Quello che non ti dicono (M. Calabresi)

Pochi, come Mario Calabresi, hanno raccontato una vicenda, e insieme un periodo storico, con altrettanto equilibrio.

Mario Calabresi è stato direttore de La Stampa e di Repubblica, da dove è stato mandato via perchè “troppo equilibrato” (ovviamente non fu questa la motivazione ufficiale).

Un passo indietro: quando, per stornare le indagini sulla bomba di piazza Fontana dai fascisti – poi riconosciuti responsabili – lo stato cercò di indirizzarle verso gli anarchici, il commissario Calabresi era colui che aveva in custodia l’incolpevole anarchico Pinelli, che morì dopo essere volato giù da una finestra della questura di Milano.
Perciò il commissario Calabresi diventò, in quella stagione dolorosa, uno dei “cattivi” designati, e fu assassinato a revolverate.

Mario Calabresi è il figlio del commissario Calabresi e ha raccontato, in “Spingendo la notte più in là”, l’evoluzione della sua famiglia dopo l’assassinio del padre – 1972 – con un equilibrio più che raro.

In questo nuovo libro scrive che, dopo il precedente, aveva giurato di non tornare più su quel periodo, ma un frate dall’Algeria gli parla di una sua quasi coetanea, che ha vissuto una vicenda dolorosa rimasta dimenticata.

Quasi coetanea perchè nata dopo la morte del padre, nel 1975, a sua volta morto senza sapere che gli sarebbe nata una figlia.

Marta è la figlia di Carlo Saronio, proveniente da una delle più influenti famiglie di Milano, ricca di un impero chimico.
Carlo rifiutava i suoi privilegi e oscillava fra volontariato cattolico e istanze gruppettare rivoluzionarie, tanto da mettere a disposizione alcune residenze familiari per attività criminali/terroristiche.

Quando, anche perchè innamorato della madre di Marta, se ne stava probabilmente staccando, fu rapito, forse consenziente, forse no, dai suoi stessi compagni, che ne chiesero il riscatto.
I criminali comuni ai quali fu appaltato il rapimento furono talmente stupidi – sembra di stare in un film dei Coen – da sbagliare la dose di anestetico, tanto che Carlo morì subito. Riuscirono tuttavia a far credere che fosse vivo e a ottenere un riscatto.
La storia è quella del dramma di una famiglia, in un periodo in cui i rapimenti erano il mezzo preferito della malavita – otto in contemporanea, in quei mesi – e del dramma di una giovanissima che si ritrova da pochissimo incinta e con la famiglia del compagno, con l’unica eccezione della madre di Carlo, che la vede come un’approfittatrice.
Solo anni dopo, grazie a un pentito, il corpo di Carlo sarà ritrovato.
Il frate dall’Algeria è un cugino di Carlo, schifato dal comportamento della propria famiglia verso la madre di Marta.
Questa la storia.
Tutto sommato una storia “semplice”, che Mario Calabresi sa restituire come un appassionante giallo attuale, ricostruendo il clima, gli odori, i sapori di un periodo della nostra storia difficile da immaginare per chi non l’abbia vissuto.
La scrittura è piana e onesta, a testimonianza di un equilibrio raro.

I vagabondi (Olga Tokarczuk)

“La Polonia … è scomparsa dalle cartine geografiche dell’Europa per più di 100 anni con le spartizioni, e poi occupata dai nazisti e dai russi… Spariamo e ricompariamo, e non ci fidiamo di ciò in cui ci viene detto di credere”

Romanzo? Non è un romanzo, ma poco importa. D’altra parte nemmeno lo si sarebbe potuto definire una raccolta di racconti, anche se ci sono dentro almeno due, tre racconti molto belli.

Una serie di impressioni di viaggio fra aeroporti, treni, incontri occasionali, metropolitane.

