Inseparabili (Alessandro Piperno)

Benchè “Con le peggiori intenzioni” non mi fosse piaciuto, tuttavia la scrittura di Giovanni Piperno è ammaliante e, fatta passare l’ubriacatura del Premio Strega, ho sfogliato “Inseparabili” in libreria e ho deciso di dargli – raramente lo faccio: c’è così tanto da leggere… – un’altra possibilità.

La struttura è nella sostanza identica a quella de “Le correzioni“: una famiglia, i figli – tre ne “Le correzioni”, due ne “Gli inseparabili” – le vicende di padre madre e figli che scandiscono il loro tempo e ad ogni ripresa ciascuno aggiunge tasselli alle storie degli altri.

Anche il finale ha qualche somiglianza: lì un ultimo pranzo di Natale prima di lasciare la casa dove tutti sono cresciuti prima di disperdersi, qui un funerale, occasioni per un’ultima vista d’insieme e un ultimo sguardo sui  personaggi.

Ai quali Piperno sembra volere un po’ più bene che ne “Con le peggiori intenzioni”, pur mantenendo la predilezione a far emergere, di ciascuno, il peggio.

Gli inseparabili sono il fratello indolente che si ritrova, per un colpo di genio e di fortuna, con una fama internazionale che non sa gestire, e il fratello brillante che si invischia in una speculazione finanziaria in mezzo ai peggiori mafiosi delle repubbliche baltiche.

Si viaggia in tutto il mondo, la storia sicuramente c’è e sembra pronta, come sempre più spesso mi accade di pensare mentre leggo, per una bella sceneggiatura per un bravo regista.

Scorre in tutte le pagine una profonda, profondissima amarezza, quasi un dolore che non riesca ad esprimersi come tale ed abbia perciò bisogno di tanta intelligenza e tanta capacità di scrittura. Sarà per questo che mi riesce di pensare a Giovanni Piperno più con affetto che con simpatia.

 

 

 

Le correzioni (Jonathan Franzen)

Storia di un’anziana coppia e dei tre figli.

Suona banale, vero? E, infatti, nemmeno c’è una vera “trama”, se non un debole filo che porta a convergere verso “un ultimo Natale insieme in questa casa”. Se pure ci si riuscirà.

Enid ed Alfred sono rimasti nella casa familiare, nel Midwest, mentre i tre figli sono sparsi fra Philadelphia, New York, addirittura Lituania.

Non so bene come parlarne: non ha senso che racconti le storie di ciascuno, nè le storie parallele dei vari personaggi di contorno, ognuno dei quali ha una sua storia “importante”. Anzi, se c’è un limite può essere questo, ma se pure qualcuna di queste storie potrebbe non esserci, e non si perderebbe niente dell’essenziale, pure niente suona superfluo, inutile.

Me la caverò così: è un romando bellissimo, di quelli che riconciliano con la lettura.

Ci sono pagine emozionanti, pagine commoventi, pagine terribili, pagine divertenti, graffianti, tragiche… se dovessi cercare ad ogni costo una sintesi, direi un’ironia amarerrima.

Un libro da leggere. Se non fosse un avverbio talmente abusato da aver perso la propria valenza, direi: da leggere assolutamente.

Il weekend (Peter Cameron)

Un nuovo amore che può far ripartire, ad un anno di distanza da un’insopportabile perdita.

Conosciuto da poco, e quindi non c’è stato tempo nè modo di spiegare che gli amici presso i quali stanno andando a passare il weekend sono amici speciali, perchè lui era il fratello dell’amore morto.

E nemmeno di spiegare che l’amore precedente, ancora presente – e come potrebbe essere altrimenti? – nel ricordo e nella pelle, è morto proprio lì, lì dove stanno andando per il weekend.

Non solo: è morto proprio un anno fa.

Perciò, un nuovo amore appena nato, con già qualche handicap iniziale – la differenza di età e condizione sociale – si confronta con una vita passata, un’importante vita passata, proprio nel primo anniversario della morte.

Non sarà facile.

Il problema Spinoza (Irvin D. Yalom)

Di Yalom, che prima non conoscevo, un amico mi regalò qualche anno fa “La cura Schopenauer”, che mi piacque abbastanza.

