Resto qui (M. Balzano)

Sono stato diverse volte in val Pusteria, non sapevo che in zona ci fosse, seppellito dall’acqua di una diga, questo paese, del quale è stato risparmiato il campanile che pare diventato meta di selfie.

Il romanzo parla di una famiglia e di una comunità strapazzati per una generazione prima dai fascisti che vietano di parlare il tedesco, poi dai nazisti, infine dalla Montecatini.

Ad un certo punto ci sono gli andanti e i restanti: si guardano male fra di loro, come traditori, perchè fascisti e nazisti si sono accordati per permettere a chi voglia di trasferirsi in Austria.

La guerra è sullo sfondo che segna le esistenze: la figlia scappata con gli zii ricchi, il figlio che diventa nazista e va volontario, moglie e marito che scappano nel gelo verso la Svizzera.

La guerra finisce, le esistenze sembrano ricomporsi, la diga, i cui lavori tante volte sono stati sospesi e tante ripresi – i più confidano nel fato benigno, nella provvidenza, nel papa – infine viene costruita, i masi fatti saltare col tritolo, le famiglie costrette in trentaquattro metri quadri ciascuna.

Uno stile asciutto, denso, per un romanzo appassionante, come se non si sapesse come andrà a finire. Un’epopea di vinti, mai domi.

Bello, da leggere.

La professione del padre (S. Chalandon)

Un romanzo singolare, difficile da descrivere senza svelarne troppo.

L’inizio si può dire, perchè dalle prime pagine il quadro di un padre millantatore e violento, di una madre remissiva, di un figlioletto vittima, è chiaro.

Tutta la prima parte è densa di complotti, dell’amico americano Ted che dà istruzioni al padre a che a sua volta le trasmette al figlio o se ne fa scudo per le punizioni tremende che infligge al piccolo protagonista quando non esegue a puntino gli ordini o non è perfetto a scuola.

Pian piano il figlio diventerà parte attiva e proattiva dei deliri del padre.

Diventerà grande, si costruirà una vita autonoma: un bel lavoro di restauratore, una moglie, un figlio.

Stavo per lasciarlo a metà, stanco della sequenza di “avventure” senza costrutto. Avrei fatto un grande errore, perchè la prima parte è stata necessaria a preparare una seconda parte bellissima, nella ripresa di contatto dopo anni del figlio con i genitori.

Di questa parte preferisco non dire niente, se qualcuno che leggerà qui vorrà leggere il romanzo, perchè l’ho letta non più stancamente come fin verso la metà ma appassionato e voglioso di arrivare alla fine dello svolgimento dei sentimenti che si sviluppano. Senza le grandi contraddizioni che mi sarei potuto aspettare, e anzi con un tono piano, equilibrato, mai urlato. Commovente. Un sentimento che per qualche verso si avvicina a quello che ho avvertito nel vedere Joker, per la vicinanza, che in nessun modo copre le pessime azioni dei protagonisti, a stati di sofferenza estrema di alcune persone.


Da leggere

La vegetariana (Han Kang)

Il romanzo – 176 pagine – è diviso in tre parti: nella prima il protagonista è il marito, nella seconda il cognato, nella terza la sorella. Marito, moglie, sorella di Yeong-hye: la vegetariana.

Il titolo può trarre in inganno, da qualche parte ho letto commenti insensati del genere “hai visto che succede a non mangiare più carne?”.

Si tratta della storia della follia di una donna, che parte da alcuni sogni spaventosi. Ma l’autrice non vuole condurci nell’abisso che può aver prodotto quei sogni e i comportamenti succesivi, si limita a mostrarci il baratro del presente e come se ne varca, inesorabilmente, la soglia.

La scrittura è “povera”; mi sono interrogato sulla difficoltà di tradurre dal coreano, ho cercato in giro e ho scoperto che in realtà il testo italiano è una traduzione della iniziale traduzione inglese, a quanto pare fonte di forti polemiche in Corea e non solo.

Ho immaginato di poter leggere la seconda parte, di gran lunga la più bella, in originale e mi è piaciuto convincermi di come – forse – sarebbe stato visionario il movimento di due corpi dipinti di fiori mentre fanno all’amore, uno coinvolto allo spasimo e l’altro partecipe per inerzia. Una specie di violenza consensuale, se mi si passa l’ossimoro.