Eppure l’autrice riesce, e senza fornire appigli di collegamento, a mantenere amalgamate le storie che racconta. Oltre al tema del viaggio, la conservazione dei corpi dopo la morte: il cuore di Chopin trasportato dai suoi amici; lo schiavo nero diventato il confidente saggio dell’imperatore e, dopo morto, le struggenti lettere della figlia all’imperatore, affinchè cessi quella barbarie di esporlo impagliato come un fenomeno; la donna che vaga per la metropolitana e incontra una barbona che ha una sua storia; moglie e figlio che scompaiono per due giorni durante una vacanza e, anni dopo, il marito/padre che ancora chiede alla moglie come sono andate le cose.

Sarei molto curioso di sapere come ha deciso l’ordine in cui ha disposto i capitoletti. Per esempio, il racconto più lungo, di moglie e figlio che scompaiono, è esposto in tre parti diverse, riconoscibili dallo stesso titolo: prima dieci pagine e poi altre sedici con in mezzo solo un paio di capitoletti di mezza pagina, infine ripreso duecentocinquanta pagine dopo. Perchè duecentocinquanta e non cinquanta o cento o duecento? E tutti gli altri “titoli”, piuttosto brevi, ha un senso che siano collocati dove stanno o è puramente casuale?

Già porsi queste domande esclude che di romanzo possa trattarsi e che abba una struttura. Eppure, chiamatelo come vi pare ma leggetelo, perchè ne vale la pena.

L’autrice ha originariamente studiato psicologia e qui si è inventata una “psicologia del viaggio” che fa capolino qui e là fino alla fase chiave: “qualunque sia la destinazione, si viaggia sempre in quella direzione. Non importa dove sono, non fa differenza. Io ci sono.”

 

 

Lacci (Domenico Starnone)

Un libro disperato.

Lo capisco, definirlo “disperato” può non attrarre, e tuttavia vale la pena leggere questo ultimo romanzo di Domenico Starnone.

Ne lessi, e rilessi – uno dei libri più divertenti che io abbia incontrato – “La scuola”, agli esordi, poi uno o forse due altri romanzi che non mi hanno lasciato traccia; questo “Lacci”, invece, mi ha colpito per il pessimismo cosmico che trasmette, vestito di uno stile sempre accattivante e piacevole.

Una coppia va in crisi: lui si è innamorato di una ragazza più giovane e vuole viversi questa esperienza. Niente di più banale, eppure i bei romanzi non sono dati dal raccontare storie nuove, ma dal come vengono raccontate. E Starnone sa raccontare, sa tenere l’attenzione viva, la curiosità sveglia.

Ci saranno evoluzioni, naturalmente, che qui non racconto. Ci sono, oltre a marito, moglie, amante di lui, due figli, che da bambini patiscono l’assenza del padre e da adulti si confrontano sulle identità dei genitori, e infine un gatto, con un suo ruolo nella narrazione.

Benchè il finale sembri aspirare a trasmettere un senso di vitalità e spensieratezza, non si salva nessuno. L’impressione è che l’autore non li sopporti proprio, i suoi personaggi, come se il suo approccio allo stare al mondo avesse esaurito tutte le energie a cercare di capirlo e ci avesse rinunciato, senza essersi arreso al fatto che, “capire”, non si può.

“Se tu te lo sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie“. Questo è l’incipit-

Ti mostri affettuoso e intantio sfoghi i cattivi sentimenti per vie traverse“, dice la moglie del marito.

“Mio fratello è un uomo finto… sa mimare bene tutti i sentimenti senza mai provarne nessuno”, dice la sorella del fratello, da adulti.

Si legge in un soffio.

Vita e morte di un ingegnere (E. Albinati)

Della vita, non molto; della morte, letteralmente fino all’ultimo respiro; anzi, alla cremazione.

 

Scritto subito dopo “La scuola cattolica“, e da me letto subito dopo, è come se fosse una continuazione. Come se dopo aver esplorato un quartiere borghese, una scuola privata, un delitto che in quell’humus ha preso forma, Albinati abbia deciso di andare in profondità nella vita del padre.

