La banda dei brocchi (Jonathan Coe)

Di Coe avevo letto “La casa del sonno”, che mi aveva lasciato con molte perplessità.

Un’amica che stimo ha da poco scoperto Coe, ne è entusiasta e ne sta leggendo i romanzi uno dopo l’altro. Mi son allora detto che potesse valer la pena riprovare.

In libreria, insieme con un’altra amica, le ho chiesto che cosa ne sapeva, mi ha detto che i romanzi più famosi sono “La famiglia Winshaw” e questo. Ho scelto questo perché con meno pagine e mi sono riservato, se mi fosse piaciuto, di leggere poi l’altro.

Sono le storie di un gruppo di ragazzi nel periodo delle scuole superiori, con intermezzi che coinvolgono i rispettivi genitori e insegnanti. Si è fatto leggere, ma arrivare alla fine mi è stato faticoso. Veramente anche all’inizio è stato faticoso, perché prima di pagina 80 (sono 376) ho avuto il bisogno di farmi uno schema dei personaggi e delle loro relazioni, per fissare chi era amico di chi, chi figlio di chi eccetera. E non è che siano decine, solo che Coe può chiamare lo stesso personaggio con il nome, con il cognome o con un soprannome o un diminutivo, altamente fregandosene della fatica del lettore a stargli appresso. Sono un fautore della responsabilità del lettore di stare attento a quello che legge, ma qui si tratta di avere rispetto del lettore.

La trovata grafica di scrivere l’ultimo capitolo in modalità “allineato a sinistra”, e perciò con i margini a destra non allineati, per sottolineare una specie di flusso di coscienza dentro al quale uno dei personaggi chiude un po’ tutte le sottotrame è, appunto, una trovata, che non aggiunge sostanza e appare più un esercizio di bravura.

È valsa la pena leggerlo per le venti pagine del racconto di una vacanza in Danimarca. Tuttavia, avulse dal contesto, tanto che vengono proposte come il racconto scritto da uno dei protagonisti – Benjamin, l’intellettuale del gruppetto – e ritrovate. Ci sono tratti un cui arriva il bagliore di un’emozione, ma la “costruzione” a me sembra sempre prevalere sul vero sentimento. L’impressione è che a Coe importi poco dei suoi personaggi.

Insomma, senza farla tanto lunga, non leggerò anche “La famiglia Winshaw”. Non che “La banda dei brocchi” sia di quei romanzi da evitare – ce ne sono – ma si vede che Coe è uno di quegli scrittori con i quali non mi nasce un feeling, e con questo bisogna fare pace.

Il decoro (David Leavitt)

David Leavitt è l’autore dell’ottimo “Il matematico indiano“.

Questo “Il decoro” è una divcrtente e a tratti insopportabile – direi resa volutamente insopportabile dall’autore – descrizione dello stato di totale smarrimento in cui sono caduti un gruppo di amici newyorkesi, intellettuali più che benestanti anche se non straricchi, dopo la vittoria di Trump del 2016.

Mi capitò, proprio ai primi di novembre 2016, di trovarmi ospite di un gruppo di americani che, in occasione del compleanno di qualche loro parente spagnolo, avevano preso in affitto, avendo già votato per corrispondenza, una bella casa nobiliare nel sud della Spagna. La notizia della vittoria di Trump li letteralmente prostrò. Intendiamoci, anche io ero preoccupato e incredulo, ma loro erano proprio persi. Uno scrisse subito su Facebook che chiunque avesse votato Trump glielo facesse sapere che lo avrebbe cancellato dai suoi amici e dalla sua vita.

Ecco, l’ambiente descritto da Levitt mi ha richiamato quella situazione. Qui, al centro delle vicende c’è una casa a Venezia, Italia, che un’amica di Eva deve vendere per necessità e che Eva vuole assolutamente comprare, ora anche per sfuggire al clima irrespirabile del nuovo contesto prodotto dalla vittoria di Trump.  Anche se Eva non ha votato perchè al seggio c’era troppa fila.

