Benedizione (Kent Haruf)

Dalla prima pagina il richiamo ad Hemingway è irresistibile. Poi vedo che ha vinto il premio Hemingway, che Hemingway è stracitato nelle copertine dei tre romanzi che si svolgono nella immaginaria Holt, Colorado, e mi dico si vede che era troppo facile.

Ci rifletto ancora un po’: un altro richiamo mi si affaccia ed è Raymond Carver. Mi dico allora questo Haruf lo posso forse definire un manierista, che compone pregevoli opere ma senza la nettezza di Hemingway nè la capacità ellittica (che vorrà mai dire “capacità ellittica”? posso solo augurarmi che chi abbia letto Carver ci si riconosca) di Carver.

La trama è di quelle che potrebbe essere “qualsiasi”, cioè quando non conta ciò che accade ma come viene raccontato. Qui i pochi personaggi si muovono in un mondo chiuso, in cui sembra che le cose importanti, solo aleggiate, siano successe a tutti a Denver: il pastore l’ha dovuta lasciare, il figlio vi è scappato…

Per un libro di circa 270 pagine sembra impensabile che, dopo solo qualche decina di pagine, abbia sentito la necessità di farmi uno schemino dei personaggi e delle loro relazioni. Questo per la fastidiosa abitudine di cominciare una frase e proseguirla abbastanza a lungo da costringere a chiedersi di chi sta parlando? senza nominare il soggetto protagonista dell’azione se non al paragrafo successivo, o facendolo dedurre magari dall’interlocutore del soggetto stesso.

Finora sembra solo una critica feroce, lo capisco. Ma la scena di quattro donne, dai 10 agli ottant’anni, che una alla volta e poi tutte insieme si fanno il bagno nude in una larga cisterna dove pure si abbeverano le vacche è di una bellezza e leggerezza da valere tutto il romanzo. Il quale, peraltro, comunque – forse ho esagerato con gli elementi critici – si fa leggere più che piacevolmente.

Sono ancora incerto se continuare con “Canto della pianuta” e “Crepuscolo”.

Mi chiamo Lucy Barton (Elizabeth Strout)

Prima di comprare un libro sempre ne sfoglio qualche pagina, ne leggo qualche periodo, e basta poco per farmelo lasciare lì.

Mi chiamo Lucy Barton non mi aveva respinto e nemmeno granchè attratto. Lo comprai perchè vidi che l’autrice aveva scritto anche Olive Kitteridge, che non ho letto ma dal quale è stato tratto un mini serial televisivo che mi piacque molto.

Questo sarebbe, credo, più difficile da rendere in cinema; o televisione, anche se a me pare che la sovrapposizione cinema/tv sia ormai consolidata, con la sola eccezione delle mega-produzioni da vedere con effetti speciali su grande schermo.

La storia è minima – una figlia al capezzale della madre in ospedale, ricordi… – e, recuperando le mie orecchiette sul margine basso delle pagine, il tema di fondo mi sembra sia una riflessione sullo scrivere, di cui ecco qualcosa:

  • “se uno scrive un romanzo lo può sempre riscrivere, ma se vivi per vent’anni con una persona il romanzo è quello, non lo puoi riscrivere con un altro”
  • “ciascuno di voi ha soltanto una storia, scriverete la vostra unica storia in tanti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola”
  • “se la vostra storia ha un lato debole affondateci i denti e affrontatelo prima che possa accorgersene il lettore”
  • “se mentre scrive questa storia sentirà che sta proteggendo qualcuno, si ricordi: c’è qualcosa che non va”

Direi che è valsa la pena leggerlo – 150 pagine leste leste – anche solo per queste mini perle editoriali.

Esti (Péter Esterházy)

Libro fra i più strani che io abbia letto. Sono stato sul punto di lasciarlo più volte, per la difficoltà di seguire sia le trame che la scrittura, ma il fascino di quella lingua continuamente piegata, domata e fatta rinascere in forme inedite mi ha stregato.

