Articoli

L’amore non ha limiti (Francesca Bisogno)

Una mamma con disturbo bipolare, che passa da giorni nei quali è un’amorevole moglie e mamma a periodi in cui è del tutto assente oppure è dominata dall’ossessività delle pulizie, da scatti di rabbia incontrollata, durante i quali lancia insulti sanguinosi a chi le sta più vicino o aggredisce chiunque senza motivo apparente.

Il libro è scritto dalla figlia, che dalla prima adolescenza ha dovuto subire questa trasformazione della madre, senza potersene fare una ragione, finché, dopo anni e anni, sono stati finalmente trovati bravi professionisti che sono stati di aiuto.

Per fortuna c’è un marito che ha continuato a prendersene cura e non ha mai smesso di volerle bene, che ha voluto continuare ad andare in vacanza tutti insieme, e per fortuna anche la figlia, crescendo, è stata capace di elaborare il contesto e di estrarre, da una situazione così dolorosa, la profondità dei propri sentimenti.

Ho scritto fortuna, ma la fortuna in effetti non c’entra niente: chi scrive attribuisce la propria forza interiore al soprannaturale: è stato l’amore di Dio, dice. Ho sentito che Dio mi amava nonostante tutto e questo mi ha dato la forza.

Nel leggere, la tensione emotiva arriva tutta, l’autrice non si risparmia la messa in luce delle contraddizioni che vive, i sensi di colpa per non riuscire a sentirsi sempre abbastanza buona o all’altezza dei bisogni.

La mamma infine è morta. Sarebbe stato normale leggere di un misto di dolore e sollievo, come è umano provare quando una vicenda dolorosissima si conclude, ma l’autrice è totalmente concentrata sull’amore che sa di aver comunque ricevuto da questa madre e dall’amore che è stata capace di esprimere.

“…ho imparato a scoprire risorse sempre nuove in me, ho dissotterrato dal mio cuore germogli di speranza che non ritenevo possibili… se avessi contato solo sulle mie forze non avrei potuto farlo.

A me piace sperare che chi ha vissuto, e saputo con tale intensità raccontare, questa storia, possa riconoscersi, senza dover cedere un grammo della propria fede religiosa, di avercela fatta proprio con le proprie forze e la propria profonda umanità.

Può non piacere, al lettore non religioso, la presenza pervasiva del soprannaturale, ma se si va alla sostanza, è un libro che andrebbe letto da chiunque viva vicino a persone che esprimono la propria umanità in modi che non sempre ci è possibile capire né, qualche volta, accettare.

sempre tornare (Daniele Mencarelli)

Anche il terzo romanzo di Daniele Mencarelli è dichiaratamente autobiografico. In “sempre tornare”, rispetto ai due (**) precedenti, Mencarelli torna indietro nel tempo, ai diciassette anni dell’adolescente vicino all’età adulta che, partito con quattro amici per divertirsi in una scorribanda lungo i locali della riviera romagnola, a un certo punto si stufa e decide di tornare indietro da solo, in autostop, con appresso la valigia.

Si tratta dunque di un romanzo di formazione on the road, dalla riviera romagnola ad Ariccia, dove Daniele vive.

Abbiamo perciò questo ragazzo che fa l’autostop con una valigia in mano, che non ha una lira perché ha dimenticato il portafoglio con soldi e documenti nella macchina degli amici, che quindi deve inventarsi ogni giorno come mangiare, come bere, dove dormire, senza potersi cambiare.

Il romanzo si svolge in una sequenza di incontri con ogni genere di tipo umano, in una natura che cambia a ogni angolo, in situazioni mai prevedibili, affrontando ogni tipo di difficoltà, qualche pericolo, qualche bellezza naturale e umana.

Mencarelli ha, fra le qualità di scrittore, una analoga a quei pittori che, con pochi tratti, delineano una figura e con qualche particolare ne fanno capire il carattere.

“Un vecchio malvissuto”, mi è rimasto impresso da Manzoni, che descrive un facinoroso sulla piazza.