Bruce, il marito di Eva, tende ad assecondare, anche perchè si sente in colpa per la giovane amante che non riesce a gestire, i desideri e talvolta i capricci di Eva, ma stavolta la spesa potrebbe essere eccessiva. Anche perchè la casa andrà ristrutturata ed Eva si affida a nessun altro che all’arredatore principe di New York, il quale ovviamente è pieno di impegni.

Altre vicende e personaggi scorrono, con dialoghi sempre gustosi, come quando Eva confida la sua preoccupazione a un’amica per lo stato di agitazione dei loro cani che, da quando Bruce li porta a spasso insieme ai cani del vicino Alec, che ha votato Trump e ha fatto addirittura una festa proprio davanti a casa loro, hanno assorbito le energie negative che il vicino ha trasmesso ai suoi cani.

Alec, nel chiacchierare con Bruce, gli dice voi democratici siete come quei pazzi che si prendono una jena come animale di compagnia e poi, quando la jena vi strappa la faccia a morsi, la vostra preoccupazione è che potrebbe non darvi una seconda possibilità di conviverci: campate male perchè trasformate la vostra paura in colpa!

Insomma, credo che renda bene un certo ambiente, probabile brodo di cultura, immagino, delle parti eccessive del metoo e della cancel culture. Un libro godibile, infine.

Due vite (Emanuele Trevi)

Premio Strega 2021, centoventi pagine che scorrono, letto in un pomeriggio.

Non conoscevo, prima di leggere questo libro, nè Rocco Carbone nè Pia Pera, i due amici dell’autore – le due vite – di cui il libro parla. Rocco Carbone è stato uno scrittore di cui sono stati pubblicati alcuni romanzi, Pia Pera un’apprezzatissima traduttrice, sopratutto dal russo. Per la verità, prima del premio, non conoscevo nemmeno Emanuele Trevi.

I due amici sono morti prima di quando sarebbe giusto morire, uno per un incidente in motorino e l’altra per una malattia degenerativa che non lascia scampo. Le due vite si alternano parallele, se ben ricordo in una sola circostanza i tre amici si trovano tutti e tre insieme, e dunque si tratta del racconto, più che di un terzetto di amici, come avevo immaginato, di due amicizie dello scrittore, che hanno avuto disgraziatamente in comune, e dolorosamente per chi ha loro voluto bene, una morte prematura.

Ci ho trovato, tuttavia, poca vita e molta letterature, come se le due esistenze di cui si parla si risolvessero in larghissima parte nelle loro opere, nelle opere alle quali si sono accostati, e nelle opere che a mano a mano, episodio per episodio, si associano all’esperienza di chi ne ha scritto.

Purtroppo, quando la vita vissuta traspare dalle pagine non arriva – a me non è arrivato, anche se lascio aperta l’opzione che si sia trattato di pudore da parte dell’autore – quel soffio di commozione, di sentimento che ci si potrebbe aspettare dal racconto di amicizie dichiarate così profonde.

Non è un romanzo, risulta piuttosto una specie di parziale autobiografia per interposte persone. Sono meravigliato che gli sia stato assegnato il più prestigioso premio letterario italiano; ho immaginato che i giurati siano stati sedotti dal fatto che, alla fin fine, si parli del loro mondo, di persone che probabilmente tutti hanno conosciuto e apprezzato. Un po’ come quando i critici cinematografici osannano film anche mediocri ma che hanno il merito di trattare di cinema.

Una lettura piacevole, poco più.

