Non ci sono solo le arance (Janette Winterson)

Una ragazza adottata, con una madre fanatica religiosa che l’ha destinata a fare la missionaria, e la scoperta di amare le donne.

Lo scandalo, l’esorcismo, la scelta dell’autonomia, la ripresa di contatto con un mondo immutato.

Scritto – ho letto solo dopo che si tratta in gran parte di un’autobiografia, se no probabilmente non lo avrei scelto – senza rancore, con qualche arguzia. Non il capolavoro di cui da qualche parte avevo letto: a distanza di poco tempo ne ricordo poco, e questo per me è uno dei criteri per misurare se non il valore di un romanzo, certamente l’effetto che ha avuto su di me.

L’estensione ignota dei miei bisogni mi spaventa. Non so quanto grandi siano o quanto alti, so solo che non vengono soddisfatti

Più lontano ancora (Jonathan Franzen)

Una raccolta di articoli, riflessioni, presentazioni.

Una miniera di indicazioni di libri da leggere. O da non leggere.

Le pagine dedicate all’amico David Foster Wallace restituiscono la grandezza dello scrittore e la sua pochezza umana senza che l’amicizia vacilli.

“La narrativa autobiografica” è uno dei testi più interessanti e veri che ho letto sullo scrivere, da parte di chi scrive. Ecco le quattro domande – “il prezzo che dobbiamo pagare per il piacere di apparire in pubblico” – antipatiche alle quali tocca rispondere:

1. Da quali autori ti senti influenzato?
2. In quale momento della giornata lavori, e come scrivi?
3. Succede anche a te che i personaggi prendano il sopravvento e ti dicano cosa fare?
4. La tua narrativa è autobiografica?

Una chicca a caso: “L’homo sapiens è l’animale che vuole credere, a dispetto della dura legge naturale, che gli altri animali facciano parte della sua famiglia. Potrei presentare ottimi argomenti etici a favore della nostra responsabilità verso le altre specie, eppure a volte mi chiedo se, fondamentalmente, la mia preoccupazione per la biodiversità e il benessere degli animali non sia una specie di regressione alla mia cameretta di bambino e alla sua comunictà di pupazzi di peliche: un sogno di coccole e armonia fra le specie.”

La festa dell’insignificanza (Milan Kundera)

Stalin racconta di come, andando a caccia, vide su un albero ventiquattro pernici e di come, avendo solo dodici cartucce, potè colpirne solo dodici.

Siccome a Stalin piacevano molto le pernici, tornò a casa, si procurò altre dodici cartucce e così potè prendere le altre dodici.

Stalin raccontava questo aneddoto di vita vissuta e poi si ritirava in una stanza da dove poteva ascoltare i commenti dei presenti che nel frattempo si erano raccolti nel pisciatotio per sbeffeggiare di nascosto il grande capo, alla cui presenza nessuno si era azzardato a muovere obiezioni e anzi tutti avevano applaudito la sua sagacia e abilità venatoria.

Una donna vuole suicidarsi. Si butta nel fiume, ma un giovane si tuffa per salvarla. La donna non vuole essere salvata, quindi si divincola e, visto che il ragazzo insiste a volerla salvare, fa in modo di tenerlo sotto finche non smette di respirare. A qual punto la donna ci ripensa, decide che vale la pena continuare a vivere ancora un pò e nuota verso riva.

La festa dell’insignificanza, come credo tutti gli scritti di Kundera dopo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” – se finisce il mondo e devo salvarne solo uno io salvo questo – non è un vero romanzo. È un saggio di filosofia e un esercizio di scrittura sublime.

Non sempre colgo i nessi, che peraltro nel profondo sento esserci.

Qui, una pagina sull’io come volontà e rappresentazione e sul disprezzo.

Il mio romanzo viola profumato (Jan McEwan)

Un libretto di meno di cinquanta pagine, diviso in due.

Nella prima metà un raccontino delizioso sulla gloria degli scrittori affidata alla casualità, alla nemesi, alla slealtà.

Nella seconda metà una riflessione profonda, sempre con la scrittura leggera di cui McEwan ci delizia anche quando scrive di tragedie, sull’io come forma narrativa.

Da non mancare.

Che la festa cominci (Niccolò Ammanniti)

Riletto dopo qualche anno resta uno dei libri più divertenti che io abbia letto.

I satanisti de noantri.
Il parvenue che si è comprato Villa Ada per esibire la più grande festa cafonal-chic mai vista, da far impallidire Westworld, per le variazioni tematiche previste.
Il giovane scrittore che io non ci vado ma no ci vado e poi li smerdo tutti su Repubblica e intanto propone ad almeno tre donne lì incontrate di scappare nella sua casetta in Spagna.
Gli atleti russi rifugiatisi nelle catacombe di santa Priscilla in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960 che, come in Underground, non sanno che cosa è successo in superficie.
Aggiungeteci la cantante convertita, lo scrittore giovanissimo, il vecchio scrittore, il medico cocainomane, alcuni calciatori e altri personaggi di questo livello.

