Settanta acrilico trenta lana (Viola Di Grado)

Mi avevavo detto “peccato ci sia scritto sulla pagina di copertina che l’autrice ha solo ventitrè anni, sarebbe stato meglio leggere senza saperlo”. Credo che lo avrei intuito: la scrittura è di una donna e di una giovane donna, il che – la riconoscibilità di genere – forse è un primo limite.
Ma sbaglio a partire dai “limiti”, perchè le qualità li sovrastano ampiamente.
La scrittura, soprattutto: inventiva, ricca, padroneggiata con disinvoltura, piegata ai ritmi.
Ecco, il ritmo: il ritmo è costantemente accelerato, non lascia spazio alle introspezioni, le fa dedurre dagli accadimenti – il che considero un grosso pregio – ma così i passaggi, in meno di duecento pagine, a volte risultano ingoiati in fretta.
La storia: un uomo muore insieme con l’amante in un incidente di macchina (mi ha ricordato Film Blu, anche se lì muoiono marito e figlia e l’amante si scopre dopo) e moglie e figlia sono annichilite. Il dolore, diretto e reciprocamente riflesso, le annienta. In una cittadina inglese descritta quasi con violenza nei colori e nelle tetraggini le due donne si isolano in un silenzio in cui ogni sguardo ha un titolo, un significato, come gli ideogrammi cinesi che la figlia studia con un ragazzo cinese in un negozio di vestiti cinesi.
Una pagina d’amore – incompiuto – con ideogrammi fra le più belle che abbia letto. Meno riuscite, mi è parso, altre pagine di sesso. Il rapporto fra i due fratelli cinesi mi è risultato un po’ accozzato, e la resurrezione repentina della madre, con finale che non dico, mi è arrivata poco vera.
Il finale dice “non ti voglio lisciare il pelo, caro lettore”, ma la scrittura dice altro.
Insomma le contraddizioni non mancano, ma ogni romanzo che mi fa venire voglia, e fino alle ultime pagine, di arrivare alla fine è degno di essere letto.

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