Purity ( Jonathan Franzen)

L’ho tenuto sul comodino dall’estate scorsa, le seicentotrentasei pagine meritavano che giungesse il momento adatto.

Purity è il nome di una ragazza di poco più di vent’anni, una delle protagoniste dell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, che ci viene presentata in un appartamento condiviso con personaggi al margine del mondo, carica di debiti studenteschi e con una madre che non vuole rivelarle chi sia il padre.

Non è l’unica protagonista. C’è Andreas, all’inizio solo evocato e poi descritto a tutto tondo dalla prima giovinezza nella Republica democratica tedesca fino al piccolo paradiso in Bolivia dove ha il quartier generale di un’organizzazione svelasegretideipotenti emula di Julian Assange.

I due si incontreranno e per un po’ sembreranno troppe e non sempre verosimili le coincidenze, che invece scopriremo essere parte di un disegno complesso e del tutto lineare, senza una sbavatura di scarsa credibilità.

Grande maestria nella costruzione della storia, dunque, che ruota intorno ad un assassinio da una parte e, dall’alra, alla ricerca della propria strada nella vita attraverso la ricerca del padre e della ricostruzione della propria storia familiare.

Ma non è questo, che già basterebbe a consigliarne la lettura, il pregio maggiore.

Mi viene da far riferimento solo a Dostoevskij per dire della profondità e della gamma di sfumature con cui i moti dell’animo, le contraddizioni più profonde, sono proposti così come sono, e privi di giudizio. A volte viene voglia di chiedersi se ci fosse proprio bisogno anche di questa digressione, ma a mano a mano che si procede ogni personaggio acquista spessore a tutto tondo e alla fine ci sembrerà di averli conosciuti tutti: un ampia esposizione non di tipi umani ma di persone intere di carne e sentimenti.

Mentre confrontavo l’elenco dei suoi romanzi con i titoli allineati nella mia libreria mi sono reso conto di averli letti tutti. A volte mi capita di rileggere. Se mai decidessi di rileggere un romanzo di Franzen sarà Purity, anche prima del più famoso “Le correzioni“.

Qui recensiti anche “Forte movimento” e “La ventisettesima città

Il simpatizzante (Viet Thanh Nguyen)

Il protagonista ha un talento naturale: è “in grado di considerare qualsiasi punto di vista da due punti di vista antitetici“.

È il talento delle spie, dei doppiogiochisti. Il nostro, infatti, è un comunista vietnamita infiltrato al fianco di uno dei più importanti generali del Vietnam del sud, che seguirà negli Usa in fuga alla rovinosa caduta di Saigon. Da lì continuerà a mandare relazioni segrete sui tentativi dei reduci irriducibili di tornare a lottare per la liberazione, fino a rientrare egli stesso e a incontrare gli effetti della realizzazione rivoluzionaria.

Viet Thanh Nguyen è un professore universitario di letteratura, ed è l’ennesimo esempio – la prima folgorazione l’ebbi con lo straordinario “I versetti satanici” di Salman Rushdie- di come l’incrocio di culture sia il più fecondo mezzo per far emergere qualcosa di originale.

Quanti film avremo visto sulla guerra del Vietnam? Beh, mai mi sono sentito così dentro alla paura alla polvere alla confusione al sangue alla disperazione al sudore come nella descrizione dell’assalto agli ultimi posti per lasciare Saigon mentre i vietcong hanno sfondato tutte le resistenze e stanno entrando in città.

Un sottofondo permanente di dolente ironia permette una descrizione quasi leggera di torture e ammazzamenti.

Il tema, comunque, non è la storia della guerra del Vietnam, ma la condanna alla mancanza di identità di quest’uomo doppio, generato da una donna vietnamita e da un prete bianco, che riflette a sua volta il dramma di un paese separato da una riga tracciata sulla carta geografica. La sua tragedia è quella di un popolo riunificato a prezzo di infiniti – e alla fin fine inutili, superflui – orrori.

Premio Pulitzer 2016. Da leggere.

Zero K (Don Delillo)

La giovane moglie ha una malattia incurabile che la porterà presto alla morte.