Ammanniti ha scritto un piccolo capolavoro di perfidia e si dev’essere lui per primo divertito come un matto.

Uno scià alla corte d’Europa (Kadar Abdolah)

Lievi capitoletti di due, tre, non ricordo più di cinque pagine, di un viaggio dello scià di Persia venuto, a fine ottocento, a conoscere l’Europa, ci mostrano il mondo in un momento di grandi cambiamenti visti dallo sguardo curioso, infantile, colto, di un despota che si è portato dietro l’harem e gli intrighi di corte.

Strada facendo qualche iman o funzionario fastidioso scompare, mentre la prediletta riesce a tessere alleanze con regine e principesse per tentare di realizzare il sogno di una vita autonoma.

Lo scià si rende conto di aver svenduto la sua terra ad interessi di cui non è stato in grado di cogliere la portata finchè non ha visitato le catene di montaggio, la fabbrica delle aspirine…

L’autore alterna, ai capitoletti ottocenteschi, incursioni – la ricerca dei diari da cui trarre il suo romanzo, con l’aiuto di una bella studentessa del suo dipartimento universitario di studi orientali – nell’oggi, dove le contraddizioni di un secolo e mezzo fa sono esplose e altre se ne sono aggiunte.

Sono sempre più convinto che l’originalità del racconto possa venire sempre più spesso da culture meticciate: stavolta è un iraniano trapiantato in Olanda.

Alla fine della notte (Jan Philipp Sendker)

Uno di quei libri solo annusati in libreria e scelto per la caratteristica che. da quando lessi “I versetti satanici”, sono convinto sia una chiave per qualche originalità: l’incrocio di culture.

Jan Philipp Sendker è tedesco, vissuto a lungo negli USA, per anni corrispondente in Asia. Ci regala questo road book nella Cina di periferia, dove la famiglia costretta alla fuga dal capriccio del rampollo di un qualche indeterminato boss si muove senza punti di riferimento sicuri e deve appoggiarsi senza certezze ad un vecchio in un paese sperduto, ad una donna in una città semivuota, ad un amico da tempo perso, infine ad un bambino che cerca la madre.

È una storia cruda, con poca redenzione, nella quale, oltre all’angoscia per la sorte propria e del loro figlio, lui occidentale lei cinese di Hong Kong, non riescono ad essere solidali fino in fondo, mentre riaffiorano ferite fra loro non sanate.

Forse ce la faranno, di sicuro il loro passaggio non sarà indolore nè per chi li accoglie nè per chi li lascia per strada.

Bello, ne cercherò altri di questo autore che non conoscevo affatto.

Anna Karenina (Lev Tolstoi)

Ce l’ho fatta, a leggerlo. Tante volte avevo pensato di farlo, sempre avevo desistito, fondamentalmente per un pregiudizio rispetto ai “russi pallosi”.

Ho letto poco dei russi: il Dostoevskij di Delitto e castigo e di Memorie dal sottosuolo, il Tolstoi de La morte di Ivan Il’ič, niente altro.

In comune hanno, mi pare, lo scavare fin nelle pieghe più profonde delle contraddizioni umane.

Oggi – più volte celebrata la “fine del romanzo” – uno scrittore tende a far partecipare il lettore alla costruzione delle personalità dei personaggi che propone, cerca di far dedurre il sentire dalle azioni, dai tic, dai dialoghi, difficilmente “racconta” direttamente i sentimenti che attraversano e avvolgono e sconvolgono i protagonisti.

Questo fa Tolstoi. Sarà pure un modo datato di scrivere, resta appassionante dopo quasi centocinquant’anni.

Alcune pagine, anche di personaggi minori, restano memorabili: in due pagine si passa dall’avvicinamento di un uomo e una donna che passeggiano soli ed entrambi sanno che adesso o mai più e quando è quasi adesso basta una banale interruzione esterna per passare al mai più. Nella pace di entrambi, che si stavano avventurando dove non erano certi di potercela fare.

Anna Karenina, invece, e Vronskij, si buttano nell’adesso, lo vivono a dispetto delle convenzioni e delle convenienze. La fragilità di Anna, che ad un certo punto le fa ingigantire all’iperbole alcuni timori sull’amato, la porterà al suicidio, devastando le vite intorno.