“Un bulletto di sessant’anni” dice tutto di un ex corridore di moto, piegato sui ricordi di un passato pure glorioso e oggi incattivito da un presente poco esaltante con vicino una compagna che dev’essere stata bellissima e che lo continua ad assecondare senza essere ricambiata.

La sigla PAS corrisponde a Persone Altamente Sensibili (dall’inglese HSP): si tratta di persone che tendono a sentirsi sovraccaricate di emozioni e che perciò vivono sia le profonde empatie che gli scarichi estremi. Daniele Mencarelli potrebbe forse rientrare in questa definizione: la sensibilità dei suoi personaggi risulta effettivamente sempre estrema. È ciò che me ne ha fatto amare la scrittura, sempre “partecipe”, dei suoi due primi romanzi. In “sempre tornare” questa caratteristica continua ad apparire, ma stavolta mi è sembrato che sia esposta con troppa frequenza, a rasentare – solo rasentare, senza arrivarci – il compiacimento. È possibile che chi legga questo come primo romanzo non abbia la stessa mia impressione.

La conclusione, che a me arriva più come acquisizione dello scrittore di oggi che del protagonista diciassettenne, è che le tante esperienze di questo viaggio sono state possibili, e alla fine comunque ben vissute, perché Daniele sa di avere dietro una famiglia con affetti solidi, dalla quale sa che sarà sempre accettato senza necessariamente essere sempre approvato.

Sulle copertine, i titoli di tutti i tre romanzi sono scritti in minuscolo, così come nome e cognome dell’autore: improbabile che sia casuale, solo l’autore potrebbe spiegarlo.

(**)

Il sopravvissuto (Antonio Scurati)

Il professor Andrea Marescalchi è l’unico insegnante che difende ancora, fino allo spasimo, l’alunno di liceo Vitaliano Caccia.

Mi ha fatto pensare, il professore Marescalchi, al Silvio Orlando de “La scuola”, che difende con argomenti impossibili, in consiglio dei professori, quello strano allievo, che non si vede in tutto il film, che “fa la mosca”.

Vitaliano Caccia, invece, si vede, nel romanzo, e nella prima pagina entra nella sala della commissione di esame, tira fuori una pistola, e ammazza uno a uno tutti i professori. Tranne il professor Andrea Marescalchi, davanti al quale si siede, come se si aspettasse di essere interrogato e, quando capisce che quello è rimasto catatonico, si alza, gli punta il dito contro e se ne va.

Questa la premessa. L’ovvia domanda è: perché il professore Marescalchi, unico, è stato risparmiato?

Se lo chiede la psichiatra a cui viene affidato, quale reduce da un tale trauma e che lo coinvolge in un gruppo di autoaiuto.

Se lo chiedono gli investigatori, che intanto gli hanno messo i carabinieri a protezione, perché non si può escludere che Vitaliano torni a completare l’opera.

Se lo chiede l’ispettore ministeriale, affinchè l’istituzione capisca dove ha sbagliato e vi ponga rimedio.

Se lo chiede, più di ogni altro, il professor Andrea Marescalchi. Si interroga, senza sconti, su quanto possano aver influito, sul ragazzo che lo teneva in alta considerazione, le contraddizioni fra insegnamenti e vita privata.

Qualcuno troverà risposte? Si saprà che fine ha fatto Vitaliano? Queste le domande che accompagnano il lettore per le avvincenti quasi quattrocento pagine del romanzo.

Due libri di montagna

Me li hanno regalati, per il compleanno, due persone speciali. Un libro ricevuto in regalo, che non ho scelto, lo accolgo sempre con una iniziale, vaga diffidenza. La stessa con la quale li ho cominciati a leggere e volevo lasciarli dopo qualche decina di pagine.

E invece sono arrivato alla fine, tutte e due le volte molto, molto preso, come raramente mi capita con scrittori di ben altro spessore.