Una citazione è obbligatoria per il traduttore Giorgio Pressburger che è riuscito a rendere – io certo non conosco l’ungherese – le infinite cirlocuzioni e i continui accostamenti inediti di parole come se fosse stato scritto in italiano (sono solito lasciare un’orecchietta sul margine basso della pagina che vorrò rileggere, se e quando riprenderò in mano un libro, e non ricordo di averne lasciate tante come stavolta).

Perciò non sono in grado di dire niente della trama, perchè Esti è il multiforme protagonista che, multiforme in senso proprio, si traveste si incarna si immedesima in cento personaggi, e animali, e oggetti, fino a dare comunque un affresco d’insieme dell’autore che mi è sembrato di riconoscere come se fosse stato un mio amico brillante e geniale, quando adesso sono andato a cercarlo su wikipedia, e ne ho trovato una foto con un’enorme massa di capelli bianchi su un viso soddisfatto.

Eppure discendeva da una delle più nobili famiglie ungheresi e certo ha patito la discesa nell’inferno della cortina di ferro, ma se cita il comunismo si tratta sempre dei communistelli o communistucci, dei quali comunque parla sempre con sobria leggerezza.

Eppure il suo libro più famoso, Harmonia caelestis, che racconta la storia della famiglia, ha avuto bisogno di una riedizione corretta quando l’autore ha scoperto che il padre era stato un delatore.

Mi piace immaginare il suo scrivere come (anche) una liberazione, nel piegare la lingua, dai fantasmi del passato.

Nel guscio (Ian McEwan)

Un gioiellino godibilissimo, e mi fermerei qui, perchè McEwan è uno dei più grandi scrittori al mondo.

Ero restio, mi sembrava una trovata ad effetto far parlare in prima persona un feto vicino alla nascita, ma il risultato è un piccolo capolavoro.

I personaggi – lei, lui, l’amante di lei, l’amante di lui, che ci potrebbe essere di più banale? – li conosciamo attraverso il punto di osservazione limitato del nostro protagonista invisibile, che ascolta i discorsi, percepisce i movimenti interiori del corpo della madre, e ci dà modo di avvicinarci ai fatti in maniera graduale, aggiungendo pezzetti di verità passo passo.

È una storia di amore e tradimenti che strada facendo sconfina in un potenziale giallo/noir, i cui protagonisti sembrano assumere le caratteristiche dei delinquenti stupidi dei fratelli Coen, da Il grande Lebonsky a Fargo.

Mi ha richiamato, per il susseguirsi di eventi e di evoluzioni interiori in un tempo e in uno spazio (numero di pagine) limitato, Cecil beach, pure quello un piccolo capolavoro. La grandezza di McEwan sta nella capacità di passare da tragedie (Bambini nel tempo, Giardino di cemento), a irrimediabili contrasti di personalità e cultura (Cecil beach, appunto), a un divertimento come questo Nel guscio, con la stessa resa letteraria.

Il finale, poi, è proprio delizioso.

Da non mancare.

La vita come un romanzo russo (Emmanuele Carrère)

Mi sono sorpreso di non aver qui recensito “Il regno” e “Limonov”, dello stesso autore.

Entrambi da leggere, specialmente, per me, Limonov, che restituisce un affresco di un personaggio davvero speciale, un poeta che viene dal popolo, un crogiolo di contraddizioni fra gli intellettuali di New York, l’URSS di ieri e la Russia di oggi.

Il regno è una profonda riflessione, storicamente fondata, sul cristianesimo, nascita e sviluppo dei primi tempi.

Carrère ha inventato un genere, che credo abbia anche una denominazione, per quanto – poco, proprio poco, a mio parere – queste classificazioni valgano, che consiste nella presenza diretta, con la propria vita, dello scrittore in ciò che sta scrivendo.

Questa presenza in Limonov è discreta, in secondo piano. Ne “Il regno” c’è di più, ed ha una sua ragion d’essere in alcuni paralleli della Storia con il contatto dello scrittore con il cristianesimo.

