Una bella sorpresa in libreria, incontrare un testo inedito di Antonio Tabucchi. Anche questo un racconto lungo – non capisco il bisogno dell’editore di farlo passare per romanzo – a cerchi concentrici, a mandala dice Tabucchi.
Il protagonista è alla ricerca di senso, forse di perdono, sulle tracce di Isabel, scomparsa misteriosamente dopo essere entrata in clandestinità nel Portogallo di Salazar, forse morta, forse finta morta, forse chissà.
La ricerca ci fa incontrare personaggi e luoghi, ciascuno dei quali fornisce un pezzetto di verità, una briciola di Pollicino sulla strada di Isabel.
Sia il protagonista sia Isabel sono leggeri, vogliosi di o disponibili a scambiare conoscenza ma lontani dalle passioni, aerei.
Dice la nota finale della curatrice che Tabucchi lo teneva nel cassetto da diversi anni, che ne aveva parlato, forse ci stava rimettendo mano prima di ammalarsi e morire, ed io ammiro l’integrità morale di non mandare in giro qualcosa di cui non era evidentemente ancora del tutto convinto, e che invece a me arriva come un regalo inaspettato, allo stesso livello del resto della sua opera.
Da leggere, senza riserve.
PS: mi sono soffermato ad analizzare alcune pagine (da 102 a 106) che contengono una sequenza di dialogo tutta nel corpo di soli tre paragrafi, e mi sono messo a sottolineare le espressioni verbali con cui la parola passa all’uno e all’altra, e questo è il risultato:
osservai—
disse
dissi—
continuò
dissi—
continuò
dissi—
continuò
—
continuò
ripetei—
disse
—
chiese
risposi—
rispose
risposi—
disse
pregai—
continuò
—
sussurrò
risposi—
continuò
—
disse
risposi—
continuò
dissi—
disse
—
ripetè
dissi—
disse
—
disse
rassicurai—
continuò
—
chiese
risposi—
continuò
—
chiese
risposi—
chiese
dissi—
chiese
risposi—
confermò
Su quarantadue, ben trentasei sono sostanzialmente “neutre” (dissi/e, continuai/ò, chiesi/e, risposi/e) e soltanto sette hanno una valenza più significativa (osservai, pregai, sussurrò, rassicurai, confermò, ripetè).
Mi sono messo a fare questo elenco perchè all’inizio avevo notato quasi soltanto i dissi / disse, ed ero sorpreso di come il tutto scorresse comunque fluido e piacevole, nonostante le ripetizioni che in qualsiasi scuola di scrittura sarebbero state decisamente represse.
Mi sono anche chiesto con quale criterio uno scrittore scelga di differenziare i dialoghi con una iniziale – ” << etc oppure preferisca mantenerli nel corpo generale. Al momento non ho risposta. Anche come lettore non saprei. Penso che abbia a che fare con l’intenzione di staccare o di dare continuità. Da approfondire
Sconclusionato, è l’aggettivo che userei se dovessi sintetizzare in una sola parola.
Ma per fortuna dispongo di altre parole, e allora mi sforzerò di spiegare come nonostante tutto – avendo da tempo abbandonato il masochistico impegno di arrivare comunque alla fine di un libro cominciato – sia arrivato all’ultima di queste seicento pagine.
Un complotto ordito da una – inverosimile proprio non basta – giovane indiana (dell’India) che si trova a capo della polizia di St. Louis, capitale del Missouri, e che utilizza un paio di decine di agenti indiani (sempre dell’India) che a lavoro finito scompariranno nel nulla tornando a Bombay.
“A lavoro finito” sarebbe da spiegare, perchè del complotto non si conoscono nè finalità nè complici, mentre se ne conoscono oppositori e grumi di interessi che si fanno e disfano: personaggi che cadono, che tradiscono, che sospettano. Nessuno che ne esca vincitore.
In questo contesto fondamentalmente putrido si allacciano e sciolgono relazioni personali affettive e di vario genere.