L’autore scrive ancora in prima persona, è lui presente, non si tratta di un romanzo, si tratta della descrizione del padre, del quasi non rapporto con quest’uomo dedito al lavoro, del quale la moglie spera che l’avvicinarsi della morte “porti a galla i tesori sepolti… senza capire che il tesoro era appunto quell’acqua limpida… in fondo alla cui singolare trasparenza non c’era niente che non fosse da sempre visibile a occhio nudo”.

Mi sono chiesto se mi piacerebbe risultare così a un figlio e no, non mi piacerebbe: quella “singolare trasparenza”, che pure fa pensare a una persona “pulita”, senza contraddizioni, la sentirei addosso come un limite.

Il libro – 159 pagine – è diviso in due parti, quasi paritarie, ma anche se della malattia e della morte si tratta nella seconda parte, malattia e morte sono presenti in tutto il racconto. A me è rimasta impressa con forza la descrizione puntigliosa, dotata di una pietas tenuta a bada da un intelletto poco incline alle sbavature emotive e che tuttavia arriva al lettore, che si chiede – io mi chiedevo – ma ne avete tutte le possibilità, perchè non lo fate morire in pace?

La risposta ci viene data, anche se la domanda nel testo non è posta, e sono quei piccoli gesti che possono essere scambiati, senza poterne essere certi, per attaccamento alla vita, e ai quali non può essere negato valore.

Accompagnamo così l’ingegnere nelle riprese, nelle ricadute, in alcuni trattamenti quasi sicuramente inutili, talvolta dolorosi oltre che inutili, funzionali probabilmente solo al profitto della clinica, fino alla morte nel letto di casa, con i cari vicini ma senza che riesca a godere della loro presenza mentre qualcuno, di sicuro l’autore, cerca, e forse riesce, a beneficiare fino all’ultimo respiro del padre, anche se non sembra riuscire a riconoscerne il sapore.

Difficilmente saremo sollevati dal doppio arcobaleno che si staglia sulla Flaminia mentre la famiglia torna a casa dopo la cremazione.

 

La scuola cattolica (E. Albinati)

Attraverso un quartiere, una scuola, un delitto, un’analisi del maschile, da dentro.

Tre sigle percorrono questo romanzo di più di mille e quattrocento pagine: QT, SLM, DdC.
Rispettivamente, il quartiere Trieste, il san Leone Magno, il delitto del Circeo.

Anni settanta, tre ragazzi incontrano due ragazze, le portano in una villa sul Circeo, le seviziano per due giorni fino a ucciderle. Le mettono nel portabagli della macchina e tornano a Roma a prendersi un gelato. Una delle due ragazze però ha solo finto di essere morta, batte dall’interno del portabagli, qualcuno la sente, viene salvata, due dei tre ragazzi vengono immediatamente arrestati, del terzo non si saprà più niente fino a oggi.

Ci arriviamo dopo più di quattrocento pagine. In realtà, le pagine sui fatti dei delitti – ce ne sarà un altro – sono davvero poche e senza mai che si indulga in quel genere di descrizioni che fanno la fortuna della cronaca nera dei giornali.

Sono nato in quel quartiere, so dov’è il SLM anche se non l’ho frequentato ma sono stato in un collegio gestito da religiosi, conosco quel clima, quel genere di persone perchè, dopo aver abitato altrove, ho lavorato lì vicino e i miei figli hanno frequentato un asilo del quartiere e poi le elementari a Villa Paganini.
Albinati mi ha restituito in pieno quel clima, con in più una quantità di sfaccettature le più diverse.

L’autore ci è nato, ci è vissuto, ha frequentato il SLM e ha conosciuto gli autori del DdC, i loro fratelli e sorelle, gli amici, i genitori, gli insegnanti. Ha sentito il bisogno irrefrenabile di scrivere quando uno dei tre, dopo aver scontato anni di galera ed essere uscito per buona condotta in semi libertà – era diventato consulente psicologico – aveva ammazzato due donne, madre e figlia, la figlia di quattordici anni. Di nuovo senza alcun motivo che lo posso fare, lo faccio.

