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Canale Mussolini parte seconda (Antonio Pennacchi)

Canale Mussolini (la prima parte) vinse il premio Strega qualche anno fa, ed io mi ritrassi da questo scrittore non professionista, che nelle interviste parlava senza quella gnaggnera delle persone colte.

Qualcuno me ne parlò molto bene, e mi sono deciso a leggerlo partendo, per motivi non identificati – forse solo per averlo incontrato in libreria – da questa seconda parte.

Mi è piaciuto veramente molto. La scrittura è originale senza ricerca di inutili preziosismi, e Pennacchi ha quella capacità dei narratori sudamericani di mischiare la storia di un popolo con apparizioni fantasmatiche, con la Storia, con la costruzione di una nuova città – allora Littoria – dal niente, con i legami familiari stretti dalle provenienze geografiche più disparate.

E’ la storia della seconda guerra mondiale vissuta nella pianura pontina, fra l’occupazione tedesca e il fallimentare sbarco di Anzio degli americani.

Pennacchi ha la capacità di raccontare, attraverso i personaggi che, ciascuno per strade diverse ma tutti provenienti dalla stessa zona, incontrano la resistenza, la repubblica di Salò, l’8 settembre, la fuga del re, quella di Mussolini e Claretta con la moglie di Mussolini sullo sfondo. E riesce, senza fare sconti a nessuno, ma sempre ricordando che c’è un prima e c’è un dopo, nelle cose che accadono, a disegnare un affresco di rara verità.

E con brani di inaspettata poesia. Gli sfollati, il mistero dell’oasi di Ninfa forse salvata perchè fonte di informazioni per gli alleati, altri misteri, il primo affacciarsi di quello che sarà il boom immobiliare e il cambiamento profondo di tutto.

Poi l’amore per la propria città, scenette laterali ma gustose come il prefetto che la mattina presto aspetta al varco della pensilina della stazione gli impiegati dei ministeri che arrivano a Littoria da Roma, mentre l’aumento di stipendio ricevuto per spostarsi a Littoria implicava che vi risiedessero.

Tante pagine gustose, drammatiche, epiche, e grande capacità di mantenere uno stile costante, con trovate linguistiche come far parlare personaggi storici con quello strano burino-cispadano che suonano del tutto coerenti e accettabili.

Insomma, prima o poi leggerò anche la prima parte, serve un po’ di tempo prima di rientrare in queste atmosfere.

La ladra di piante (Daniela Amenta)


Una giovane donna ruba piante trascurate dai condomini di Monteverde, a Roma, e se ne prende cura nel suo largo terrazzo.
Questa la trovata, piuttosto debole, che vorrebbe sorreggere e dare struttura ad un raccontino gradevole, scritto in buon italiano.
Molto scorrevole, si fa leggere volentieri. Forse anche perchè, nel leggerlo, ricevo la sensazione gratificante di potermi riconoscere in gran parte in quel mondo vagamente di sinistra pieno di buone intenzioni e anche di qualche buon comportamento.
Ma questa appartenenza così evidente è un limite: le svolte drammatiche – ce ne sono un paio – arrivano prive di necessità, appaiono forzature con lo scopo di dare spessore ad una storia che non ne ha.
Di fondo, irrilevante. Eppure la stoffa c’è. Vedremo se ci sarà un secondo tentativo, con più distacco dalla vita vissuta della scrittrice, che qui dà l’impressione di avere ricevuto troppo spazio.

Terre rare (Sandro Veronesi)

Torna il protagonista di Caos calmo, ma è un espediente di cui mi sfugge la ragione, perchè il Pietro Paladini di Terre rare a me pare un’altra persona, bel al di là della diversa scelta di vita e lavoro.
Si legge volentieri, la trama fa venire voglia di proseguire, i personaggi “si vedono” mentre si legge.
Non so bene: ci sono libri dei quali, ciascuno a proprio modo, si avverte la necessità, e ci sono libri ben scritti. Terre rare è un libro ben scritto.
Mi è sembrato particolarmente debole il personaggio della compagna del protagonista, liquidata con troppa facilità.
Infine c’è l’elemento simpatia per forza: questo Pietro Paladini, anche quando si comporta male è subito lì pronto a dirsi e dirci quanto si è comportato male e come ne sia consapevole, e insomma mi piace poco che lo scrittore conduca chi legge a trovare irrimediabilmente il suo protagonista comunque simpatico.
Resta una lettura piacevole, che non mi ha smosso granchè.