“Il richiamo del K2” è il racconto del tentativo, da parte di Tamara Lunger, unica scalatrice donna in quella spedizione, fra le più forti del mondo, di arrivare in cima al K2, già raggiunta in estate, in invernale. Ha la stessa forza di un libro di Messner, con l’aggiunta della presa di consapevolezza di essere una donna, non più un “maschiaccio”, e cioè una donna che voleva essere come un uomo. A ogni angolo ci sono scelte difficili da fare. Ce la potrò fare con la luce ad arrivare al secondo campo o meglio fermarsi qui? Con il tempo incerto, si può provare oggi, perché dopodomani si deve ripartire? Continuo con il compagno di cordata con cui sono venuta, e con il quale non siamo d’accordo su troppe cose, o decido di salire con il nuovo arrivato spagnolo, che conosco poco ma che mi pare affidabile? È una storia vera, non svelo come finisce, anche se qualcuno potrebbe averlo letto sui giornali di gennaio 2021.

“L’ora più fredda” è un romanzo, scritto da Paolo Paci, un forte alpinista. Qui alpinista alla lettera, perché le sue imprese sono sopratutto sulle Alpi, e sulle Alpi si mettono alla prova i tre ragazzi. Il più forte è quello di città, insieme, piano piano si sperimentano in salite sempre più impegnative. Le storie personali si intrecciano con la stagione politica milanese degli anni settanta, quando Contessa e Stelutis alpinis si mischiavano nei cori dei rifugi. L’ultimo capitolo si svolge qualche decennio dopo, e in una baita solitaria chiude tutte le storie.

Storie di formazione, storie di montagna, quella seria. In entrambi i casi arrivano dentro la fatica, le mani ghiacciate, l’appiglio che non si trova, la soddisfazione selvaggia di avercela fatta, il dolore per le perdite.

Mi piace andare in montagna, anche se non sono mai stato uno scalatore; mi piace la fatica di arrivare, anche se le difficoltà superate non hanno niente a che fare con quelle dei due libri. Non ho quella smania di superare i limiti che spinge gli scalatori veri, e tuttavia credo di capirla: si chiama passione, qualcosa che ti travolge e ti spinge quasi oltre la volontà e gli affetti più cari.

“… senza alcuna necessità né scopo. Se non respirare. Scalare. Vivere”

Due vite (Emanuele Trevi)

Premio Strega 2021, centoventi pagine che scorrono, letto in un pomeriggio.

Non conoscevo, prima di leggere questo libro, nè Rocco Carbone nè Pia Pera, i due amici dell’autore – le due vite – di cui il libro parla. Rocco Carbone è stato uno scrittore di cui sono stati pubblicati alcuni romanzi, Pia Pera un’apprezzatissima traduttrice, sopratutto dal russo. Per la verità, prima del premio, non conoscevo nemmeno Emanuele Trevi.

I due amici sono morti prima di quando sarebbe giusto morire, uno per un incidente in motorino e l’altra per una malattia degenerativa che non lascia scampo. Le due vite si alternano parallele, se ben ricordo in una sola circostanza i tre amici si trovano tutti e tre insieme, e dunque si tratta del racconto, più che di un terzetto di amici, come avevo immaginato, di due amicizie dello scrittore, che hanno avuto disgraziatamente in comune, e dolorosamente per chi ha loro voluto bene, una morte prematura.

Ci ho trovato, tuttavia, poca vita e molta letterature, come se le due esistenze di cui si parla si risolvessero in larghissima parte nelle loro opere, nelle opere alle quali si sono accostati, e nelle opere che a mano a mano, episodio per episodio, si associano all’esperienza di chi ne ha scritto.

Purtroppo, quando la vita vissuta traspare dalle pagine non arriva – a me non è arrivato, anche se lascio aperta l’opzione che si sia trattato di pudore da parte dell’autore – quel soffio di commozione, di sentimento che ci si potrebbe aspettare dal racconto di amicizie dichiarate così profonde.

Non è un romanzo, risulta piuttosto una specie di parziale autobiografia per interposte persone. Sono meravigliato che gli sia stato assegnato il più prestigioso premio letterario italiano; ho immaginato che i giurati siano stati sedotti dal fatto che, alla fin fine, si parli del loro mondo, di persone che probabilmente tutti hanno conosciuto e apprezzato. Un po’ come quando i critici cinematografici osannano film anche mediocri ma che hanno il merito di trattare di cinema.