Meno male che ho letto “La vita come un romanzo russo”, che è stato scritto prima degli altri due citati, dopo Limonov e Il regno. Perchè se lo avessi letto per primo difficilmente mi sarei accostato ad altro.

La storia di “la vita come un romanzo russo” assembla – assembla, sì, perchè le connessioni fra le storie sono fragili quando non inesistenti – la volontà di rendere pubblica la vergogna di famiglia di un nonno che è stato collaborazionista, la curiosità di andare a capire in un posto sperduto della Russia chi fosse quel prigioniero ungherese di cui tutti si erano dimenticati, un racconto erotico che mette definitivamente in crisi la relazione con la compagna del momento.

La presenza costante dell’autore qui è insopportabile, e l’esibizione di sincerità somiglia più ad una trasmissione televisiva in cui si celebra l’osceno dell’intimità esibita che alle Confessioni di sant’Agostino.

Però scrive tanto bene, e riesce a portarti alla fine: la magia è di farsi vedere così tanto stronzo che tu che lo leggi riesci a dirti vabbè pure io certe volte non scherzo, ma proprio così no, eh!

Resistere non serve a niente (Walter Siti)

Non conoscevo Walter Siti, ne ho letto la prima volta per le polemiche, che ho trovato e trovo assurde, sul suo ultimo romanzo “Bruciare tutto”. Ne ho letto un’intervista, ho visto che aveva vinto un premio Strega – in passato storcevo il naso di fronte ai premi, ma devo ammettere che i premi Strega che ho letto erano tutti meritevoli di essere letti, e se in Italia non si scrivono capolavori non sarà mica colpa dei premi! – ed ho deciso di provare.

“Resistere non serve a niente” è stato, infatti, premio Strega 2013.

In certi momenti mi ha fatto pensare ad American Psyco, che considero un grandissimo libro, non tanto per la violenza lì estrema e qui solo annunciata sullo sfondo e comunque non protagonista, quanto per la descrizione di un mondo di ricchi, arricchiti, aspiranti ricchi e di relazioni personali impossibili ad essere autentiche ma che nemmeno sembrano minimamente aspirarvi.

L’autore si mette in mezzo a tratti come uno dei partecipanti alla storia e lo fa con eleganza letteraria, riuscendo ad inserivi pure, senza sbavature, contatti con l’editore committente.

Scritto benissimo, fa entrare nel mondo della finanza che ci governa e riesce a rendere l’impalpabile e tuttavia stritolante potere del denaro apparente. So qualcosa di finanza e derivati e tuttavia in qualche passaggio – documentato, come si spiega nei ringraziamenti finali – mi sono perso i dettagli, ma il succo è rimasto, intrecciato con le vite disperate – nessuno escluso – dei protagonisti, che un finale con un venticello di ripresa non basta a salvare.

A me non sono particolarmente piaciuti i tasselli con personaggi o veri o fintamente nascosti, dei quali avrei fatto volentieri a meno, ma credo si sia fatto prendere la mano dalla vernice di “verità” che ha voluto dare con l’intervento in prima persona dello scrittore. A mio parere ha sottratto invece, così, autenticità alla storia.

Comunque bello, da leggere.

54 (Wu Ming)

Sempre dubbioso di questo collettivo di scrittori passati da Luther Blisset a Wu Ming, mi sono deciso a provare con questo “54”, che sta per l’anno 1954.

La trovata – assumere segretamente Cary Grant per spostare Tito verso il mondo occidentale – è carina e tutto sommato ben resa, nell’intreccio con i residui delle storie partigiane sul fronte est con partigiani combattuti nei cuori, e combattenti fra di loro, purtroppo, fra sentirsi più italiani o più internazionali e comunisti.

Il dopoguerra con i nuovi protagonisti provenienti dalle diverse e spesso opposte storie personali, un figlio alla ricerca del padre, personaggi che continuano la rivoluzione mancata con il contrabbando, insomma una quantità di materiale ottimamente strutturato da chi sa come si costruisce un intreccio.