Inquietante. Peccato non conoscere il coreano: ho provato con i film di Kim-Ki-Duk (da non perdere) sottotitolati ma temo non sia sufficiente 😉 .

Il sussurro del mondo (Richard Powers)

Un miliardo e mezzo di anni fa, vi siete separati, ma persino oggi, dopo un viaggio immenso in direzioni diverse, voi e il vostro albero condividete un quarto dei vostri geni.

Le seicentocinquanta pagine e la tematica “ecologica” (che noia!) non mi ci avrebbero mai fatto avvicinare, se non fosse stato per il consiglio di un amico, suggellato dal premio Pullizer.

Una volta aperto, si rivela uno di quei libri che non vedi l’ora di riprendere per vedere come prosegue, combattuto fra il piacere di continuare e la tristezza di vedere le pagine mancanti che diventano sempre meno.

I primi capitoli sono le storie – ciascuna un racconto compiuto – di alcuni personaggi che, nei modi più diversi, nei luoghi più diversi, nella loro vita hanno o hanno avuto a che fare con un albero, o una foresta, o un piccolo parco.

Nella seconda parte questi personaggi incrociano le loro vite. Qualcuno per scelta consapevole, qualcuno perchè ci si trova dentro e sceglie di restarci.

L’episodio centrale è un’epica lotta per salvare una sequoia pluricentenaria, alta novanta metri, sulla quale è stata installata una piattaforma che funge da alloggio e riparo per chi la vuole difendere dall’abbattimento.

La descrizione delle stupide e sagacissime trovate per rallentare le distruzioni e delle piccole e grandi crudeltà – peraltro (quasi) tutte “secondo legge” – messe in campo per fiaccare la tenacia di chi resiste ti fa essere presente sul posto, ti fa gridare “dai resisti ancora, smetteranno e vincerai!” oppure “ormai basta, non ce la puoi fare, accontentati, hai dimostrato ciò che volevi, ne parlano tutte le televisioni!”.

Sanno di essere destinati alla sconfitta certa, renderanno dura la vita più che potranno ai taglialegna tecnologizzati.

Non si rassegneranno, perchè la voce degli alberi ha parlato loro, perchè hanno intuito il senso delle infinite connessioni sotterranee di radici, e andranno oltre, con attenzione, applicando conoscenze specialistiche, nella consapevole illusione di continuare una lotta persa in partenza.

I destini umani di ciascuno si svolgeranno secondo disegni illogici, come è la vita vera: il più rigoroso tradirà, il più improbabile sceglierà una coerenza inconcepibile per i suoi affetti più cari.

Un libro epico. Finito di leggerlo, guardo gli alberi con occhi diversi, sorrido alle radici dei pini di Roma che piegano l’asfalto: noi non ci saremo più, loro sì.

Da non mancare.

Qualche spigolatura:

le ragazze dicono il contrario di quello che intendono, per verificare se afferri la loro vera natura. Cosa che vogliono. E poi, quando ci riesci, si offendono

Il geniettio dell’informatica davanti all’insegnante; “Sa perchè lei lo odia. Quelli come lui la porteranno all’estinzione

Yuki (Flaminia Nucci)

Scorre, la scrittura scorre proprio bene e, anche se alcuni passaggi emotivo-relazionali mi sono arrivati più dichiarati che vissuti, sono arrivato alla fine con leggerezza.

La protagonista, dopo una delusione d’amore, si ritira in un posto solitario in Lapponia, vicina ad una coppia di amici di lì.

È scritto in prima persona e, potrei ricordare male, ma il nome della protagonista non è noto. La chiamerò, perciò, casualmente, F, per non confonderla con Diana, che è invece la protagonista del romanzo che F sta scrivendo, durante il ritiro in Lapponia.

Diana, con le sue storie d’amore difficili – prima la sofferenza di doversi mettere d’impegno a staccarsi da una relazione con una donna che ama ma che pretende di vivere liberamente continuando a mantenere Diana legata, poi la difficoltà di avere vicino l’amore di una persona non ancora del tutto emersa alla vita – rappresenta, alla mia lettura, la stessa F “prima” dell’ultima delusione.