Una lettura piacevole, poco più.

La direzione del pensiero (Marco Malvaldi). Helgoland (Carlo Rovelli)

Concentrati di intelligenza, suscitatori di domande più che elargitori di risposte pacificatrici.

Marco Malvaldi è più noto come scrittore della serie di gialli Sellerio con i vecchietti del bar della Versilia, ma è un chimico, che ha messo la gradevolezza della sua scrittura al servizio di qualcosa di cui oggi mi pare ci sia tanto bisogno: distinguere cause da conseguenze.
Carlo Rovelli è un fisico teorico importante, già autore, fra l’altro, de “L’ordine del tempo”. Helgoland è l’isola sperduta nel Mare del nord dove Heisenberg, a ventitrè anni, avviò la teoria quantistica.
È stato casuale che mi sia trovato a leggerli uno dietro l’altro, e in qualche momento alternandoli.
Non mi azzardo a ripercorrerne gli argomenti; in questi casi io funziono così: leggo, mi appassiono, qualcosa capisco, molto intuisco, tanto so che è fuori dalla mia portata, eppure provo un’attrazione fortissima per l’inarrivabile.

Malvaldi parte da Hume: “la causa è qualcosa che, se rimossa, fa sì che l’esito non avvenga”. Poi allarga l’orizzonte a “che cosa accadrebbe se?” e a “che cosa sarebbe (o non sarebbe) accaduto se invece?” come metodi per individuare, per approssimazioni successive, quali dati sono più significativi per assumere una decisione. Molto interessante il risultato del confronto fra Cina e Italia sulle diverse risposte al virus.

Alcuni esempi sul calcolo delle probabilità pure sono gustosi, come quello del giudice che assolve colui che è stato trovato con 50 bustine di polvere bianca e le uniche tre esaminate contenevano tutte eroina. Lo assolve perchè dall’arresto al processo le 50 bustine sono state distrutte, e l’avvocato convince il giudice che, senza la prova che tutte e 50 c0ntessero eroina, le sole tre potevano essere per solo uso personale. In un caso analogo, un altro giudice condannò, quando calcolò che la probabilità che su 50 bustine fossero state casualmente prese le sole tre contenenti eroina era 1/26.000.
Spunti finali su possibili teorie della “coscienza di se”.

Rovelli ci dice che la fisica, non descrive “come la Natura è”, ma solo “quanto possiamo dire della Natura”.
Qualcosa che sembra ormai provato è che nulla esiste “di per sè”, ma solo “in relazione a”.
Ciò, non soltanto nel mondo delle relazioni umane, dove il concetto è da tempo acquisito, ma anche nel mondo della materia, dove le cose fisiche hanno proprietà solo quando interagiscono: l’interazione è parte inseparabile dai fenomeni.

Il mondo pullula di correlazioni, la maggior parte delle quali non significa letteralmente niente: succede qualcsa di straordinario quando identifichiamo quelle significative, quando si combinano informazione ed evoluzione.
La sfida sta ancora nell’approfondire come significato, intenzionalità, sensazioni soggettive si combinano e, per tornare al primo libro, dove sta la causa e dove l’effetto.

Concentrati di intelligenza, suscitatori di domande più che elargitori di risposte pacificatrici.

Tempo di uccidere (Ennio Flaiano)

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate, e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri esserne mai del tutto consapevole.

Un camion rovesciato su una strada polverosa dell’Etiopia degli anni trenta, quelli dell’Italia ha un impero.

Il giovane tenente, dopo aver aspettato che passi qualche camion, si stufa, lascia lì il soldato che lo accompagnava e si avvia ad attraversare una valle che lo porterà dove corre una strada più frequentata.

Il protagonista potrebbe essere uno dei personaggi di Joseph Roth – di altra epoca e altre ambientazioni – con i quali sembra avere in comune una cupa neghittosità che lo porta a non stare mai davvero in contatto con il mondo che lo circonda, a sfidarlo e a ritrarsene ma sempre in modi che appaiono casuali anche quando sembrano meditati

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri essere consapevole di che cosa gli succede intorno e che cosa producono le sue azioni.