Il mondo dei nobili russi fra Mosca e Pietroburgo, fatto di salotti, maldicenze, piccoli intrighi, fidanzamenti, amanti, non sembra tanto diverso da quello della Vienna di Joseph Roth, anche per la totale indifferenza rispetto alle montagne di debiti da cui tanti sono sommersi e dai quali prima o poi saranno travolti.

Ciò che mi ha colpito di più e – non so bene come dirlo, trattandosi di un capolavoro univeralmente riconosciuto – convinto di meno, sono stati i passaggi bruschi, come moti dell’animo del tutto incontrollabili, che quasi ogni personaggio mostra, dagli abissi alle stelle, o viceversa, e poi in direzione opposta. Senza che fattori esterni li provochino, come se l’animo umano (russo?) fosse incapace di autodeterminarsi e preda di un determinismo incontrollabile.

Alcune vicende “di coppia” sono gustose per quanto ancora attualissime, come quando lui vorrebbe andare da una parte ma non ci va perchè a lei dispiacerebbe e però cova risentimento anche se lei lo ha espressamente “autorizzato”, e infine decide di andare ed ora è lei a covare risentimento perchè è vero che gli ho detto che mi avrebbe fatto piacere visto che a lui faceva piacere ma lui avrebbe dovuto capire che mi sarebbe mancato e ne avrei sofferto.

Cos’altro? Levin attaccato alla terra e alla concretezza, incapace di dominarsi e mantenere le buone maniere verso un giovane che esprime educati apprezzamenti verso la moglie Kitty appena – e faticosamente – conquistata. E poi si pente di aver dubitato e le chiede perdono piangente e il giorno dopo caccia di casa il giovane.

“Dal canto suo, nonostante quanto aveva desiderato fosse diventato realtà in ogni sua piega, Vronskij non avrebbe potuto dirsi del tutto felice… e si scopriva a comprendere quanto sbaglia chi confida che la felicità venga, appunto, dall’avverarsi dei desideri.”

La versione di Barney (Mordecai Richler)

Tre mogli: la prima negli anni degli amici di Parigi, la seconda quasi per caso, la terza amore della vita che lo lascerà per un intellettuale perfettino.

Il suo migliore amico scomparso senza lasciare tracce: tutti gli indizi portano a Barney che infatti ne sarà accusato, processato, assolto; ma manterrà su di sè il sospetto per tutta la vita.

Sta tutto nelle prime pagine, non svelo niente. La maestria sta nel portare le tre storie e intrecciarle con la scomparsa dell’amico e con le vicende del quotidiano – Barney è un produttore televisivo che guadagna un sacco di soldi da opere ignobili – ossessionato da due attese: quella che Miriam, la terza moglie, torni da lui, e quella che il suo amico, peraltro abituato periodicamente a sparire, ricompaia.

Nelle ultime pagine il mistero della scomparsa dell’amico sembra svelato, i tre figli litigano fra chi vuole comunque credere alla parola del padre e chi sostiene che si debba cedere a quella che sembra l’evidenza.

Non so che cosa darei per essere capace di scrivere quasi cinquecento pagine e far capire com’è davvero andata nelle ultime quattro righe.

Un godimento continuo, uno di quei libri che prima non vedi l’ora di finire e alla fine rimpiangi di aver finito. Da non mancare.

Dimenticare (Peppe Fiore)

Una bella storia che si legge d’un fiato, un bell’esordio per Peppe Fiore, il cui “Dimenticare” ho comprato attratto da una fascetta di Nicola Lagioia, che stimo sia come autore di romanzi che come intellettuale in generale.

Tra Fiumicino, il Messico e l’Abruzzo, il protagonista Daniele cerca di proteggere come può l’improteggibile fratello Franco – e per un po’ ci riesce pure – da malviventi di mezza tacca con i quali continua a non onorare per tempo debiti.

I personaggi femminili risultano di contorno, anche se bel delineati.

Il pregio maggiore è la scrittura pulita, senza fronzoli, distesa in capitoli brevi in ognuno dei quali succede qualcosa di significativo e resta aperto un dubbio a cui una risposta arriverà non troppo lontana.

Insomma un congegno perfettamente oleato dove ogni tassello va al suo posto al momento giusto. Troppo giusto, però. Tanto giusto che, per amore del congegno, il presupposto principale, la chiave della storia, che si scoprirà alla fine, risulta di una debolezza disarmante, perchè niente di tutto ciò che è accaduto prima ha dato nemmeno una minima traccia di “quel” modo di essere del protagonista.

Temo che l’essere Peppe Fiore anche sceneggiatore (si sa dalla terza di copertina) abbia fatto prevalere il gusto della costruzione sulla necessità della coerenza interna dei personaggi.

Comunque, centonovanta pagine ben scritte e di gradevole lettura, lo aspetto al prossimo.