Nella caratterizzazione dei protagonisti Franzen dà il meglio di sè, e lungo il percorso si incontrano quelle tre quattro pagine di seguito che, ad esempio, ci conducono da una serata moglie marito che nasce affettuosa e che tracima in veleno possente e che non ci fanno pentire di aver resistito, tanto sono godibili e ben scritte.
Sulla scrittura niente da dire. Sulla costruzione dei periodi, invece, la prima volta può essere interessante arrivare a capire solo dopo un paio di pagine di chi si sta parlando – è anche giusto chiedere attenzione al lettore – ma la ripetizione indefinita della tecnica la riduce ad un trucco e ad un’inutile complicazione, specie quando la stessa persona si sta proponendo con un’altra identità, altro nome eccetera. Qui la lettura diventa inutilmente faticosa.
Tornando alla storia, da una parte suona magica la capacità di tenere tutti i fili ed assegnare a tutti una funzione e con una certa coerenza d’insieme, ma dall’altra prendersi la libertà di far succedere qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa, e pretendere che suoni verosimile solo perchè è straordinariamente ben scritta, trovo che alla fine sia troppo facile, e anche non del tutto rispettoso del lettore.
Concludo con uno strano senso di ammirazione e fastidio.
http://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.png00Stefanohttp://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.pngStefano2015-10-29 14:42:042021-09-09 16:04:41La ventisettesima città (Jonathan Franzen)
Feroce è feroce, il titolo è il suo.
Un palazzinaro pugliese, che fa crescere la propria azienda fino al successo internazionale. Moglie e quattro figli tutti coinvolti, ciascuno a suo modo, nelle nefandezze necessarie, quasi deterministiche, alla crescita.
Nel sud dove i poteri sono quelli mischiati dei grandi professionisti, dei baroni, dei magistrati, dei funzionari piccoli o grandi purchè abbiano una qualche capacità di interdizione sui processi decisionali.
Comincia con una tragedia, un incidente, e per tutto il libro ci chiediamo perchè vogliano farla sembrare qualcosa di peggio di quello che è.
Piano piano lo capiremo, e saremo portati quasi a farcene una ragione.
L’autore schifa palesemente i suoi personaggi, e però a tutti vuole anche un po’ bene, almeno a quelli della famiglia, di ciascuno esprime la carica di umanità, non ci sono mostri, anche se tutti, nessuno escluso, portano il proprio carico di colpa, quando per azione cosciente, quando per omissione consapevole, quando per immersione – che appare inevitabile – nella fanghiglia della provincia feroce.
La storia procede anche come un bel giallo ma il piacere della lettura sta nell’emergere delle sfaccettature dei personaggi: il patriarca, la moglie, i due figli maschi, le due figlie femmine. Nessuno è innocente, nemmeno chi, già gravato di un incolpevole peccato originale, ha cercato di salvarsi allontanandosi. Tutti sono mirabilmente invischiati dalle tessiture del patriarca che sempre si muove ad unico beneficio della famiglia.
La scrittura è tanto barocca quanto precisa, a volte eccessiva, a volte fastidiosa, ma bastano poche pagine a rassicurarci che non si tratta, non solo, di un esercizio di bravura: dà l’idea di una volontà dell’autore di volerci trasmettere tutto il miscuglio di scirocco e sudore e aliti pesanti e profumi costosi e vere eleganze tuttavia svaccate di fondo.
La costruzione cronologica con i ritorni indietro rasenta la perfezione: a volte restiamo un attimo confusi ma sappiamo sempre a che punto emotivo e temporale siamo.
Solo il finale mi è risultato un po’ “facile”. Ma il vero finale è di qualche pagina prima, quando si capisce che cosa è successo davvero e l’abisso del patriarca appare senza fondo.
Non conoscevo affatto Nicola Lagioia, cercherò qualche suo romanzo precedente, una volta tanto il Premio Strega ha fatto una buona scelta.
Traverse City è la città di Micheal Moore, che vi ha organizzato un festival di cinema per ogni inizio agosto.
A sinistra, nel riquadro rosso, Traverse city rispetto al lago Michigan e alle due principali città più vicine (in basso: Chicago e Detroit).
A destra c’è l’esploso del riquadro rosso a sinistra, ed i riquadri azzurri sono le zone visitate.