Appunto: si costruisce. E si sente. Ho immaginato che i diversi autori si siano divisi i filoni narrativi avendo stabilito a priori i nodi di contatto, e mi riesce difficile pensare che altrimenti che così possa essere andata.

Comunque un prodotto gradevole, di lettura piacevole. Per me basta così.

Breaking news (Frank Schätzing)

Consigliato da Clara Sereni, mille pagine di avventure di un giornalista che, dopo una tragedia in Afganistan di cui è stato parte, ritroviamo – carriera, quella brillante, finita – a ciondolare per i bar del medio oriente scrivendo articoli per giornali secondari.

Gli si presenta lo scoop della vita, l’occasione per provare a rientrare nel giro dei grandi reporter di guerra.

Siccome lo scoop ha a che fare con i servizi segreti israeliani, nelle loro varie diramazioni ufficiali ed anche in quelle che da noi si chiamerebbero deviate, la faccenda si fa complicata fino al rischio della vita, che qualcuno strada facendo ci rimette davvero.

Chi ricorda uno dei racconti della Nausea, di Sartre, sa che il partigiano torturato deve resistere ventiquattro ore per dare modo ai suoi compagni di trovare rifugi sicuri e allora costui, per guadagnare tempo, finge di cedere e si inventa che i suoi compagni hanno come punto di raccolta un certo cimitero. Beh, il punto di racconta è proprio in quel cimitero, ed il povero partigiano senza volere ha consegnato i propri compagni al massacro. Qui succede qualcosa del genere: per avvalorare le informazioni che ha, il nostro protagonista aggiunge di suo qualcosa di molto succoso per il giornale a cui sta offrendo l’articolo e dal quale deve avere una consistente somma di denaro per acquistare il cd, senza sapere che quella invenzione, talmente enorme, è vera, e qualcuno che ha ascoltato la conversazione non può permettersi che venga divulgata.

Comincia così la caccia e la fuga.

Ma questo è solo il filo che lega il romanzo, perchè il grosso della sostanza consiste nel racconto, a mano a mano che i tanti protagonisti si presentano sulla scena e se ne sviluppano le vite, della costruzione dello stato di Israele, delle guerre vinte, delle paci fatte, delle paci non fatte, delle invasioni del Libano dei territori palestinesi del Sinai etc.

Da quello che so, le ricostruzioni sono abbastanza fedeli, anche se il punto di vista è sempre rigorosamente israeliano, ma d’altra parte si tratta di un romanzo e le malefatte israeliane non sono certo sottaciute, anche se grande simpatia verso non tanto i palestinesi quanto i loro capi non sembra esserci.

Se qualcuno ha visto quel peraltro bellissimo film che era Valzer con Bashir può capire quando dico che niente è sottaciuto ma la sofferenza maggiore sembra essere quella di chi è costretto a far finta di non vedere mentre i palestinesi di Sabra e Chatila vengono massacrati dalle milizie falangiste piuttosto che lo strazio di chi è massacrato.

Le parti che mi sono particolarmente piaciute sono quelle delle vite dei colonizzatori di una parte del Sinai che pochi anni dopo sono costretti ad abbandonare tutto perchè è stata fatta la pace con l’Egitto, e alcuni di costoro si ritrovano di nuovo lasciare le proprie case per un nuovo progetto di accordo con i palestinesi. Sappiamo che poi le cose, storicamente e politicamente, stanno andando in tutt’altra direzione, ma le lacerazioni interne e le conseguenze sia sui legami familiari che sulla lealtà dei vari apparati sono ottimamente rese.

Il meglio sono le scene di azione, sia all’inizio in Afganistan sia durante gli inseguimenti a chiave plurima in Israele. Qualche volta al protagonista vengono attribuite doti di combattente direi esagerate, ma il tutto tiene.

Non svelo nè l’invenzione vera del giornalista nè il progetto micidiale che salterebbe se lo scoop fosse reso pubblico, dico solo che risultano credibili nel contesto.