Il vecchio marito è uno degli uomini più ricchi del mondo. Finanzia un progetto, in uno degli stati caucasici ex sovietici, in cui si può essere congelati ancora vivi con la prospettiva di riemergere quando si potrà essere curati.

Il vecchio marito è molto innamorato e non vuole sopravvivere alla giovane moglie. Perciò, pur essendo ben sano, sceglie di uscire insieme alla giovane moglie dalla vita presente, per avviarsi ad un incerto e improbabile futuro di rinascita.

Chi racconta è il figlio di lui.

Delillo sceglie la fantascienza borderline – e riesce a rendere credibile, senza bisogno che si affanni alla verosimiglianza, l’impianto in cui i corpi diventano non-corpi destinati ad un futuro inattendibile – per trattare la vita, la morte, l’amore.

L’ultimissima pagina dice di uno spirito inguaribilmente romantico.

Tanto di cappello, ancora una volta.

L’ effetto Susan (Peter Hoeg)

Di Peter Hoeg ho letto quasi tutto, a partire dal più famoso “Il senso di Smila per la neve”.

Il suo libro che mi è piaciuto di più è “I quasi adatti”. nel quale i bambini / ragazzi in un collegio – esperimento progressista nella progressista Danimerca degli anni sessanta (?) – sono i protagonisti espliciti di tutto il romanzo, in lotta feroce per affermare la propria individualità in un contesto che pretende di educarli al buon vivere sociale con le sottili sopraffazioni di ciò che ancora non si chiamava polical correct ma lì siamo.

Nei libri di Hoeg c’è sempre un essere innocente, comunque debole, sottoposto ad angherie, e c’è sempre qualcuno con qualche proprietà speciale: Smila è in grado di distinguere più di 40 sfumature di neve, perchè tante sono le parole della lingua eschimese che la descrivono, e Susan ha un dono particolare: le persone che parlano con lei tendono a dire la verità. Il che le permetterà di salvare i due gemelli, pure loro con qualche qualità speciale, senza mai arrivare a troppo inverosimili superpoteri.

La storia è assai poco credibile e tuttavia Hoeg la rende accettabile, e che cosa di più dice di un grande scrittore? Si naviga fra l’India, una segretissima commissione di quasi veggenti che non si sa se abbia fatto danni o fornito informazioni cruciali per la sorte del mondo, fra ricatti e assassini.

Insomma un po’ di giallo, un po’ di spionaggio, tanta introspezione – la parte migliore, direi – circa le relazioni fra Susan e il marito musicista e i gemelli sedicenni.

Vale la pena. Se però non aveste ancora letto niente di Peter Hoeg, non mancate “I quasi adatti”.

Eccomi (Jonathan Safran Foer)

L’ho comprato per ragioni opposte: la segnalazione da parte di uno scrittore, una stroncatura su “Internazionale” così netta (una pallina su cinque) da mettermi in curiosità.

Avevano qualche ragione entrambi.

Più di seicento pagine di un libro per il quale la prima sintesi che mi è venuta è stata “esageratamente ebraico”. Perchè se è vero che lo spunto iniziale è il bar mitzvah (la festa di passaggio all’età adulta) del secondo di tre figli di una coppia di facoltosi intellettuali newyorkesi, che il bar mitzvah è anche l’occasione per l’arrivo a New York degli zii e cugini da Israele, dove un terremoto dà inizio ad una serie di catastrofi, però il fulcro del romanzo è la crisi di questa coppia.

E non c’era proprio bisogno di scomodare le sacre scritture per descrivere lo sfaldarsi di una relazione fra un acclamato autore di serie televisive – il massimo dell’intellettuale del momento – e un’architetta di successo.

Tutto origina, poco originalmente, da alcuni sms captati per caso, dei quali nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se solo di parole scritte si tratta o di fatti, ai quali segue una ripicca della quale pure nessuno dei protagonisti sa nè vuole sapere se consumata o solo avvicinata.

Come – con ben altro spessore, e in un terzo delle pagine – in Cecil Beach di McEwan, la crisi precipita quasi senza la volontà di alcuno, e una famiglia con tre figli ben cresciuti ed alla quale non manca niente, esplode in modo insensato, senza uno straccio di tentativo di riparazione.