Siamo ospiti di Angela e Erik, entrambi grafici, lei anche pittice di pregevoli acquarelli.
Casa totalmente nel verde, da loro progettata su ben sei mezzi piani sfalsati dalla pendenza del terreno.
Qui ho catturato il volo del colibrì che, unico, riesce a stare fermo battendo velocissimo le ali.
Siamo nel MidWest, miglia e miglia di sterminati campi di mais e foreste e verde che si assomigliano tutti. Siamo anche su una punta del lago Michigan, che quando ci arrivi devi assaggiare l’acqua per non confonderlo, tanto le dune, la sabbia, i colori, l’orizzonte senza fine te lo farebbero battezzare mare.
Un cartello avverte di fare attenzione a scendere, perchè poi ci vogliono due ore per risalire: non sono pochi coloro che si impegnano a smentirlo.
Alle dune del Michigan andiamo – sono venuti a trovarci anche MaryBeth e Mike, che ritroveremo fra un po’ – con la gloriosa BMW Vixen, che
da vent’anni porta Angela ed Erik in giro per l’America.
Era un’aquila, diceva con sicurezza chi ne conosce il volo, e grande era grande, ma in quel cielo così lungo si dev’essere persa, chissà se qualcuno la vede, come in Blow up.
Oggi mi tocca il volo in aliante, esperienza per me del tutto nuova. Un piccolo aeroporto gestito da un piccolo club di 25 persone. Un amico è venuto a trascinarci con l’aeroplanino, poche decine di metri di pista sull’erba e siamo in aria.
Erik gli chiede di portarci più sotto un mucchio di nuvole pesanti, che d’istinto io avrei evitato, invece pare che sia sotto alle nuvole che si prendano le correnti ascensionali. Bello stare in volo con il solo rumore del vento sulle lunghissime ali.
Il boyfriend di Aneka – una delle figlie di Angela e Erik – che lavora da barman nel miglior ristorante di Traverse City, dove saremo la sera prima di partire, è cuoco, e nell’occasione
del primo incontro fra i genitori dei due ragazzi ha preparato una cena raffinata.
Tutto molto informale, sciolto, semplice.
Traverse City è la città delle ciliege, ora è periodo di pesche. Ci dicono che, dopo la California, il Michigan sia lo stato con la maggiore varietà di culture agricole. La capitale è Detroit, e qui tutti si lamentano che in generale si tende ad assimilare il Michigan a Detroit – grandi industrie automobilistiche, città non facile – mentre qui siamo fra i farmers e una nuova dimensione turistica volta totalmente al turismo interno.
La prima serata musicale è decisamente penosa, una specie di dilettanti allo sbaraglio, ma sono colpito dalla voglia di tanti, così diversi, di esprimersi, sapendo che è garantita un’accettazione incondizionata, volta più al fatto di provarci che al risultato. Notevole la ragazza che ha scritto la canzone per consolare il suo capo, furioso perchè un concorrente gli ha fregato la ricetta di non so quale prodotto della sua pasticceria.
Artisti inquietanti
Nella giornata verso le dune una sosta inquietante. “Inquietante” è tutto mio, perchè l’accoglienza della coppia che vive qui è – come sempre, del resto – cordiale e semplice. Lei è una pittrice che ha trovato nella pittura di mattonelle la sua strada attuale. Lui, un omone che pare uscito da un libro di Tolken, si occupa della casa e della costruzione delle strutture che accolgono le composizioni di lei.
La casa, circondata da sculture dei materiali più vari, è al margine di uno dei tanti specchi d’acqua di questa zona, visibile, attraverso i canneti, dalla larga sala finale, tonda, tutta a vetri.
Nel cottage di Mary Beth e Mike
Mi devo ricredere: nella composizione che ne ha fatto Mary Beth per il suo bellissimo tavolo di cucina, le mattonelle dipinte della sua amica suonano tutt’altro che inquietanti.