Eppure non è la riflessione sui delitti il centro del libro. Ne è invece lo spunto per un’analisi profonda, molto profonda, del mondo maschile, in un percorso a spirale con le curve che si allargano sempre di più fino ad abbracciare, in questa ricerca, la borghesia, la classe media, la religione e la sottile arte di rovesciare il senso comune per cui, per dirne solo una, chi muore passa a miglior vita.

Due capitoli, in particolare, dicono del grande scrittore.

Dopo aver fatto complessi ragionamenti sulla quasi ineluttabilità genetica del maschio a essere stupratore e assassino, un capitolo descrive una scena di sesso, bella, vera, alla fine della quale “Le sue natiche rilucevano chiare nel buio, e lei sembrava morta, non si muoveva più, non respirava.“.

Sul finale, l’autore bambino in settimana bianca si ammala, un prete amorevole se ne prende cura, noi vediamo come se ne prende cura ma non sappiamo come se ne prende cura.

L’autore – presente in prima persona nel romanzo – non si fa sconti, ma davvero non se ne fa, non come quelli che si trattano malissimo mentre strizzano l’occhio al lettore: visto, come sono del tutto trasparente anche nel peggio di me?

Sembra spietato, verso i suoi personaggi / persone, tranne che verso la famiglia Rummo, della cui tragedia racconta in un altro bellissimo capitolo, e che ritrova sul finale, alla messa di natale di mezzanotte,  che gli dà l’occasione di concludere il romanzo con una parola inaspettata, che qui non rivelerò.

Non è una lettura leggera, ma è una lettura che prende, che fa venir voglia di andare avanti perchè è vero che sta esprimendo lo stesso concetto ma lo sta facendo con parole nuove, con sempre un aggiunta di significato, un approfondimento marginale ma vero. È uno di quei libri che quando lo hai finito ti lascia la nostalgia di un’esperienza che è passata e che è stato così bello viverla.

I maschi dovrebbero leggerlo per specchiarvisi, come ho cercato, non senza difficoltà, di fare, le donne dovrebbero leggerlo per imparare qualcosa sul maschile e poterlo, qualche volta, compatire.

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Il disperato bisogno di senso, tipico del romanzo, trionfa nelle conclusioni che noi tiriamo sul nostro passato,
fornendo un alibi fantastico per qualsiasi cosa sia accaduta ma anche per quelle che debbono ancora accadere; in
fondo la letteratura è un’assicurazione sulla vita per abbandonare il tentativo di costruirsene una diversa, di
costruire un altro me stesso migliore o più coraggioso,

È questo, sempre, ogni romanzo: la narrazione di un’infelicità.

 

 

 

 

La vita davanti a sè (Roman Gary)

Il commovente Momo, nel collegio dei figli di puttana.

Momo è un ragazzino arabo di dieci anni, ma forse undici, e strada facendo scoprirà che potrebbe averne anche quattordici.
Modo vive con Madame Rosa che, all’ultimo piano di un condominio senza ascensore, alleva una mezza dozzina di flgli di puttana. Alla lettera: sono figli di prostitute che, per le leggi allora vigenti, hanno paura che i servizi sociali glieli tolgano e li diano in affido, e dunque li consegnano a Madame Rosa affinchè se ne prenda cura.
Per Madame Rosa è un lavoro: ogni madre le invia periodicamente soldi, ma Madame Rosa continua a tenere i bambini anche quando le madri scompaiono.
Madame Rosa è una vecchia ebrea nera che ci sta poco con la testa, ogni tanto rivive epoche lontane ed è piena di acciacchi.
Momo se ne prende cura alla fine più di quante cure abbia ricevuto.
Momo si è costruito un linguaggio tutto suo e una visione del mondo del tutto singolare.

Momo soffre per quanto Madame Rosa si deteriora: Madame Rosa gli ha detto che c’è una faccenda che si chiama Ordine dei medici che è fatto apposta per farle delle sevizie e impedirle di morire. Perciò Momo si arrabbia con il dottor Katz, talmente vecchio da dover essere portato in braccio per le scale per visitare Madame Rosa, quando gli dice che non la può abortire.
Momo se la caverà a modo suo, e alla fine ci sarà anche chi si occuperà di lui.