Ferito a morte (Raffaele La Capria)

Riletto almeno per la terza volta, resta un piacere sopraffino.
Un gruppo di ragazzi di buone famiglie napoletane fra la fine della guerra e gli anni cinquanta, fra mare sole pesca subacquea e ragazze e il circolo nautico dove padri e zii e nonni si sfidano in epiche partite che durano giorni ed in cui possono giocarsi tutto.
E’ una storia di maschi, le donne sono di sfondo, anche se non si tratta di virilità quanto di cameratismo, amicizia, eppure i sentimenti mai sono esposti, sempre sfumati, tutti intorno all’inattualità del protagonista, Massimo, che non riesce nè a sentirsi parte nè a staccarsi.
L’incipit – la spigola mancata perchè l’arpione parte un attimo dopo e Carla mancata non si sa perchè – è fra i più belli io dico della letteratura mondiale.
Non conosco se non superficialmente Napoli, non ho vissuto quegli anni cinquanta, eppure è come se l’aria di quel mondo mi fosse diventata familiare, e mi sento e affezionato e lontano da Ninì, Cocò, Sasà…
Il romanzo è pervaso da un senso di struggimento, in una pagina, forse una e mezza, Glauco, tornato da avventurose ricerche d’oro in Venezuela e traffici d’armi con Cuba, distrugge l’immaginario incantato dei Caraibi mentre sorseggia un caffè sulla piazzetta, dove Massimo inutilmente cerca di rintracciare il fratello Ninì, il più brillante della compagnia, il più ricercato, che sta prendendo il posto dell’inarrivabile Sasà, del quale è destinato a condividere anche l’inevitabile declino.
Infine: la scrittura. Ricca, elegante, complessa quanto scorrevole, che ti fa arrivare l’odore del mare e il rumore dei passi sulla piazzetta di Capri, capace di quegli sviamenti temporali di cui oggi troppi fanno sfoggio senza sapienza.
In realtà non so spiegare fino in fondo perchè è un libro che, senza che ciò sia in alcun modo cercato, prende il cuore di chi lo legge.

Settanta acrilico trenta lana (Viola Di Grado)

Mi avevavo detto “peccato ci sia scritto sulla pagina di copertina che l’autrice ha solo ventitrè anni, sarebbe stato meglio leggere senza saperlo”. Credo che lo avrei intuito: la scrittura è di una donna e di una giovane donna, il che – la riconoscibilità di genere – forse è un primo limite.
Ma sbaglio a partire dai “limiti”, perchè le qualità li sovrastano ampiamente.
La scrittura, soprattutto: inventiva, ricca, padroneggiata con disinvoltura, piegata ai ritmi.
Ecco, il ritmo: il ritmo è costantemente accelerato, non lascia spazio alle introspezioni, le fa dedurre dagli accadimenti – il che considero un grosso pregio – ma così i passaggi, in meno di duecento pagine, a volte risultano ingoiati in fretta.
La storia: un uomo muore insieme con l’amante in un incidente di macchina (mi ha ricordato Film Blu, anche se lì muoiono marito e figlia e l’amante si scopre dopo) e moglie e figlia sono annichilite. Il dolore, diretto e reciprocamente riflesso, le annienta. In una cittadina inglese descritta quasi con violenza nei colori e nelle tetraggini le due donne si isolano in un silenzio in cui ogni sguardo ha un titolo, un significato, come gli ideogrammi cinesi che la figlia studia con un ragazzo cinese in un negozio di vestiti cinesi.
Una pagina d’amore – incompiuto – con ideogrammi fra le più belle che abbia letto. Meno riuscite, mi è parso, altre pagine di sesso. Il rapporto fra i due fratelli cinesi mi è risultato un po’ accozzato, e la resurrezione repentina della madre, con finale che non dico, mi è arrivata poco vera.
Il finale dice “non ti voglio lisciare il pelo, caro lettore”, ma la scrittura dice altro.
Insomma le contraddizioni non mancano, ma ogni romanzo che mi fa venire voglia, e fino alle ultime pagine, di arrivare alla fine è degno di essere letto.