Le famiglie – le coppie – esplodono sì anche per occasioni futili, ma il lettore si aspetta di almeno poter intuire che cosa ci potesse essere dietro, sotto, sul fondo. Invece nessun indizio viene fornito, e forse non ce ne sono, e forse l’autore ha solo voluto fare sfoggio di bravura della serie scrivo così bene che vi faccio passare qualsiasi cosa,

Perchè, a scrivere bene scrive bene, se no non sarei arrivato a finire le seicento pagine (che se non ricordo male sono più vicine alle settecento che alle seicento).

Ma l’ambientazione ebraica è giustapposta al nucleo narrativo, non è “necessaria”, e francamente di questo ebraismo newyorkese, presente in tanti romanzi film e serie televisive, ne ho un po’ piene le scatole, convinto che sia sovraesposto rispetto alla realtà.

I dialoghi interminabili, con la inutile pretesa di farli apparire “veri”, nel senso di riprodurre le ripetizioni del linguaggio parlato, coprono almeno un quarto delle pagine. Ed hanno un difetto davvero grave: dal vitalista quasi animalesco zio d’Israele al nonno stra-anticonformista al ragazzino di tredici anni tutti parlano allo stesso modo: intelligente, capace di spaccare il capello in otto, ironico nel modo giusto, allusivo quanto basta eccetera.

Il libro è anche l’occasione per esaminare da vicino le infinite contorsioni dialettiche fra stare in Israele è un dovere per un ebreo e meglio scapparne prima possibile.

Lo consiglierei? Sì, con tanti distinguo, gran parte dei quali sono esposti qui sopra.

Canale Mussolini (Antonio Pennacchi)

Dopo qualche intermezzo, ho letto anche Canale Mussolini. (di Canale Mussolini seconda parte dico qui).

È un libro di storia scritto vorrei dire in poesia, nonostante la prosa sia per lo più brusca, ma scorrevole come se ci fosse dietro un enorme lavoro di pulitura degli argini – tanto per restare in tema – di cui tuttavia non si sente mai il peso.

Conosciamo la famiglia Peruzzi ai primi del ‘900 e la seguiamo – mezzadri, nelle pianure ferraresi dei maledetti Zorzi-Vila – durante la prima guerra mondiale e poi lungo l’affermazione del fascismo, fino a che, rovinati dalla “quota 90”, sono costretti ad accettare di andare a bonificare le paludi pontine. I cispadani, così li chiamavano dispregiativamente gli abitanti di Sezze, Sermoneta e dei paesi vicini. Ricambiati da “marochini”. Tanti episodi di scontri e solidarietà, senza mai bene di quà e male di là.

Non sono affatto d’accordo con chi ne ha criticato la mancanza di giudizio morale rispetto al fascismo: i fatti sono visti dal punto di vista di chi li ha vissuti, nel momento in cui li ha vissuti, e questo è il solo modo di farceli rivivere, ciascuno libero di formarsi il proprio convincimento circa i giudizi.

Tutto l’arco del fascismo, con i vari personaggi storici delineati attraverso i rapporti con questo o quello della famiglia Peruzzi, scorre lungo il romanzo.

Metà famiglia fascista, metà socialista, quasi tutti inconsapevoli della storia che li attraversa e che tuttavia vivono con sangue lacrime e sudore.

Il racconto della bonifica delle paludi pontine, con la costruzione del centrale canale Mussolini, con i riallagamenti per previsioni errate e le riprese caparbie, l’Opera combattenti che regpla i flussi e la distribuzione dei poderi, restituisce la grandezza di un’impresa e la sofferenza e la fatica di chi l’ha sia progettata sia compiuta nei decenni, fra malaria e fame.

Tanti personaggi memorabili, tante pagine commoventi senza nemmeno un briciolo di pietismo.

Un grande romanzo. Una scrittura originalissima. Insieme al secondo, costituisce un punto di riferimento della letteratura italiana. Da far leggere nelle scuole, all’ora di storia.

La qualità sta fra l’Olmi de L’albero degli zoccoli e il Bertolucci di ‘900. Basta?