Così, quando mi sono trovato davanti, in libreria, “Il problema Spinoza”, con lo stesso accattivante formato e colore, mi sono detto perchè no, in fondo di Spinoza so poco, se sarà riuscito come con Shopenauer a renderne il pensiero in un intreccio ben congegnato…

Si intrecciano due storie: quella di Spinoza, giovane brillante studioso della comunità ebrea di Amsterdam, destinato ad alti traguardi, ma che non si piega alle tradizioni e alle verità consolidate, vuole ricercare liberamente, e per questo – a ventitrè anni – viene espulso dalla comunità, con una formula tale che nessuno degli ebrei potrà più nemmeno rivolgergli la parola.

L’altra stora è quella di un ancor più giovane – diciassette anni – allievo di un liceo estone, Rosenberg, a cui il preside, ebreo, a fronte di espressioni violentemente antisemite, impone la lettura di Goethe, che di Spinoza fu grande estimatore.

Per tutta la vita Rosemberg, che diventerà uno dei nazisti più feroci, sarà ossessionato dal “problema Spinoza”: come era possibile che un ebreo avesse scritto cose di tale profondità che lo stesso Goethe ne aveva tratto ispirazione?

Si alternano, così, i dialoghi serrati di Spinoza con i suoi amici che di nascosto lo vanno a trovare con le ossessioni di Rosemberg e lo sviluppo del nazismo.

La scrittura scorre fluida, sempre piacevole, ma la costruzione d’insieme mi arriva un po’ artefatta. Vedo che Yalom ha scritto anche un “Le lacrime di Nietzsche”, a cui, nonostante la mia curiosità su Nietzsche, di cui ho ammirato la forza della scrittura, dubito vorrò avvicinarmi.

Di tutte le ricchezze (Stefano Benni)

Conobbi l’esilarante scrittura di Benni sulle pagine del Manifesto. Poi ne ho seguito, più perplesso che altro, le scelte verso la poesia, i racconti, i romanzi.

Mi piacque molto “La compagnia dei celestini”. Non riuscii invece ad apprezzare – tra i pochi libri “lasciati” – i più noti “Terra” e “Il bar sotto al mare”.

Ricevuto in regalo “Di tutte le ricchezze”, l’ho letto piacevolmente, molto piacevolmente.

Come a volte mi capita, a distanza di qualche mese, ricordo poco della storia. Qualcosa di più ricordo del “tono” di alcuni personaggi, come Martin, l’anziano professore protagonista, ritiratosi sull’appennino, probabile alter ego di Benni, di cui mi piace qui trascrivere le ultime righe:

E penso a te che mi hai ascoltato. E mi hai reso diverso, nei mille pezzi di specchio, perchè sarò diverso ogni volta che mi rileggerai, e diverso per ognuno che mi leggerà, svogliato o rapito. Questo è il segreto dei libri, la loro vita indomabile.

 

Miele (Ian McEwan)

Se avessi letto “Miele” senza conoscerne l’autore avrei scommesso su John Le Carrè. Avrei perso, ma fino alla fine – e soprattutto alla fine – avrei creduto che questo fosse un romanzo di Le Carrè.

Naturalmente, un fine analista letterario troverebbe le ragioni per smentirmi, e comunque il fatto è che il romanzo lo ha scritto Ian McEwan.

Siccome sono entrambi scrittori di cui ho letto credo tutto (di Le Carrè tutto, di McEwan quasi tutto), il fatto che mi si possano sovrapporre a me fa solo piacere. Magari entrambi si scoccerebbero di questo accostamento, ma tanto nessuno dei due lo saprà mai 🙂  .

Sicuramente di McEwan, ad ogni modo, è la capacità di entrare nell’animo femminile in tutte le sfumature e sottigliezze. La protagonista, infatti, è una giovane, poco più che ventenne negli anni settanta, che si ritrova ad essere parte di un progetto di “guerra fredda culturale” gestito dai servizi segreti inglesi.