Tempo di imparare (Valeria Parrella)

Lo cominci con un leggero fastidio, per la lingua difficile, e dopo poche pagine te lo senti in mano che lo vuoi leggere tutto di un fiato.
Eppure sai che non ci sarà un “finale”.
Eppure non c’è un intreccio, non ci sono personaggi, non il filo di una storia, se non una mamma ed il figlio disabile che non vuole chiamare disabile e nemmeno normale e nemmeno solo figlio e allora capisci che la lingua difficile non è esercizio di bravura ma necessità per dire ciò che non ci sono tutte le parole per dirlo.
E quando lo capisci perdoni qualche sfoggio superfluo (non si dovrebbe dare per scontato che tutti sappiano chi è Chomsky, ad esempio) di cultura e cerchi di collocarlo nella Napoli colta di cui la protagonista è figlia dichiarata.

Inseparabili (Alessandro Piperno)

Benchè “Con le peggiori intenzioni” non mi fosse piaciuto, tuttavia la scrittura di Giovanni Piperno è ammaliante e, fatta passare l’ubriacatura del Premio Strega, ho sfogliato “Inseparabili” in libreria e ho deciso di dargli – raramente lo faccio: c’è così tanto da leggere… – un’altra possibilità.

La struttura è nella sostanza identica a quella de “Le correzioni“: una famiglia, i figli – tre ne “Le correzioni”, due ne “Gli inseparabili” – le vicende di padre madre e figli che scandiscono il loro tempo e ad ogni ripresa ciascuno aggiunge tasselli alle storie degli altri.

Anche il finale ha qualche somiglianza: lì un ultimo pranzo di Natale prima di lasciare la casa dove tutti sono cresciuti prima di disperdersi, qui un funerale, occasioni per un’ultima vista d’insieme e un ultimo sguardo sui  personaggi.

Ai quali Piperno sembra volere un po’ più bene che ne “Con le peggiori intenzioni”, pur mantenendo la predilezione a far emergere, di ciascuno, il peggio.

Gli inseparabili sono il fratello indolente che si ritrova, per un colpo di genio e di fortuna, con una fama internazionale che non sa gestire, e il fratello brillante che si invischia in una speculazione finanziaria in mezzo ai peggiori mafiosi delle repubbliche baltiche.

Si viaggia in tutto il mondo, la storia sicuramente c’è e sembra pronta, come sempre più spesso mi accade di pensare mentre leggo, per una bella sceneggiatura per un bravo regista.

Scorre in tutte le pagine una profonda, profondissima amarezza, quasi un dolore che non riesca ad esprimersi come tale ed abbia perciò bisogno di tanta intelligenza e tanta capacità di scrittura. Sarà per questo che mi riesce di pensare a Giovanni Piperno più con affetto che con simpatia.

 

 

 

Di tutte le ricchezze (Stefano Benni)

Conobbi l’esilarante scrittura di Benni sulle pagine del Manifesto. Poi ne ho seguito, più perplesso che altro, le scelte verso la poesia, i racconti, i romanzi.

Mi piacque molto “La compagnia dei celestini”. Non riuscii invece ad apprezzare – tra i pochi libri “lasciati” – i più noti “Terra” e “Il bar sotto al mare”.

Ricevuto in regalo “Di tutte le ricchezze”, l’ho letto piacevolmente, molto piacevolmente.

Come a volte mi capita, a distanza di qualche mese, ricordo poco della storia. Qualcosa di più ricordo del “tono” di alcuni personaggi, come Martin, l’anziano professore protagonista, ritiratosi sull’appennino, probabile alter ego di Benni, di cui mi piace qui trascrivere le ultime righe:

E penso a te che mi hai ascoltato. E mi hai reso diverso, nei mille pezzi di specchio, perchè sarò diverso ogni volta che mi rileggerai, e diverso per ognuno che mi leggerà, svogliato o rapito. Questo è il segreto dei libri, la loro vita indomabile.

 

Con le peggiori intenzioni (di Giovanni Piperno)

Due famiglie romane, una ebrea e l’altra di “gentili” – il punto di vista è quello dell’ultimogenito della famiglia ebrea – accompagnate per tre generazioni nelle fortune, le rovine, le contraddizioni, le imprese. Con legami conseguenti ad un matrimonio misto nella generazione di mezzo, avversato da entrambe le famiglie ma poi accettato.

I perbenismi e la voglia di epatér le bourgeois, i drammi adolescenziali, le amicizie tradite, le amicizie confermate nonostante, le generosità pelose, le ricchezze straripanti eppure insufficienti a garantire quel quarto di nobiltà a cui si aspira, e così via, tra il ghetto dietro via Arenula e il baretto dei gelati di Piazzale delle Muse, dove i rampolli futuri imprenditori di successo o falliti venditori di fumo si alternano fra l’epoca dei Monclair e quella dei jeans tagliati a livello mutanda. Senza nemmeno sfiorare – e non credo sia casuale – l’epoca degli eskimo.