La città dei vivi (Nicola Lagioia)

Una brutta storia del 2016, quella raccontata ne La città dei vivi da Nicola Lagioia: due ragazzi, Manuel e Marco, per due giorni torturano e infine uccidono, in un appartamento di Roma, Luca, che conoscevano appena.
Un delitto insensato, senza movente, fa particolarmente orrore, appare più disumano che altri delitti.
Non c’è nessuna indulgenza sui particolari di quei due giorni, c’è uno scavare, con attenzione e comunque rispetto, nelle vite dei due carnefici e della vittima, c’è il tentativo di entrare in contatto con i loro mondi.
C’è il tentativo di entrare in contatto con l’umanità, comunque, della ferocia e della noia, di non scansare i mostri perché altro da noi.
Tentativo, credo, riuscito. L’autore ha sentito la necessità di esserci, e per questo di scrivere in prima persona. Avrebbe potuto fare altre scelte, ma fin dall’inizio ci fa sapere di essere stato toccato personalmente dalla vicenda, per fatti lontani anche se, nel loro contenuto, non paragonabili. Ma sotto ci sono, anche se non del tutto esplicitate, le domande “se si fossero presentate circostanze particolari, potrei esserne stato protagonista anche io, allora? Potrei domani?”.
Domande rivolta a sé stesso, e questo gli dà legittimità e forza per proporle a chiunque legga. E io credo che ciascuno possa ritrovare, nella memoria, situazioni vissute. Questa è la ragion d’essere, credo, di un libro così difficile. Dove parlano amici, parenti, vengono ricostruite circostanze, dove attraverso i racconti di chi li ha conosciuti, di chi li ha cresciuti, i tre protagonisti acquistano forma e dimensione.
È un libro i cui protagonisti sono uomini. Le donne presenti sono figure di contorno rispetto alla narrazione. D’altra parte, non credo esistano esempi di donne che seviziano qualcuno fino alla morte. Dunque, è il maschile che deve interrogarsi. Così come ne “La scuola cattolica” che, scavando nel delitto del Circeo, decostruisce spietatamente, e ne mostra le viscere aperte, un sistema educativo, un quartiere, il genere maschile.
Roma non ne esce bene, ma nemmeno la Puglia ne usciva bene, anzi, ne “La Ferocia”, e la letteratura o fa venire dubbi oppure a che serve scrivere?
A trovarci un difetto, l’inutile storia parallela del turista olandese, mero espediente per aprire e chiudere, secondo me del tutto superfluo. Continuo ad apprezzare la scrittura di Nicola Lagioia e il suo modo di intendere l’impegno civile anche nella scrittura.

L’angoscia del re Salomone (Roman Gary)

A proposito del bisogno di aver bisogno degli altri

Questo romanzo, come il precedente “La vita davanti a sè“, uscì firmato da Emile Ajar. Con questo stratagemma Roman Gary vinse per due volte – il regolamento lo avrebbe vietato – il premio Goncourt. Si dev’essere divertito un sacco, visto che il segreto è riuscito a portarselo nella tomba.

Come nel precedente, il protagonista è un outsider, che parla una lingua tutta sua con la quale pronuncia inconsuete verità: Jeannot è stato ingaggiato da Salomon, un vecchio di ottantacinque anni, ricco di trascorsi industriali, come tutto fare; Salomon sostiene un centro – una sorta di telefono amico – e qualche volta è lui stesso, la notte, a rispondere alle telefonate dei disperati, perchè, dice Jeannot, “…la notte si sente maggiormente angosciato e appunto quando è più solo ha bisogno di qualcuno che abbia bisogno di lui.”

Sembra aver imparato la lezione che Salomon gli ha dato quando si sono conosciuti: “… che si sono sempre sentiti sfigati e respinti e che si rifanno diventando psichiatri e si occupano dei giovani drogati e dei poveri disgraziati e si sentono importanti e sono molto ricercati e circondati da ammirazione…

La vicenda centrale è tuttavia una triangolazione che si snoda, con la mediazione del centro di assistenza telefonica, fra Salomon, Jeannot e Cora, una anziana cantante che ha avuto un breve momento di gloria negli anni della guerra.

Scopriremo strada facendo perchè Cora non ha potuto proseguire una carriera che sarebbe potuta essere importante, scopriremo quale relazione c’è stata fra Salomon e Cora, quali segreti nasconde, vedremo quali saranno i modi, in parte casuali, in parte orientati, con i quali Jeannot e Cora si avvicineranno.
Un libro delizioso.

La direzione del pensiero (Marco Malvaldi). Helgoland (Carlo Rovelli)

Concentrati di intelligenza, suscitatori di domande più che elargitori di risposte pacificatrici.