Così vaga, fra boscaglie infide di iene e fetore di carcasse di muli, fino a una città portuale dove le vie d’uscita non si trovano.
Tornerà alla base? La sua assenza è stata notata? Sarà sanzionata?
Tutto scorre con sullo sfondo le atrocità verso i guerrieri africani, le piccolezze quotidiane di chi si trova a esercitare un briciolo di potere lontano dall’esistenza di fame in patria.
La vicenda del protagonista sembra parallela e in qualche misura simbolica rispetto a quella dell’avventura africana di un esercito comandato da cialtroni tanto male equipaggiati quanto feroci.

Alla fine cammina a fianco di un sottotenente e sente l’odore della pomata per capelli di quello: “... dal profumo delicato, infantile, ma il caldo la stava inacidendo. Una pessima pomata, che il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva“.

Queste, sopra, le ultime parole del romanzo, che ne restituiscono in pieno l’atmosfera.

Diceria dell’untore (G. Bufalino)

Una scrittura unica, un gorgo che ti attira e non ti lascia.

La scrittura.
Per leggere un libro di Bufalino bisogna innamorarsi della sua scrittura.
Me ne sono innamorato con “Le menzogne della notte”, ed ecco qui il più famoso “Diceria dell’untore”.
È una storia, se vogliamo banale, di un amore e di competizione per una donna all’interno di un sanatorio per malati di tubercolosi. Qualcuno morirà, qualcuno è già morto e non lo sa, o lo sa, qualcuno si salverà.

Qualche assaggio, perchè non riuscirei a renderne la grandezza.

“Si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili”

Il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, ma stringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini a rompersi contro la sciara, dovunque fa mulinello, e le illude, un inesistente palpito d’acqua.”

“Avevo più letto libri che vissuto giorni, nel mio così fuggitivo, così inefficace passaggio lungo le stradde degli uomini.”

“Voglio cercarmi un bambino per la strada… Gli darò uno schiaffo, gli dirò un’oscenità, una bestemmia di quelle che non si scordano. Voglio durare cinquant’anni ancora dentro di lui.”

“… nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritardarlo di un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto.”

In generale, non amo questo tipo di scrittura ridondante, non vorrei mai scrivere così. Ma dalla scittura di Bufalino sono affascinato, come da un gorgo che ti attira e non ti lascia.

Il libro varrebbe la pena averlo, per chiunque scriva, anche solo per l’appendice finale, aggiunta in questa edizione: c’è l’indice dei “Temi”, fatto dall’autore, c’è la spiegazione delle scelte di scrittura, ci sono note quasi per ogni pagina. Non per caso lo cominciò a scrivere negli anni cinquanta e fu pubblicato nel 1981. Per me, un grande della nostra letteratura.

L’infedele (Gad Lerner)

La nostra storia, dagli anni 60 a oggi, da un punto di vista acuto.

L’ho divorato in due giorni.

Un intellettuale onesto che è arrivato, partito da Lotta continua, al POTERE (la direzione del TG1), attraverso le collaborazioni più diverse, più prestigiose, più innovative, e che ora sta partecipando – quale uno degli intervistatori, non da organizzatore che guarda le cose dall’alto – al progetto di raccogliere le testimonianze video di tutti coloro che sono ancora vivi e che hanno partecipato, nei modi più diversi, alla lotta di liberazione dal nazifascismo.

Offre il petto al plotone di esecuzione dei filistei quando si riconosce come un possibile prototipo del radical chic, e rivendica di avere avuto, da un certo punto in poi, un’esistenza agiata, e di avere amici ricchi e potenti con i quali a volte condivide, da invitato, vacanze lussuose.

Si rende conto, quando guarda al distacco della sinistra dai lavoratori delle fabbrche, dagli operai, che non è da una figura come la sua che la sinistra potrà rinascere, e tuttavia non rinuncia a volersi rivoluzionario, contro lo stato di cose esistente e a favore dei diseredati.