Un libro complesso, documentato, direi al livello del miglior Ken Follet.

Mostri che ridono (Denis Johnson)

Scelto per un consiglio di lettura da parte di Jonathan Franzen, ottima scelta, cercherò altri libri di questo autore che non conoscevo.

Lo cominci a leggere e ti sorprendi di trovarti in un Pavone Einaudi,visto che l’ambientazione è fra spie sottospie e controspie nel centro dell’Africa.

Protagonisti un capitano della Nato americano di origini danesi e un ex bambino guerriero ex Cia ex Afganistan ora forse disertore forse infiltrato e insomma qualsiasi cosa si possa essere da quelle parti in mezzo ad ogni traffico senza risparmiarci Mossad e Russi.

Le vicende sono a volte complicate a volte semplificate dalla presenza di una bellissima figlia di un generale nero di una base Usa, fidanzata dell’ex bambino guerriero che la vuole portare, prima di sposarsi, a conoscere la sua famiglia chissà dove, essendo il concetto di famiglia da quelle parti piuttosto lato e vago.

I due sono impegnati per tutto il libro a cercarsi perdersi e ritrovarsi, a raccontarsi reciprocamente mezze balle e mezze verità su traffici veri o presunti o immaginati che vanno dal terribile uranio arricchito ai più banali cavi delle centraline non più utilizzate di certi nodi Nato.

E poi la polvere rossa africana che avvolge tutto, gli alberghi lussuosi e squallidi, qualche stregoneria.

L’ho detta sconclusionata? Credo proprio di sì. Bene, la sconclusionatezza, se il vocabolo esistesse, sarebbe il filo conduttore, peraltro intrinsecamente solido, di questa strana amicizia di questi personaggi così irreali e così carnali.

Spero vi venga voglia di leggerlo, io me lo sono proprio goduto, ne cercherò altri.

Dove la storia finisce (Alessandro Piperno)

Il mondo è lo stesso degli altri due romanzi di Piperno – Con le peggiori intenzioni e Inseparabili – che ho letto, e cioè famiglie ebree romane ricche / benestanti.

Comincia, mi pare, ad essere un limite quest’ambientazione costante, come se Piperno non volesse uscire dal mondo che conosce e ripetesse, con variazioni, la stessa sonata con solo qualche tono diverso.

La scrittura è sempre scorrevole e godibile, e questo resta il maggior pregio di questo romanzo e di Piperno in generale.

Lo confrontavo con Eccomi, letto di recente, per l’ambientazione comune ebraica, anche se lì sono intellettuali di New York e qui medio borghesi romani, e riflettevo su come le duecentosettanta pagine siano risultate insufficienti a dare spessore ai personaggi.

Matteo, più che Il protagonista è l’elemento catalizzatore di un groviglio di relazioni di cui è, anche suo malgrado in qualche caso, il centro. Abbiamo quindi la moglie, la figlia di questa moglie e il figlio di una precedente, i rispettivi coniugi e le rispettive famiglie di origine, un caro amico che lo ha sostenuto in tutti i modi durante dodici anni di esilio forzato in California per sfuggire a un feroce cravattaro.

Lo strozzino finalmente è morto, e il ritorno di Matteo costringe tutti a confrontarsi con la novità nelle vite di ognuno.

Le diatribe di coppia con i corollari suoceri nuore cognati sono descritte con una certa ferocia e questa forse è la parte più godibile.

Il finale arriva inaspettato, il che in genere è una buona cosa perchè è difficile ormai rimanere sorpresi, ma risulta “aggiunto” come per voler dare un tocco di drammaticità a situazioni ben scritte e descritte ma fruste.

A differenza che negli altri romanzi Piperno qui tratta infine bene i suoi personaggi, e l’ultima riga a sorpresa mi ha dato l’impressione di averla scritta per farsi perdonare dalla comunità ebraica romana la messa a nudo ripetuta di un mondo che, nell’insieme, non fa mai una bella figura da questi romanzi. Ma questa è solo una mia libera interpretazione.