La trama del matrimonio (Jeffrey Eugenides)

Quasi cinquecento pagine che scorrono, scorrono. Scorrono senza picchi e senza banalità, civettando tra i “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes e le atmosfere – sempre esplicitamente citate – da Jane Austin.
Potrebbe anche bastare, per giustificarne la lettura.

La descrizione di un amore in cui uno dei partner è affetto da disturbo bipolare – alternanza di periodi di depressione e di eccitato iperattivismo – è forse la parte migliore. A me è sembrata molto molto credibile. Vicina alla realtà. Che pure, per fortuna, non ho avuto occasione di incontrare.
Uno degli elementi che mi dicono di un libro hai fatto bene a leggerlo è quando sei vicino alla fine e hai voglia, proprio voglia, di sapere come va a finire.
Perchè i romanzi, come la vita, finiscono. E non è l’ultima delle ragioni per cui amiamo tanto leggerli.
Bene: il piacere maggiore mi è venuto proprio dalle pagine finali, in cui scivola una soluzione piana, con una propria bella coerenza che non si può dire inaspettata ma nemmeno attesa.

Bambini nel tempo (Ian McEwan)

Una delle sceneggiatrici de “La stanza del figlio” (Nanni Moretti), nel raccontare l’evoluzione della sceneggiatura si chiedeva: “che cosa c’è di più terribile della morte di un figlio?”. La risposta fu “che tu, padre, te ne ritenga causa”.
In “Bambini nel tempo” il protagonista – avviene nelle prime pagine quindi non svelo nulla per chi non lo avesse ancora letto – “perde” la figlia di tre anni in un supermercato: arriva alla cassa, si gira, e la bambina semplicemente non c’è più.
Ho pensato che forse l’ignoto, al contrario della morte, lascia una speranza. E, dall’altra parte che, per quanto estrema, la ferita da una morte si può rimarginare, mentre quella da una scomparsa continuerà a sanguinare per sempre.
I libri di Ian McEwan hanno in comune eventi improvvisi che irrompono nella vita di una persona e ne stravolgono l’esistenza. Fa forse eccezione Chesil Beach.
In comune con “Chesil Beach”, “Bambini nel tempo” ha la straordinaria capacità di restituire l’intensità dei sentimenti che, con tutta la loro forza e contradditorietà. attraversano le persone.
C’è anche una sorta di storia parallella – una coppia di amici che improvvisamente, nel pieno di una carriera travolgente, si trasferiscono in un posto sperduto in campagna – anche bella ma che non aggiunge niente al dramma di un uomo e una donna che non sanno come ritrovarsi dopo la scomparsa della figlia. Rispetto a questo, il più recente “Chesil Beach” ha invece raggiunto l’essenzialità.
Entrambi da leggere, senza riserve.

Il clan dei Mahé (George Simenon)

Una gran fatica, arrivare alla fine. Sconcertante. A voler trovare un tema, un senso: un  medico trascinato da una passione che nemmeno è una passione per una adolescente appena intravista con la quale nemmeno parlerà mai. Una vita monotona che trova un’occasione per rigirarsi… sì, le atmosfere sonnacchiose di una provincia francese umida, ma che altro? Mi ha veramente detto poco, ma forse sono io a non aver trovato.

Cavalli selvaggi (Cormac McCarthy)

Dialoghi secchi. Paesaggi che sembra di uscirne impolverati dal deserto e con gli occhi pieni pieni di colori e odori.

Non tutto si chiude, quindi più come nella vita che come nei romanzi. L’amicizia fra due ragazzi poco più che ragazzini è il tema di tutto il romanzo, come l’amore tra padre e figlio lo era in “La strada”. Il viaggio, il superamento delle difficoltà. Le ingiustizie. Bello, intenso, non consolatorio.

Teoria degli infiniti (John Banville)

Non conoscevo l’autore, irlandese del 1945. Ne ho comprato il romanzo, come a volte faccio, dapprima attratto dal titolo e dal disegno di Picasso in copertina, poi dalla buona scrittura annusata sfogliando a caso. Una storia non c’è, nè vuole esserci. Trecento e più pagine di descrizione di una decina di personaggi e delle loro relazioni – tutto sommato prive di significativi elementi drammatici – possono risultare un po’ faticose, non fosse per la scrittura che le sorregge. Non c’è un protagonista, se non il grande vecchio morente, sullo sfondo, e la famiglia intorno al patriarca con Mercurio – sì, il dio Mercurio, o Ermes per i greci – narratore inconsueto. I personaggi femminili sono tutti, ciascuno a suo modo, segnati da qualche lacuna o manchevolezza di base, dalle quali quelli maschili sembrano invece immuni. Alcune pagine – un rituale autolesionista, un pollo appena sgozzato che si “vede” come in una natura morta fiamminga – sono memorabili. È, infatti, la scrittura protagonista, soprattutto quando impasta gli interventi dispettosi e lussuriosi degli dei – Mercurio non è il solo presente – con le miserie umane. Sicchè le pagine in cui un soffio improvviso travolge una donna stupita dell’ardore inusuale dell’uomo e poi stordita dal ricordo confuso – forse un sogno? – sono quelle per le quali, soprattutto, varrà la pena averlo letto.

Il terrazzino dei gerani timidi (Anna Marchesini)

Una scrittura straordinaria. Straordinariamente ricca di vocaboli, accostamenti inusuali, costruzioni sintattiche come se volteggiasse sul filo tra le due torri (se non avete visto “Man on wire”, procuratevelo) e mai che si percepisca il rischio di caduta. Eppure lieve. E profonda.

Anna Marchesini è proprio l’attrice comica del trio. Confesso il mio pregiudizio iniziale. Smontato dopo le prime due pagine – due proprio due – di scrittura sapiente. “Sapiente” non va bene, può far pensare a “costruito”. E tanto lavoro ci deve essere sotto, ma tale che l’insieme ora scorre, scorre, scorre. Scorre che non ti puoi fermare se non per le palpebre che, a una cert’ora, non resistono.

La storia non c’è, e non so nemmeno se sia un limite. Un sottile nucleo narrativo ruota intorno alla prima comunione della bambina, e agli incontri con alcuni, pochi, personaggi, ognuno dei quali è un’occasione per restituire un’epoca. Pagine memorabili – direi definitive – sulla bambina a confronto con la contabilità peccati / fioretti, eppure senza che mai ci sia l’affondo facile. Infine, le pagine finali sulla gioia della scrittura, magia connettiva di mondi e tempi altrimenti reciprocamente ignoti.

Lo consiglio senza riserve.

Invisibile (Paul Auster)

Difficile dirne. Della scrittura non mi permetto: certo che si legge bene! Il primo rovesciamento di senso può sorprendere e far esclamare ah, ecco che adesso si spiega questa stranezza. Il secondo, bah, il secondo fa pensare al gran mestiere. Le diverse forme scritte – il manosctitto incompiuto, la lettera, … – che all’interno della storia si rincorrono ricorsivamente e cercano di spiegarsi l’un l’altra mi piegano ad una struttura narrativa che mi appare più furba che sapiente.