PS: Romain Gary ha vinto il Goncourt con questo romanzo ma con uno pseudonimo: si è saputo solo qualche mese dopo che si era suicidato con un colpo di pistola. Era stato il marito di Jean Seberg, suicida un anno prima. Ha lasciato un biglietto: “Nessun rapporto con Jean Seberg, i patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove

Karoo (Steve Tesic)

Uno sceneggiatore di successo in permanente fuga da se stesso

Karoo è uno sceneggiatore di grande successo: i suoi interventi sono considerati miracolosi nel riuscire a rimettere in piedi un film zoppicante, nel far diventare un grande successo quella che poteva essere una storiella, nel rendere almeno accettabile qualcosa di penoso.

Per qualche mistero della chimica e della fisica, a un certo punto della sua vita Karoo può bere senza limite e senza ubriacarsi ma, siccome tutti lo conoscono come “uno che beve”, finge ogni volta di essere ubriaco per compiacere gli interlocutori e non indagare oltre circa il suo corpo.

La caratteristica principale di Karoo è la mancanza di un bypass fra se stesso e la realtà.

Questo può essere osservato attraverso due, complementari, modalità comportamentali: in certe circostanze sa esattamente che cosa davvero vuole ma agisce altrimenti; in altre, sa esattamente che cosa l’altro si aspetta da lui, glielo promette, glielo giura, e fa regolarmente altro.

Karoo, in effetti, riscrive continuamente la sceneggiatura della sua vita.

Con la quasi ex moglie, che lo conosce a fondo e lo svela senza pietà – il capitoletto che parte da pag. 282 è un capolavoro a se – ha un divorzio in corso senza che si facciano veri passi avanti.
Al figlio adottivo poco più che ventenne, che si ostina a voler credere alle promesse del padre, continua a rifilare buche clamorose.
Va, solo perchè vuole pubblicamente sbranarlo per le sue note nefandezze, all’appuntamento con il feroce produttore di Hollywood, e si ritrova sedotto e coinvolto nello scempio dell’ultimo capolavoro, di cui riconosce la grandezza artistica, del famoso regista, morente.

Nel flm del famoso regista gli sembra di individuare qualcosa che lo induce a mettersi alla ricerca della madre naturale del figlio.

Le vicende che seguiranno, dove la mancanza di bypass fra sè e la realtà produrrà situazioni fra il tragico, il divertente, lo squallido, l’inverosimile, sono il clou del romanzo. Gli avvenimenti saranno tali che un famoso giornalista decide di scriverci un articolo, va alla ricerca dei protagonisti, di chi li ha conosciuti e li conosce, e il risultato è tale che “con un minimo di allenamento ce l’avrebbe fatta a diventare anche in privato, ai suoi stessi occhi, la persona che era ritenuta in pubblico.

Il finale è degno del personaggio, che ha tanti di quei lati pessimi che non possiamo fare a meno di provarne compassione, mista a un pizzico di simpatia per la sua vitalià inesauribile.

PS se qualcuno trova una corrispondenza con la sorprendente, per Adelphi, copertina…
PPS grazie a Selia che me l’ha segnalato.

Il sale della terra (Jeanine Cummins)

… ho respirato la paura, la caparbietà, il coraggio, la sofferenza, la solidarietà, la spietatezza dei tanti protagonisti…

Un romanzo appassionante, di quelli che il giorno dopo vuoi continuare per sapere che cosa succederà ancora e come andrà a finire.
Una donna di Acapulco, appassionata libraia, innamorata del marito, con una bella famiglia, coltiva un’amicizia singolare con un uomo colto che sostiene di rivelare solo a lei il suo essere più profondo.
L’amicizia si rivelerà più pericolosa di quanto potesse sembrare, e la donna sarà costretta a scappare per tutto il Messico, col figlio appena adolescente, per cercare di raggiungere gli USA.
In Usa l’autrice è stata accusata di avere in qualche modo “usurpato” la titolarità dell’identità della donna messicana in fuga. La questione è forse un po’ più controversa: c’è stato uno scatenamento contro Oprah Winfrey – a un libro presentato nella sua trasmissione il successo di vendite è assicurato – che aveva magnificato il romanzo, della serie “come ti permetti di esaltare questo libro scritto da una borghesuccia americana la quale che ne può sapere del dramma dei profughi centroamericani, quando ci stanno tanti altri bellissimi romanzi scritti da messicani veri?”

