina (Mark O’Connel)

Alla scoperta di chi crede davvero alla possibilità di diventare immortale.

Sul serio.

Si chiamano “transumanisti”. Banalizzerò un po’ qualche concetto, per miei limiti di conoscenza, ma gli assunti sui quali si basa questa visione del mondo sono stati prodotti da personaggi non banali, alcuni dei quali sono scienziati rispettati nei rispettivi campi di ricerca.

La mente fondamentalmente sarebbe un dispositivo per lo stoccaggio e la elaborazione di informazioni e il resto del corpo un accessorio di cui nel tempo si potrà fare a meno pur continuando a godere dei piaceri che può darci come se lo avessimo.

La fantascienza ha scritto tanto su questi temi. L’interesse del libro, molto piacevole da leggere, scritto da un giovane giornalista di Dublino, dal mio punto di vista non sta tanto nelle teorie, che a volte mi sembrano vere farneticazioni ma che ammetto possa essere solo per mia ignoranza, quanto nelle effettive realtà che intorno a queste teoria sono state costruite.

È un fatto che al mondo ci sono, oggi, quattro impianti per la crioconservazione, tre negli Stati Uniti e uno in Russia: per 200.000 dollari ci si può far conservare l’intero corpo, 80.000 basteranno per il solo cervello.

Costoro sono convinti che in un futuro le conoscenze e le tecnologia saranno così progredite che potranno essere richiamati in vita.

Fra i personaggi – persone vere – che l’autore ha incontrato e descritto mi è rimasto particolarmente impresso un tale che ha dato al suo camper la forma di una bara, lo ha chiamato “Immortality bus” e ci ha girato gli Stati Uniti per candidarsi alla presidenza sotto allo slogan “sono contrario all’invecchiamento e alla morte”.

Il codice angelico (Roberto Giovagnoni – Adriano Perna)

Chi mi conosce sa che niente è più lontano da me della “angeologia”, di cui questo libro tratta.

Ne ho lette le prime pagine, sfogliate le altre, perchè mi è stato regalato, con tanto di bella dedica, da Roberto, uno degli autori, che conosco di persona.

La parola magica delle teorie spirituali / esoteriche è energia, parola attraverso la quale, spesso con accenni a teorie della fisica delle particelle e alla indeterminatezza della nostra conoscenza, si fanno passare verità che, quando ne chiedi la prova, ti trovi di fronte ad espressioni che posso riassumere sotto “fede“, nel senso che proprio per principio si tratta di verità non conoscibili dalla ragione, e quindi possibile che tu miscredente non capisca che non è la ragione nè il metodo scientifico che puoi applicare se vuoi entrarci in contatto?

Al che ci si può solo ritirare in buon ordine perchè i contesti ermeneutici sono incompatibili.

Fatta questa premessa, testimonio che gli autori sono riusciti ad esporre i loro principi tenendosi sempre su quel filo di rasoio che da una parte cade nella magia e dall’altra mantiene un aggancio al razionale.

Non ci dicono che esistono gli angeli come effettive entità ma fanno l’ipotesi che dentro il DNA di ciascuno di noi sia inscritto questo “codice angelico”, una specie di PIN (Personal Identification Number), che sta a ciascuno di noi trovare, conoscere, sviluppare e che per farlo abbiamo bisogno di una guida che ci metta in contatto con l’energia – energia, appunto – che fluisce nell’universo etc etc etc .

Messa così, il “codice angelico” non sembra tanto diverso dalla “tendenza attualizzante” che Carl Rogers ipotizza essere la spinta che ogni essere umano ha in sè per orientarsi verso il completamento e l’attualizzazione delle proprie potenzialità.

Mi limito a questo parallelo; gli autori sono ben consapevoli del debito che hanno nei confronti di teorie psicologiche e anche delle più semplici tecniche per raggiungere l’autostima etc, e infatti citazioni al riguardo non mancano. Anche il corredo di esercizi, preghiere, etc, nella sostanza non è molto diverso da tanti esercizi che si fanno per attivare questo o quell’emisfero della mente, questa o quella capacità, attitudine, e così via.

L’introduzione degli angeli come elemento di marketing, dunque? Lo penserei se non conoscessi Roberto e parte della sua storia. Roberto tiene regolarmente seminari sugli angeli – li trovate su youtube se vi va – e sempre, a me pare, riesce a mantenersi al di qua di quel filo sottile che separa i ciarlatani da persone che hanno sofferto, che hanno trovato una propria strada di crescita e che hanno l’entusiasmo di trasmetterla ad altri, avendo l’accortezza di mettere in guardia con qualcosa che a me arriva come “non ci credere fino in fondo, per me sono stati gli angeli, tu cerca la tua strada!”.

Semprechè io abbia ben colto l’essenziale, del che potete legittimamente dubitare.

Invito a cena (Joshua Ferris)

Quancuno che considero affidabile e che, ahimè, non ricordo chi fosse, mi aveva consigliato un romanzo di questo Joshua Ferris. In libreria quel romanzo non l’ho trovato, e così mi sono detto intanto compro questo.

Mi sono accorto solo a casa che non di un romanzo si trattava ma di una raccolta di racconti, e me ne sono accorto solo quando ho finito il primo. Mi sono alquanto innervosito, perchè sulla copertina non ce n’è traccia, e questo lo trovo scorretto. Va bene, sono stato anche io negligente, sarebbe bastato sfogliarlo, ma insomma le informazioni essenziali dovrebbero stare in copertina.

Tutta questa premessa per dire che in questa fase una raccolta di racconti non l’avrei mai comprata, e invece, dopo Hemingway, questo è per me il miglior libro di racconti che abbia letto: undici racconti uno meglio dell’altro, non ce n’è uno “più debole”, tutti acidi e intelligenti, niente di superfluo, molti spazi lasciati da riempire al lettore ma mai gratuitamente. Una bella e soddisfacente lettura.

Per il mio recente compleanno mi hanno poi regalato “E poi siamo arrivati alla fine”, che era proprio quello che mi era stato consigliato e che presto leggerò.