La scelta della Lapponia si rivela fortunata: la lunga, ostinata, caparbia, tenera operazione di avvicinare una lince – Yuki: il titolo – ha successo, e il saluto tra F e la lince e i suoi cuccioli ha il sapore di un equilibrio ritrovato, prima del ritorno a casa.

Una piccola nota critica: della ricetta e del brano musicale che accompagnano ogni giornata non sono riuscito sempre a cogliere le connessioni con quanto stavo leggendo. Possibile pure che non fossero previste 😉 .

Leggete, regalate tranquilli, io ci ho inaugurato kindle.

E poi siamo arrivati alla fine (Joshua Ferris)

Scritto in prima persona plurale, ad intendere non qualche “tu ed io”, come nelle ultime pagine potrebbe sembrare – in realtà è rimasto un solo personaggio in scena – ma un gruppo di pubblicitari annoiati e strapagati. Preoccupati di licenziamenti incombenti, di mutui da pagare e in generale di status da mantenere, eppure tenacemente attaccati al chiacchiericcio da macchinetta del caffè, ore a discutere circa la legittimità di essersi qualcuno appropriato della sedia dell’ultimo licenziato e della perfidia organizzativa di aver reso individuabili le sedie con un numero di riconoscimento.

Anche un forse-cancro sarà oggetto di ipotesi, argomentazioni, lunghe dissertazioni circa le intenzioni della forse-malata e circa che cosa sia giusto e utile fare rispetto ad una forse-paura che impedisca alla forse-malata di farsi curare ma non potrebbe essere che la voce l’abbia messa in giro lei stessa per vedere come avremmo reagito o per prenderci in giro e così via di questo passo su ogni avvenìmento significativo o del tutto irrilevante sul quale quel micromondo si avventa ogni giorno.

All’inizio ho faticato un pochino ad entrare, ero un po’ annoiato da questi dibattiti sul (forse) niente, poi sono stato preso dalla progressiva forma che ciascuno dei personaggi, all’inizio quasi indistinti, veniva prendendo, dal divertimento delle situazioni alcune fra il tragico e l’esilarante, ammirato dalla capacità di far passare il lettore da uno stato emotivo ad un altro, e del tutto fluidamente, con una sola frase o anche una sola parola.

L’autore è fortemente ambivalente verso i suoi personaggi, non li ama ed è tuttavia indulgente, quanto basta a rendere il libro godibile fino alla fine.

Invito a cena (Joshua Ferris)

Quancuno che considero affidabile e che, ahimè, non ricordo chi fosse, mi aveva consigliato un romanzo di questo Joshua Ferris. In libreria quel romanzo non l’ho trovato, e così mi sono detto intanto compro questo.

Mi sono accorto solo a casa che non di un romanzo si trattava ma di una raccolta di racconti, e me ne sono accorto solo quando ho finito il primo. Mi sono alquanto innervosito, perchè sulla copertina non ce n’è traccia, e questo lo trovo scorretto. Va bene, sono stato anche io negligente, sarebbe bastato sfogliarlo, ma insomma le informazioni essenziali dovrebbero stare in copertina.

Tutta questa premessa per dire che in questa fase una raccolta di racconti non l’avrei mai comprata, e invece, dopo Hemingway, questo è per me il miglior libro di racconti che abbia letto: undici racconti uno meglio dell’altro, non ce n’è uno “più debole”, tutti acidi e intelligenti, niente di superfluo, molti spazi lasciati da riempire al lettore ma mai gratuitamente. Una bella e soddisfacente lettura.

Per il mio recente compleanno mi hanno poi regalato “E poi siamo arrivati alla fine”, che era proprio quello che mi era stato consigliato e che presto leggerò.

Le affinità elettive (Johann W. Goethe)

Mi sento come il Fantozzi del cineforum: questo libro è una palla mostruosa.

Qui applausi zero, e se qualcuno mi leggesse mi massacrerebbe per l’impertinenza di dire male di uno dei libri più letti al mondo e di più duraturo successo.