Canale Mussolini parte seconda (Antonio Pennacchi)

Canale Mussolini (la prima parte) vinse il premio Strega qualche anno fa, ed io mi ritrassi da questo scrittore non professionista, che nelle interviste parlava senza quella gnaggnera delle persone colte.

Qualcuno me ne parlò molto bene, e mi sono deciso a leggerlo partendo, per motivi non identificati – forse solo per averlo incontrato in libreria – da questa seconda parte.

Mi è piaciuto veramente molto. La scrittura è originale senza ricerca di inutili preziosismi, e Pennacchi ha quella capacità dei narratori sudamericani di mischiare la storia di un popolo con apparizioni fantasmatiche, con la Storia, con la costruzione di una nuova città – allora Littoria – dal niente, con i legami familiari stretti dalle provenienze geografiche più disparate.

E’ la storia della seconda guerra mondiale vissuta nella pianura pontina, fra l’occupazione tedesca e il fallimentare sbarco di Anzio degli americani.

Pennacchi ha la capacità di raccontare, attraverso i personaggi che, ciascuno per strade diverse ma tutti provenienti dalla stessa zona, incontrano la resistenza, la repubblica di Salò, l’8 settembre, la fuga del re, quella di Mussolini e Claretta con la moglie di Mussolini sullo sfondo. E riesce, senza fare sconti a nessuno, ma sempre ricordando che c’è un prima e c’è un dopo, nelle cose che accadono, a disegnare un affresco di rara verità.

E con brani di inaspettata poesia. Gli sfollati, il mistero dell’oasi di Ninfa forse salvata perchè fonte di informazioni per gli alleati, altri misteri, il primo affacciarsi di quello che sarà il boom immobiliare e il cambiamento profondo di tutto.

Poi l’amore per la propria città, scenette laterali ma gustose come il prefetto che la mattina presto aspetta al varco della pensilina della stazione gli impiegati dei ministeri che arrivano a Littoria da Roma, mentre l’aumento di stipendio ricevuto per spostarsi a Littoria implicava che vi risiedessero.

Tante pagine gustose, drammatiche, epiche, e grande capacità di mantenere uno stile costante, con trovate linguistiche come far parlare personaggi storici con quello strano burino-cispadano che suonano del tutto coerenti e accettabili.

Insomma, prima o poi leggerò anche la prima parte, serve un po’ di tempo prima di rientrare in queste atmosfere.

La ventisettesima città (Jonathan Franzen)

Sconclusionato, è l’aggettivo che userei se dovessi sintetizzare in una sola parola.
Ma per fortuna dispongo di altre parole, e allora mi sforzerò di spiegare come nonostante tutto – avendo da tempo abbandonato il masochistico impegno di arrivare comunque alla fine di un libro cominciato – sia arrivato all’ultima di queste seicento pagine.

Un complotto ordito da una – inverosimile proprio non basta – giovane indiana (dell’India) che si trova a capo della polizia di St. Louis, capitale del Missouri, e che utilizza un paio di decine di agenti indiani (sempre dell’India) che a lavoro finito scompariranno nel nulla tornando a Bombay.

“A lavoro finito” sarebbe da spiegare, perchè del complotto non si conoscono nè finalità nè complici, mentre se ne conoscono oppositori e grumi di interessi che si fanno e disfano: personaggi che cadono, che tradiscono, che sospettano. Nessuno che ne esca vincitore.

In questo contesto fondamentalmente putrido si allacciano e sciolgono relazioni personali affettive e di vario genere.

Nella caratterizzazione dei protagonisti Franzen dà il meglio di sè, e lungo il percorso si incontrano quelle tre quattro pagine di seguito che, ad esempio, ci conducono da una serata moglie marito che nasce affettuosa e che tracima in veleno possente e che non ci fanno pentire di aver resistito, tanto sono godibili e ben scritte.

Sulla scrittura niente da dire. Sulla costruzione dei periodi, invece, la prima volta può essere interessante arrivare a capire solo dopo un paio di pagine di chi si sta parlando – è anche giusto chiedere attenzione al lettore – ma la ripetizione indefinita della tecnica la riduce ad un trucco e ad un’inutile complicazione, specie quando la stessa persona si sta proponendo con un’altra identità, altro nome eccetera. Qui la lettura diventa inutilmente faticosa.