La descrizione delle piccole meschine rivalità, i doppi tripli giochi all’interno dei Servizi, lo sfondo storico dell’IRA (quella sì che era una cosa seria…), dell’epica battaglia sindacale dei minatori poi sfociata in una terribile sconfitta, prodromo della vittoria della  Thatcher qualche anno dopo, tutto questo potrebbe essere della penna di Le Carrè.

Difficile dire altro della trama senza togliere il piacere delle sorprese, sempre sostenute dal rigore della storia, mai gratuite.

Anche il sottile dubbio insinuato che il protagonista possa essere un alter ego dello scrittore è proposto con levità, e non ti fa venir voglia di “voglio vedere se può essere vero”, ma ti dà il piacere intellettuale – che però arriva alla pelle – del gioco che potrebbe essere realtà.

Perciò, sia che McEwan abbia davvero vissuto una storia del genere, sia che gli sarebbe piaciuto averla vissuta, sia che l’abbia solo inventata, resta il godimento di una storia e di pagine memorabili, come il ritorno a casa per natale della protagonista, attraverso luoghi dove l’umidità mischia ricordi adolescenziali con turbamenti adulti e ci restituisce una figura di donna con tutte le sfumature dell’arcobaleno, tendente al grigio.

Infine, a differenza che in altri suoi romanzi, dove la tragedia incombe o ha segnato le vite dei protagonisti, qui predomina le leggerezza: il finale è aperto, anche se la ricorsività proposta (potrà essere pubblicato solo fra trent’anni, quando nessuno potrà esserne danneggiat0) guida in una specifica direzione.

Scene dalla vita di un villaggio (Amos Oz)

Sono solito fare un’orecchia in basso – so che qualcuno soffrirà di lesa librità – sulle pagine dove ho trovato una frase un concetto un insieme di suoni di parole che mi abbiano colpito.

(In basso, per distinguerle da quelle – orrore orrore – che faccio in alto, e che ovviamente a mano a mano richiudo anche se le cicatrici restano, per mantenere il segno di dove sono arrivato a leggere)

I libri di Amos Oz sono fra i più massacrati da questa mia abitudine. Può parlare di niente e la sua scrittura da sola vale la lettura.

“Scene dalla vita di un villaggio” non ha la grandezza epica di “Una storia d’amore e di tenebra”, e sono rimasto un po’ deluso dallo scoprire che non di un romanzo si tratta ma di alcuni racconti, il cui filo comune – tenue, proprio tenue – è dato dallo svolgersi tutti nello stesso luogo fisico.

Qualche piccolo particolare – un oggetto, il parente di qualcuno del racconto precedente, cose così – fa da trait d’union fra un racconto e l’altro. Bisogna anche scovarli, non sempre ne ho avuto voglia e perciò sulla fiducia ho deciso che se avessi letto con più attenzione li avrei trovati, perchè ci dovevano essere. Magari non ci sono. Non sempre.

A distanza di poche settimane dalla lettura ne ricordo poco… una sensazione di polvere, di indefinitezza, di situazioni appese, personaggi fluttuanti.

Insomma: non scopriremo mai se davvero qualcuno scava di notte sotto alla casa, e nemmeno ci verrà proposta una qualche ipotesi sul perchè qualcuno dovrebbe farlo.

Queste, le righe finali:

“…. i discorsi non servono a niente, comincia un altro giorno torrido e bisogna andare a lavorare. Chi può lavorare, lavori, fatichi e taccia. Chi non ce la fa più, per favore, che si degni di morire. Chiusa la faccenda”

 

Il matematico indiano (David Levitt)

Matematica e geometria vanno forte, nei titoli dei libri degli ultimi anni, ma qui non è un pretesto: Ramanujan è il matematico indiano davvero vissuto fra Cambridge e Oxford a cavallo della prima guerra mondiale.

È Hardy – importante matematico inglese dell’epoca – che, ricevuta una lettera di Ramanujan, ne intuisce il genio e fa in modo di farlo arrivare in Inghilterra.

Ramanujan è in origine un autodidatta che, solo bevendo avidamente qualsiasi testo di matematica o geometria gli capiti tra le mani, è arrivato a risultati straordinari. Che, appunto, colpiscono Hardy. Dirà di se stesso che l’esser riuscito a far arrivare Ramanujan in Inghilterra è stato il suo maggior contributo alla matematica.