Personalmente, trovo queste polemiche stucchevoli: chi scrive mette se stesso in quello che scrive, un romanzo è un romanzo, non un trattato di sociologia.
Ciò detto, la parte avvincente del libro è la fuga per tutto il Messico, gli innumerevoli ostacoli da superare, i tradimenti, le persone di buon cuore, i viaggi sul tetto dei treni, i cacciatori di migranti, in un insieme davvero coinvolgente.
Non ho le conoscenze dirette per sapere se l’ambientazione della storia raccontata si avvicini alla realtà, ma resta il fatto che ho respirato la paura, la caparbietà, il coraggio, la sofferenza, la solidarietà, la spietatezza dei tanti protagonisti.
Sono questi i risultati da chiedere a qualsiasi scrittore – scrittrice, il resto mi sembrano polemiche sterili, come quelle sui personaggi dello spettacolo che non vado più a vedere i suoi film perchè è cattivo/a.
Il nucleo per cui vale la pena leggere questo libro è il viaggio, con la tanta umanità che lo percorre. Inizio e fine li ho trovati non tanto credibili, ma sono serviti da complemento all’insieme, e alla fine importano poco.

Anatomia di un istante (J. Cercas)

Un pezzo di storia recente reso in un racconto appassionante

Il ventitrè febbraio 1981 il colonnello Tejero irrompe nel parlamento spagnolo e interrompe la seduta di investitura di un nuovo governo.

Con un tricorno in testa spara da una pistola colpi in aria, seguiti da scariche di mitraglia, ancora in aria, da parte di altri della Guardia civil che partecipavano al golpe.

Intimano a tutti i presenti di nascondersi sotto ai banchi. Tutti – deputati, inservienti, commessi – ubbidiscono.

Tutti eccetto tre: il presidente del governo dimissionario Adolfo Suarez, il generale Gutièrrez Mellado e il capo del partito comunista Santiago Carrillo.

Da questo fermo immagine parte un’analisi del golpe, un’analisi dei principali personaggi implicati – entreranno in scena il re con i suoi consiglieri, saranno stanati i golpisti di retrovia – e ci viene restituto un affresco della società spagnola dopo solo cinque anni dalla morte di Franco, con la nuova democrazia che stenta ad esprimersi, appesantita da un passaggio che ha evitato la resa dei conti e una probabile nuova sanguinosa guerra civile ma al prezzo di portarsi dietro tutto il fascistume dell’era di Franco.

Il libro è appassionante, ogni protagonista è reso a tutto tondo e in tutte le sfumature dei gesti e della storia personale e politica. Uno per tutti: Suarez è un galletto di provincia che, a carriera politica ormai finita, non esita ad affrontare a muso duro i golpisti. “…lo votavano perchè era come loro avrebbero voluto essere… la Spagna degli anni Settanta era più o meno così: un Paese popolato da uomini volgari, ignoranti, cialtroni, giocatori d’azzardo, donnaioli e senza tanti scrupoli, provinciali con una morale da sopravvissuti allevati tra l’Azione cattolica e la Falange che avevano vissuto comodamente sotto al franchismo, collaborazionisti che non avrebbero mai ammesso la propria collaborazione ma che in segreto se ne vergognavano sempre di più e confidavano in Suarez perchè sapevano che … sarebbe sempre stato uno di loro.