Marco Malvaldi è più noto come scrittore della serie di gialli Sellerio con i vecchietti del bar della Versilia, ma è un chimico, che ha messo la gradevolezza della sua scrittura al servizio di qualcosa di cui oggi mi pare ci sia tanto bisogno: distinguere cause da conseguenze.
Carlo Rovelli è un fisico teorico importante, già autore, fra l’altro, de “L’ordine del tempo”. Helgoland è l’isola sperduta nel Mare del nord dove Heisenberg, a ventitrè anni, avviò la teoria quantistica.
È stato casuale che mi sia trovato a leggerli uno dietro l’altro, e in qualche momento alternandoli.
Non mi azzardo a ripercorrerne gli argomenti; in questi casi io funziono così: leggo, mi appassiono, qualcosa capisco, molto intuisco, tanto so che è fuori dalla mia portata, eppure provo un’attrazione fortissima per l’inarrivabile.

Malvaldi parte da Hume: “la causa è qualcosa che, se rimossa, fa sì che l’esito non avvenga”. Poi allarga l’orizzonte a “che cosa accadrebbe se?” e a “che cosa sarebbe (o non sarebbe) accaduto se invece?” come metodi per individuare, per approssimazioni successive, quali dati sono più significativi per assumere una decisione. Molto interessante il risultato del confronto fra Cina e Italia sulle diverse risposte al virus.

Alcuni esempi sul calcolo delle probabilità pure sono gustosi, come quello del giudice che assolve colui che è stato trovato con 50 bustine di polvere bianca e le uniche tre esaminate contenevano tutte eroina. Lo assolve perchè dall’arresto al processo le 50 bustine sono state distrutte, e l’avvocato convince il giudice che, senza la prova che tutte e 50 c0ntessero eroina, le sole tre potevano essere per solo uso personale. In un caso analogo, un altro giudice condannò, quando calcolò che la probabilità che su 50 bustine fossero state casualmente prese le sole tre contenenti eroina era 1/26.000.
Spunti finali su possibili teorie della “coscienza di se”.

Rovelli ci dice che la fisica, non descrive “come la Natura è”, ma solo “quanto possiamo dire della Natura”.
Qualcosa che sembra ormai provato è che nulla esiste “di per sè”, ma solo “in relazione a”.
Ciò, non soltanto nel mondo delle relazioni umane, dove il concetto è da tempo acquisito, ma anche nel mondo della materia, dove le cose fisiche hanno proprietà solo quando interagiscono: l’interazione è parte inseparabile dai fenomeni.

Il mondo pullula di correlazioni, la maggior parte delle quali non significa letteralmente niente: succede qualcsa di straordinario quando identifichiamo quelle significative, quando si combinano informazione ed evoluzione.
La sfida sta ancora nell’approfondire come significato, intenzionalità, sensazioni soggettive si combinano e, per tornare al primo libro, dove sta la causa e dove l’effetto.

Concentrati di intelligenza, suscitatori di domande più che elargitori di risposte pacificatrici.

Tempo di uccidere (Ennio Flaiano)

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate, e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri esserne mai del tutto consapevole.

Un camion rovesciato su una strada polverosa dell’Etiopia degli anni trenta, quelli dell’Italia ha un impero.

Il giovane tenente, dopo aver aspettato che passi qualche camion, si stufa, lascia lì il soldato che lo accompagnava e si avvia ad attraversare una valle che lo porterà dove corre una strada più frequentata.

Il protagonista potrebbe essere uno dei personaggi di Joseph Roth – di altra epoca e altre ambientazioni – con i quali sembra avere in comune una cupa neghittosità che lo porta a non stare mai davvero in contatto con il mondo che lo circonda, a sfidarlo e a ritrarsene ma sempre in modi che appaiono casuali anche quando sembrano meditati

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri essere consapevole di che cosa gli succede intorno e che cosa producono le sue azioni.