Tant’è, pazienza. Ma questi quattro che passano la vita ad aggiustare siepi e piegare colline per ottenere l’ambiente ottimale per le loro viste sono tanticchia insopportabili, anche perchè alcuni passaggi emotivi fondamentali sembrano dipendere proprio da qualche maggiore o minore interesse o passione o attitudine a questi giardinaggi.

Un abisso da carne e sangue che si respirano in Anna Karenina.

La conclusione tragica poi, dopo aver passato metà libro a convincerci della quasi ineluttabilità – addirittura per chimica – del tradimento sentimentale, sembra una vendetta moralistica dell’autore sui protagonisti.

Almeno Edipo era tragico perchè punito senza colpa: costoro sono invece puniti dal destino per aver scelto il loro destino.

Pollice verso, e chi se ne importa se è quasi unanimemente considerato un capolavoro evergreen.

Ogni cosa è illuminata (Jonathan Safran Foer)

Avevo il ricordo vago di un bel film, diretto da un attore che stimo molto: Liev Schreiber, protagonista de “Il candidato della Maciuria” e, più di recente, dell’ottima serie “Ray Donovan”.

Tanto di cappello a Foer che lo ha scritto a venticinque anni. Tanto di cappello perchè è un esercizio di bravura che da una parte difficilmente ti aspetti da uno così giovane ma che, riflettendoci meglio, ti aspetti proprio da uno così giovane.

Si tratta della ricerca, a partire da una sola foto e da un vago riferimento geografico ucraino, di una donna che salvò dai nazisti il nonno del protagonista, e cioè lo stesso scrittore con nome e cognome.

La bravura sta nel linguaggio con cui l’intraprendente e improbabilissima guida ucraina Alex, che si deve pure barcamenare fra un nonno ed un padre caciaroni e oppressivi, si rivolge al protagonista: immagino i salti mortali del traduttore Massimo Bocchiola, che qui merita assolutamente una citazione di merito.

Un esempio da una pagina aperta a caso: “Io ho roteato verso l’Eroe e ho detto: tu non hai mai adocchiato una cosa tale e quale”.

Divertente per cinque, dieci pagine, ma tanto tanto pesante. Tanto pesante che oltre pagina centonovanta (sono trecentosessantaquattro) non ce l’ho fatta a proseguire.

Foer è l’autore anche di Eccomi, qui recensito

Less (Andrews Sean Greer)

Uno scrittore bravino ma rimasto di media tacca ci fa fare il giro del mondo fra un premio, un’intervista, un incarico per un articolo e altre attività proprie di un intellettuale integrale.

Il viaggio è anche un modo per sfuggire al per lui fatidico compimento dei cinquant’anni senza essere diventato nè ricco nè famoso, e per evitare di essere presente al concomitante, con il compleanno, matrimonio dell’amore della sua vita con un altro.

Molto gradevole, per la parte che riguarda l’Italia suona vero, senza gli stereotipi soliti, e ciò mi ha reso credibili anche le altre ambientazioni.

Sembra che a questi intellettuali integrali riesca quasi ad ogni tappa di instaurare una relazione a perdere: sarà perchè fra omosessuali maschi questo è più facile o più credibile? Me lo sono chiesto, mi sono chiesto che ragione ci fosse di disegnare il protagonista come omosessuale, e mentre me lo chiedevo mi dicevo ma non è che per il fatto che tu (io che scrivo qui) te lo chieda ti fa omo de pregiudizio?

Francamente non mi ci riconoscerei. Mi rinforzo però nella convinzione, che se qualcuno mi leggesse mi farebbe etichettare come politicamente scorrettissimo, che omosessuali ed ebrei (qui non c’entrano ma vale in generale per letteratura e cinema) siano sovrarappresentati rispetto alla effettiva presenza nel mondo. È solo un’impressione, non dispongo di dati, e se mi chiedo da dove mi venga questa impressione devo rispondere che mi viene dalla mia – forse troppo banale – esperienza di vita.

“Storia di un matrimonio” era più profondo, qui si è più divertito, e questo è un bene perchè mi sono divertito anche io.