È anche una specie di giallo con la ricerca, nei fatti e nelle dichiarazioni, delle vere intenzioni di ciascuno, prima e durante il golpe; perchè il golpe fallì in un giorno e mezzo, ma in quelle ore la regione militare di Valencia si sollevò, restò aperta fino all’ultimo l’opzione golpe duro / golpe morbido, pochi, pochissimi, si schierarono subito apertamente da una parte o dall’altra mentre i più cercarono di mantenere l’ambiguità sufficiente a schierarsi dalla parte giusta – quella vincente – una volta conclusa la vicenda.

Una delle pagine più belle descrive i saluti affettuosi, all’uscita dal parlamento-prigione, di Suarez, Mellado, Carrilo verso il generale Armada, che sarà poi condannato per il golpe ma che in quel momento credono sia stato il loro liberatore, mentre la sua presenza è la garanzia che Tejero ha chiesto per infine arrendersi.

Non c’è una donna, non c’è una storia d’amore, tuttavia un gran libro. Cercherò anche “Soldati di Salamina”.

A proposito di niente (Woody Allen)

Uno che ha capito tutto e ce lo regala da più di cinquant’anni

Quattrocento pagine di autobiografia che vanno dagli inizi – quindicenne – come scrittore di battute vendute a una società di promozione che li attribuiva a personaggi famosi della politica, dello sport, dello spettacolo fino agli ultimi film.

Mi ha fatto venire voglia di recuperare i pochi film che non ho visto e di rivedere i tanti che ho visto. Sono tutti, senza eccezione alcuna, film che è valsa la pena vedere e non ce n’è uno che non offra, oltre al divertimento, qualche spunto di riflessione esistenziale, ottima musica classica e citazioni colte anche se buttate là come se non lo fossero.
Autobiografia più film restituiscono una persona che ha capito come funziona il mondo, che soffre delle ingiustizie ma non se ne meraviglia, così come non si meraviglia delle giravolte sentimentali di noi umani e che attribuisce al caso il principale peso di ciò che viviamo.

In mezzo, anche qualcosa sulla vita privata e sulle accuse che ha subito. Non c’è niente di pruriginoso, preferisco affidarmi alla riconstruzione che ne ha fatto il Il Post. Da parte mia trovo ignobile che l’editore Usa abbia rinunciato alla pubblicazione di questo libro così come il boicotaggio degli ultimi film e mi limito a due osservazioni: il matrimonio in corso dura da venticinque anni, alla coppia sono state date due bambine in adozione.

Nel libro sono citati credo tutti coloro che, nelle posizioni più diverse, lo hanno accompagnato nella lunga vita professionale e per ciascuno c’è almeno una parola di apprezzamento. Tanti elogi anche per gli attori e le attrici: più d’una ha vinto Oscar con i suoi film e molte sono state candidate.
I film corrispondono al personaggio che emerge dal libro: pieno di paure e ossessioni e tuttavia con una voglia di vivere smisurata – “io sono contrario alla morte” – che si realizza negli affetti quotidiani e nella produzione di sceneggiature – tutti i film sono “scritto e diretto da Woody Allen” – e regie dove è facile immaginare che rielabori fantasie e vissuti propri e di chi gli sta intorno.

Credo sia sincero quando, in conclusione, scrive “ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro”.
Lo posso condividere: nessuno dei suoi film, da solo, è un capolavoro, Ma nessun regista al mondo ha girato più di cinquanta film – una media di uno all’anno – che vale la pena vedere, senza eccezioni.

Il finale di “Basta che funzioni”:

Qualunque amore riusciate a dare e ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare, qualunque temporanea elargizione di grazia: basta che funzioni.
E non vi illudete. Non dipende per niente dal vostro ingegno umano.
Più di quanto non vogliate accettare, è la fortuna a governarvi: quante erano le probabilità che uno spermatozoo di vostro padre tra miliardi trovasse il singolo uovo che vi ha fatto?
Non ci pensate, sennò vi viene un attacco di panico.

 
Almeno una cosa (ultima pagina del libro) ce l’ho in comune con Woody Allen: “Il mio eroe preferito? Il cavaliere della valle solitaria“.