Così vaga, fra boscaglie infide di iene e fetore di carcasse di muli, fino a una città portuale dove le vie d’uscita non si trovano.
Tornerà alla base? La sua assenza è stata notata? Sarà sanzionata?
Tutto scorre con sullo sfondo le atrocità verso i guerrieri africani, le piccolezze quotidiane di chi si trova a esercitare un briciolo di potere lontano dall’esistenza di fame in patria.
La vicenda del protagonista sembra parallela e in qualche misura simbolica rispetto a quella dell’avventura africana di un esercito comandato da cialtroni tanto male equipaggiati quanto feroci.

Alla fine cammina a fianco di un sottotenente e sente l’odore della pomata per capelli di quello: “... dal profumo delicato, infantile, ma il caldo la stava inacidendo. Una pessima pomata, che il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva“.

Queste, sopra, le ultime parole del romanzo, che ne restituiscono in pieno l’atmosfera.

Diceria dell’untore (G. Bufalino)

Una scrittura unica, un gorgo che ti attira e non ti lascia.

La scrittura.
Per leggere un libro di Bufalino bisogna innamorarsi della sua scrittura.
Me ne sono innamorato con “Le menzogne della notte”, ed ecco qui il più famoso “Diceria dell’untore”.
È una storia, se vogliamo banale, di un amore e di competizione per una donna all’interno di un sanatorio per malati di tubercolosi. Qualcuno morirà, qualcuno è già morto e non lo sa, o lo sa, qualcuno si salverà.

Qualche assaggio, perchè non riuscirei a renderne la grandezza.

“Si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili”

Il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, ma stringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini a rompersi contro la sciara, dovunque fa mulinello, e le illude, un inesistente palpito d’acqua.”

“Avevo più letto libri che vissuto giorni, nel mio così fuggitivo, così inefficace passaggio lungo le stradde degli uomini.”

“Voglio cercarmi un bambino per la strada… Gli darò uno schiaffo, gli dirò un’oscenità, una bestemmia di quelle che non si scordano. Voglio durare cinquant’anni ancora dentro di lui.”

“… nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritardarlo di un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto.”

In generale, non amo questo tipo di scrittura ridondante, non vorrei mai scrivere così. Ma dalla scittura di Bufalino sono affascinato, come da un gorgo che ti attira e non ti lascia.

Il libro varrebbe la pena averlo, per chiunque scriva, anche solo per l’appendice finale, aggiunta in questa edizione: c’è l’indice dei “Temi”, fatto dall’autore, c’è la spiegazione delle scelte di scrittura, ci sono note quasi per ogni pagina. Non per caso lo cominciò a scrivere negli anni cinquanta e fu pubblicato nel 1981. Per me, un grande della nostra letteratura.

L’infedele (Gad Lerner)

La nostra storia, dagli anni 60 a oggi, da un punto di vista acuto.

L’ho divorato in due giorni.

Un intellettuale onesto che è arrivato, partito da Lotta continua, al POTERE (la direzione del TG1), attraverso le collaborazioni più diverse, più prestigiose, più innovative, e che ora sta partecipando – quale uno degli intervistatori, non da organizzatore che guarda le cose dall’alto – al progetto di raccogliere le testimonianze video di tutti coloro che sono ancora vivi e che hanno partecipato, nei modi più diversi, alla lotta di liberazione dal nazifascismo.

Offre il petto al plotone di esecuzione dei filistei quando si riconosce come un possibile prototipo del radical chic, e rivendica di avere avuto, da un certo punto in poi, un’esistenza agiata, e di avere amici ricchi e potenti con i quali a volte condivide, da invitato, vacanze lussuose.

Si rende conto, quando guarda al distacco della sinistra dai lavoratori delle fabbrche, dagli operai, che non è da una figura come la sua che la sinistra potrà rinascere, e tuttavia non rinuncia a volersi rivoluzionario, contro lo stato di cose esistente e a favore dei diseredati.

Propone un collegamento con quella parte dell’ebraismo che si vuole messianica, ricorda che Engels era figlio di un grande industriale tessile e che questo non gli impedì di scrivere testimonianze dal vivo della condizione degli operai di Manchester, all’inizio della rivoluzione industriale.