Fin qui, la parte storica sicuramente vera.

Le relazioni tra gli accademici di Cambridge, gli amori, le gelosie personali e professionali, le invidie, le difficoltà di  ambientamento di Ramanujan sia culturali – bramino ortodosso e vegetariano – che pratiche, e le magie delle scoperte matematiche che tanto mi affascinano quanto mi risultano di inarrivabile astrattezza.

Le apparizioni di personaggi come Russel, Keynes, Wittgenstein danno la misura del livello di concentrazione di intelligenze in quei luoghi in quel periodo.

La bravura di Levitt sta nel raccontarti gli intrecci della vita quotidiana come se davvero lui stesso l’avesse vissuta, tanto ti senti immerso, nel leggere, in quell’atmosfera di eccitazione intellettuale, di miserie personali e di slanci solidali.

Un romanzo denso, che mi ha lasciato pieno di quella tristezza feconda.

PS trovo ignobile che nella nota di copertina sia citato Hardy e non Ramanujan.

L’esclusiva (Annalena McAfee)

Siamo nella Londra di fine anni ’80.

Una giovane freelance, tanto intraprendente quanto ignorante, ha – per qualche equivoco, si capirà poi – quella che potrebbe essere l’occasione della vita professionale, fino a quel momento dedicata ad un giornaletto scandalistico e altre minuzzaglie come capita: un’intervista esclusiva alla più che ottantenne grande giornalista, della quale sta per uscire un libro che raccoglie i migliori articoli di decenni di carriera.

Il primo incontro è decisamente pessimo: le due non comunicano proprio. La giovane cerca il pettegolezzo scabroso o almeno piccante, l’anziana verifica l’abissale ignoranza – sia del mondo che dei suoi articoli – della ragazza e la prende in giro facendole credere inesistenti suoi amori con cantanti di epoche sfalsate.

Da qui in poi la ricerca affannosa della giovane di qualche particolare che le permetta di tirar fuori un articolo significativo è l’occasione – mi è capitato di pensare, e il dubbio mi resta, che questo potesse essere lo scopo vero del romanzo – per immergersi nel mondo brillante e falso della Londra intellettual-letteraria-giornalistica. Pieno di gente che difficilmente dovrebbe venir voglia di frequentare, almeno a leggerne.

Ma scava scava, forse ci avviciniamo ad un segreto inconfessabile della vegliarda, qualcosa che rappresenterebbe una contraddizione enorme rispetto ai valori ai quali ha dedicato la vita, sui campi di battaglia (veri campi di battaglia) e tra le ingiustizie del mondo.

In parallelo, l’anziana giornalista scrive e riscrive, cambiando ora un verbo, ora un aggettivo, come in un esercizio di stile di Queneau, l’articolo che non ha mai voluto scrivere, quando per prima entrò in un campo di sterminio appena liberato.

Alla fine, ciascuno avrà avuto il suo, compresa la giovane freelance che l’autrice accompagna senza alcun giudizio e senza alcuna pietà ove la porta il suo essere una vera, integrale cretina.

 

Forte movimento (Jonathan Franzen)

Franzen è un incantatore di serpenti: ti tiene attaccato alle pagine e certe volte ti chiedi perchè lo sto leggendo?

Perchè scrive bene. Ma questa è (dovrebbe: si vede certa roba in libreria…) una precondizione. Perchè ti fa vivere con i suoi personaggi, anche se a volte le lunghe e dettagliate descrizioni ti fanno venir voglia – e capita di soddisfarla – di saltare al paragrafo successivo.

Come in “Libertà”, i temi disastri ambientali  / disastri relazionali sono dominanti. Qui con più di una punta di giallo industriale / rifiuti tossici, argomenti oggi di senso comune, ma va ricordato che il libro è uscito nel 1992, e perciò a Franzen va riconosciuto di stare in pieno nel suo tempo.

Ho sul tavolo da tempo “Correzioni”, che certamente leggerò, ma tra un Franzen e l’altro un po’ di tempo in mezzo lo sento necessario.