Tornando alla storia, da una parte suona magica la capacità di tenere tutti i fili ed assegnare a tutti una funzione e con una certa coerenza d’insieme, ma dall’altra prendersi la libertà di far succedere qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa, e pretendere che suoni verosimile solo perchè è straordinariamente ben scritta, trovo che alla fine sia troppo facile, e anche non del tutto rispettoso del lettore.

Concludo con uno strano senso di ammirazione e fastidio.

La ferocia (Nicola Lagioia)

Feroce è feroce, il titolo è il suo.
Un palazzinaro pugliese, che fa crescere la propria azienda fino al successo internazionale. Moglie e quattro figli tutti coinvolti, ciascuno a suo modo, nelle nefandezze necessarie, quasi deterministiche, alla crescita.
Nel sud dove i poteri sono quelli mischiati dei grandi professionisti, dei baroni, dei magistrati, dei funzionari piccoli o grandi purchè abbiano una qualche capacità di interdizione sui processi decisionali.
Comincia con una tragedia, un incidente, e per tutto il libro ci chiediamo perchè vogliano farla sembrare qualcosa di peggio di quello che è.
Piano piano lo capiremo, e saremo portati quasi a farcene una ragione.
L’autore schifa palesemente i suoi personaggi, e però a tutti vuole anche un po’ bene, almeno a quelli della famiglia, di ciascuno esprime la carica di umanità, non ci sono mostri, anche se tutti, nessuno escluso, portano il proprio carico di colpa, quando per azione cosciente, quando per omissione consapevole, quando per immersione – che appare inevitabile – nella fanghiglia della provincia feroce.
La storia procede anche come un bel giallo ma il piacere della lettura sta nell’emergere delle sfaccettature dei personaggi: il patriarca, la moglie, i due figli maschi, le due figlie femmine. Nessuno è innocente, nemmeno chi, già gravato di un incolpevole peccato originale, ha cercato di salvarsi allontanandosi. Tutti sono mirabilmente invischiati dalle tessiture del patriarca che sempre si muove ad unico beneficio della famiglia.
La scrittura è tanto barocca quanto precisa, a volte eccessiva, a volte fastidiosa, ma bastano poche pagine a rassicurarci che non si tratta, non solo, di un esercizio di bravura: dà l’idea di una volontà dell’autore di volerci trasmettere tutto il miscuglio di scirocco e sudore e aliti pesanti e profumi costosi e vere eleganze tuttavia svaccate di fondo.
La costruzione cronologica con i ritorni indietro rasenta la perfezione: a volte restiamo un attimo confusi ma sappiamo sempre a che punto emotivo e temporale siamo.
Solo il finale mi è risultato un po’ “facile”. Ma il vero finale è di qualche pagina prima, quando si capisce che cosa è successo davvero e l’abisso del patriarca appare senza fondo.
Non conoscevo affatto Nicola Lagioia, cercherò qualche suo romanzo precedente, una volta tanto il Premio Strega ha fatto una buona scelta.

La ladra di piante (Daniela Amenta)


Una giovane donna ruba piante trascurate dai condomini di Monteverde, a Roma, e se ne prende cura nel suo largo terrazzo.
Questa la trovata, piuttosto debole, che vorrebbe sorreggere e dare struttura ad un raccontino gradevole, scritto in buon italiano.
Molto scorrevole, si fa leggere volentieri. Forse anche perchè, nel leggerlo, ricevo la sensazione gratificante di potermi riconoscere in gran parte in quel mondo vagamente di sinistra pieno di buone intenzioni e anche di qualche buon comportamento.
Ma questa appartenenza così evidente è un limite: le svolte drammatiche – ce ne sono un paio – arrivano prive di necessità, appaiono forzature con lo scopo di dare spessore ad una storia che non ne ha.
Di fondo, irrilevante. Eppure la stoffa c’è. Vedremo se ci sarà un secondo tentativo, con più distacco dalla vita vissuta della scrittrice, che qui dà l’impressione di avere ricevuto troppo spazio.