Propone un collegamento con quella parte dell’ebraismo che si vuole messianica, ricorda che Engels era figlio di un grande industriale tessile e che questo non gli impedì di scrivere testimonianze dal vivo della condizione degli operai di Manchester, all’inizio della rivoluzione industriale.

Interessanti e godibili una serie di schizzi dei personaggi della nostra storia recente, della politica, della cultura, dell’impresa, del giornalismo, ciascuno collocato nel contesto storico di riferimento, senza rinunciare a note critiche anche profonde ma mai con astio o acidità personale.

Gad Lerner è uno che ha raccontato la lega dell’inizio delle ampolle alle sorgenti del dio Po’ ed è uno che oggi va nella piazza di Cerignola, dove le case e le strade sono piene delle immagini, come di un santo laico, del fondatore della CGIL Di Vittorio, a parlare con i braccianti, anche gli anziani che con Di Vittorio hanno lottato, e incontra il disincanto delle condizioni peggiorate, dello straniero visto come concorrente al ribasso e, sopratutto, della mancanza di prospettiva, che ha fatto di un paese del sud, glorioso di lotte contadine, un avamposto della lega.

È più che esplicito, a volte quasi compiaciuto, durante tutto il libro: me le dico da solo le contraddizioni che vivo, prima che me le tiriate addosso.

A suo modo è un libroi di storia italiana dagli anni sessanta a oggi. Ripeto: l’ho letto di un fiato, leggetelo, ne vale la pena.

Dissonanze parallele (Daniela Petrassi)

.

È la prima volta che parlo di un libro autopubblicato.

È andata così: ho incontrato, su un gruppo Facebook, un post dell’autrice che recensiva brevemente un romanzo di Tolstoi che non conoscevo e mi è venuta voglia di ringraziarla.

Poi ho avuto la curiosità di vedere chi fosse e sul suo profilo ho trovato solo foto di libri, inframezzate da alcuni incipit di un suo libro di racconti.

Gli incipit mi sono piaciuti e ho deciso di scaricarli su kindle.

Si tratta di racconti molto brevi, tranne l’ultimo che da solo occupa circa la metà delle pagine. L’ultimo non l’ho ancora letto.

La scrittura scorrevole che mi aveva inizialmente attratto ha confermato le promesse: i racconti si fanno leggere piacevolmente, le situazioni sono delineate, i personaggi riconoscibili.

Hanno, a mio parere, un limite comune: manca la sorpresa, la parola o la frase che ci regalino un punto di vista inaspettato; scorrono piani, leggeri, infine prevedibili.

In “Contrappunto”, i punti di vista opposti dell’uomo e della donna sanno di clichè, senza che nessuna delle contraddizioni della coppia venga affrontata, se non sciolta, in “Extrasistole” il contesto è ben reso, ma il finale mi è arrivato più interrotto che sospeso; ne “Il canto del cigno” l’atmosfera emotiva è coinvolgente, salvo che finisce esattamente come dalle prime righe era prevedibile che finisse, ma al lettore qualche – anche piccola – sorpresa va regalata, secondo me.

Arrivato a “Rimpianto”, l’uomo sciamannato e la donna sofferente mi sono cominciati a sembrare essere una regola; mi sarei anche aspettato qualche guizzo che ci facesse scoprire qualcosa della misteriosa “Moldava”, sempre chiusa e assente, e non è chiaro il motivo della presenza di due fratelli, quando soltanto di uno dei due viene restituita la reazione.

Dopo “Rinascita”, mi sono cominciato a convincere che forse è proprio la delusione del lettore che l’autrice cerca: il lettore, infatti, dopo aver seguito la protagonista che viene scelta per un servizio televisivo su “donne che si sono rialzate”, aver seguito il brutto periodo dopo la perdita del lavoro, non saprà niente proprio di come la donna si sia rialzata.

Può essere una cifra stilistica, di non voler essere consolatori; secondo me, varrebbe tuttavia la pena osare qualcosa di più, visto che la scrittura sorregge sempre bene.
Magari mi ricrederò dopo aver letto l’ultimo racconto, che immagino di maggior impegno, data la lunghezza, rispetto agli altri.
Intanto, come prima prova, complimenti!