Interessanti e godibili una serie di schizzi dei personaggi della nostra storia recente, della politica, della cultura, dell’impresa, del giornalismo, ciascuno collocato nel contesto storico di riferimento, senza rinunciare a note critiche anche profonde ma mai con astio o acidità personale.

Gad Lerner è uno che ha raccontato la lega dell’inizio delle ampolle alle sorgenti del dio Po’ ed è uno che oggi va nella piazza di Cerignola, dove le case e le strade sono piene delle immagini, come di un santo laico, del fondatore della CGIL Di Vittorio, a parlare con i braccianti, anche gli anziani che con Di Vittorio hanno lottato, e incontra il disincanto delle condizioni peggiorate, dello straniero visto come concorrente al ribasso e, sopratutto, della mancanza di prospettiva, che ha fatto di un paese del sud, glorioso di lotte contadine, un avamposto della lega.

È più che esplicito, a volte quasi compiaciuto, durante tutto il libro: me le dico da solo le contraddizioni che vivo, prima che me le tiriate addosso.

A suo modo è un libroi di storia italiana dagli anni sessanta a oggi. Ripeto: l’ho letto di un fiato, leggetelo, ne vale la pena.

Dissonanze parallele (Daniela Petrassi)

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È la prima volta che parlo di un libro autopubblicato.

È andata così: ho incontrato, su un gruppo Facebook, un post dell’autrice che recensiva brevemente un romanzo di Tolstoi che non conoscevo e mi è venuta voglia di ringraziarla.

Poi ho avuto la curiosità di vedere chi fosse e sul suo profilo ho trovato solo foto di libri, inframezzate da alcuni incipit di un suo libro di racconti.

Gli incipit mi sono piaciuti e ho deciso di scaricarli su kindle.

Si tratta di racconti molto brevi, tranne l’ultimo che da solo occupa circa la metà delle pagine. L’ultimo non l’ho ancora letto.

La scrittura scorrevole che mi aveva inizialmente attratto ha confermato le promesse: i racconti si fanno leggere piacevolmente, le situazioni sono delineate, i personaggi riconoscibili.

Hanno, a mio parere, un limite comune: manca la sorpresa, la parola o la frase che ci regalino un punto di vista inaspettato; scorrono piani, leggeri, infine prevedibili.

In “Contrappunto”, i punti di vista opposti dell’uomo e della donna sanno di clichè, senza che nessuna delle contraddizioni della coppia venga affrontata, se non sciolta, in “Extrasistole” il contesto è ben reso, ma il finale mi è arrivato più interrotto che sospeso; ne “Il canto del cigno” l’atmosfera emotiva è coinvolgente, salvo che finisce esattamente come dalle prime righe era prevedibile che finisse, ma al lettore qualche – anche piccola – sorpresa va regalata, secondo me.

Arrivato a “Rimpianto”, l’uomo sciamannato e la donna sofferente mi sono cominciati a sembrare essere una regola; mi sarei anche aspettato qualche guizzo che ci facesse scoprire qualcosa della misteriosa “Moldava”, sempre chiusa e assente, e non è chiaro il motivo della presenza di due fratelli, quando soltanto di uno dei due viene restituita la reazione.

Dopo “Rinascita”, mi sono cominciato a convincere che forse è proprio la delusione del lettore che l’autrice cerca: il lettore, infatti, dopo aver seguito la protagonista che viene scelta per un servizio televisivo su “donne che si sono rialzate”, aver seguito il brutto periodo dopo la perdita del lavoro, non saprà niente proprio di come la donna si sia rialzata.

Può essere una cifra stilistica, di non voler essere consolatori; secondo me, varrebbe tuttavia la pena osare qualcosa di più, visto che la scrittura sorregge sempre bene.
Magari mi ricrederò dopo aver letto l’ultimo racconto, che immagino di maggior impegno, data la lunghezza, rispetto agli altri.
Intanto, come prima prova, complimenti!