Amo, in un romanzo, i fatti, i vissuti, che ci fanno conoscere i personaggi. Qui le descrizioni dei tumulti interiori precedono i fatti, peraltro con una maestria linguistica che non ho potuto fare a meno di ammirare.

Alcuni protagonisti che, al’inizio, migrano da Roma verso Israele, e alcuni riferimenti storici, mi hanno richiamato alla mente Il gioco dei regni, di Clara Sereni, e dove lì erano gli ebrei drammatici delle rivoluzioni e dei contrasti sionisti / comunisti qui sono gli sciamannati vitalisti sfrenati dei personaggi di Roth. Restano però riferimenti episodici.

Piperno, comunque, sembra non volere bene a nessuno dei suoi personaggi. Verso il protagonista – Davide – è addirittura feroce. Come se – e questa è tutta mia immaginazione – molti personaggi potessero essere ben riconoscibili, e trattar male l’eventuale alter-ego dell’autore potesse essere un mettere le mani avanti per la ferocia primaria riservata a tutti gli altri protagonisti. Esclusi, e forse non a caso, proprio il papà e la mamma dell’io narrante Davide (a me è risultato fastidioso l’elemento stilistico del continuo passaggio al “tu”).

Il mondo dei pariolini Piperno sembra conoscerlo bene, ed averlo subito non superficialmente.

Mi resta la considerazione, su cui mi piacerebbe approfondire la riflessione, sul fatto che tale libertà di linguaggio e di giudizio, senza dover temere di essere bollati per antisemiti, resti tuttora riservata a scrittori ebrei.

Una storia chiusa (Clara Sereni)

Di solito leggo la sera, a volte il pomeriggio. E’ raro che mi metta la sveglia la domenica per essere sicuro di avere il tempo, prima di un impegno previsto per metà mattinata, di finire un romanzo. Così è andata per “Una storia chiusa”. Perchè volevo vedere come finiva. E fino a metà volevo vedere come finiva il giallo della pennetta usb lasciata in gran segreto di pericolo dal figlio tossico alla mamma nel residence per anziani, più le altre potenziali connessioni con – forse – il figlio traffichimo di Vandaosiris, con la nipote terrorista – forse – dell’ex partigiano, con l’agente dei servizi che si occupa della sicurezza della giudice rifugiatasi sotto falso nome, a fine carriera, nello stesso residence.
Ma dopo la metà i fili dell’intreccio del racconto perdono consistenza e lasciano spazio alle umanità dolenti dei protagonisti. E mi sveglio non tanto per sapere come va a finire ma come lo avrà fatto finire.
Il che, qui, non svelerò. Anche se non si tratta propriamente di un finale a sorpresa.
Ci vuole coraggio per scrivere un romanzo i cui protagonisti principali sono tutti vecchi, con pochi personaggi di contorno – figli, nipoti, l’assistente sociale – di età diverse.
E ci vuole bravura per prendere – se non è consapevolezza piena è stare appieno nel tempo presente – la struttura di una serie televisiva, di quelle fatte bene tipo Lost, dove la compresenza casuale di più persone è l’occasione per esplorare in parallelo le relazioni del presente e i passati di ciascuno, e portarla, oggi, in un romanzo.
Quella che all’inizio appare la protagonista, la giudice, piano piano va sullo sfondo, a differenza di altri romanzi o racconti di Clara Sereni, in cui la presenza – diretta o indiretta – dell’autrice è sempre molto forte. Mi richiama lo sfondo, sempre dello stesso colore, delle coperte ad uncinetto che Margherita continua a tessere e a tornarci indietro disfacendo maglie su maglie perchè anche se nessuno se ne accorgesse me ne accorgerei io se non fossero perfette.
E il fascista dalle mani d’oro che ripara tutto e che un altro ospite ha riconosciuto – forse – come il feroce assassino da cui miracolosamente si salvò. E Olga, che accende le candele, nei rispettivi anniversari, per i morti delle stragi di stato, e disputa con Dante se il Vajont vada considerata tale.
E altri. Chi più chi meno vicini alla morte. E vivi. Con la memoria riverberata nel presente.
Un senso di compiutezza. Di vite dolenti, ma ciascuna a suo modo vissuta.
Post scriptum: ci vedo già, dentro, un testo teatrale. Forse anche una sceneggiatura per un produttore coraggioso. Quindi, forse, una storia non del tutto chiusa.