Mary Beth e Mike – fra i tanti incroci incontrati, quello fra i genitori di Mike, un messicano e una libanese, mi risulta il più inaspettato – vivono a Traverse City ed hanno, a circa un’ora di macchina, questo cottage sulla punta della penisola-
Mary Beth ha una passione per il vintage e la prima fantascienza, la cucina anni 60 è perfettamente funzionante, l’attrezzo strano qui sotto serve a tostare i marshmellow (!)
Passiamo con loro gli ultimi piacevolissimi giorni. Questa la foto di una serata a casa del cognato di Mary Beth, chitarrista rock con la passione di ricostruire biciclette da pezzi abbandonati. I due al centro – un disco in uscita a brevissimo – si sono fatti tre ore e mezzo di viaggio, e se ne faranno altrettante dopo cena, solo per venire ad incontrare Uliana.
Agiungo un solo particolare per significare il livello di accoglienza: quando ci siamo trasferiti dalla casa di Angela ed Erik a quella di Mary Beth e Mike, la sera dopo Angela ed Erik sono venuti a cena, ed hanno portato, per me, la macchinetta del caffè e la tazzina da caffè che Mary Beth non aveva!
Jazz e artisti di strada
La serata jazz a Northport è decisamente di buona musica. Da noi starebbero in qualche jazzclub dalle costose consumazioni, qui vengono una volta a settimana per il gusto di suonare. Sono insegnanti di una prestigiosa scuola di musica. La leader è vestita che sembra la segretaria di un notaio, ma si alterna su sassofono e flauto con uguale bravura. E che fiato!
Il batterista è un tantino invadente, impone un suo assolo in ogni singolo brano, si farà perdonare con una bella esibizione con armonica, e la nostra sassofonista alla batteria, finalmente discreta.
Nell’intervallo usciamo a prendere un po’ d’aria e, evidentemente pronte proprio in concomitanza, sull’altro lato della via, due artiste di strada si esibiscono in una danza semi tribale: non sono brave, non sono belle, ma ce la mettono proprio tutta, e con questo comunque trasmettono “qualcosa” di sè, che arriva a chi assiste.
Serata “americana”
L’ultima sera siamo invitati nella più antica – 1903 – casa della zona, dove incontriamo una coppia di musicisti che a fine serata ci regaleranno un po’ di bel country, avrei detto io, ma quando ho chiesto mi hanno risposto che il genere è da definirsi “americana”. E sia.
Comunque buona musica, ancora, di quella piena di struggenti oh my wife non posso lasciarla…
Qui sotto la casa, lo spazio antistante, il pontile:
Anche Mary Beth è un’artista, che compone collage – talmente perfetti che nemmeno guardando da vicino si distinguono le parti – con ritagli di pubblicità o star del cinema preferibilmente degli anni ’50. Mentre eravamo lì ne ha venduto uno, per un regalo che una coppia gay voleva fare ad un amico alla cui festa di compleanno stavano andando. I due hanno sfogliato per un po’, io pure guardavo, infine ne hanno scelti due.
Prima di partire, Mary Beth me ne ha regalato uno, ed era proprio quello che a me piaceva di più, del che si era resa conto solo osservandomi mentre i due sceglievano i loro.
A un paio di giorni dalla fine di questa vacanza: siamo stati in quattro case diverse, ed abbiamo goduto di un’ospitalità impagabile. Mi sono sempre sentito totalmente a mio agio, con la possibilità sempre di fare o non fare, andare o non andare. Di questo voglio ringraziare, really from heart, Carol, Steve, Michael, Angela, Erik, MaryBeth, Mike.
Ospiti all’arrivo, a New York, di Carol e Steve – lui giornalista lei avvocata – al momento in vacanza in Europa. Ingresso su Madison avenue, via fra le più prestigiose di Manhattan, con baldacchino che si estende per tutto il marciapiede e portiere 24h che manco ti avvicini ti apre la porta sia in entrata che in uscita.
L’arrivo in aeroporto con tre ore e quarantacinque minuti in fila in piedi al serpentone davanti al controllo passaporti che neanche in Uganda mi fa riflettere su quanto ci piace fustigarci circa le inefficienze italiane, che guai d’ora in poi a chi si permetta di dir male di Fiumicino. Comunque sopravvissuti, amen.
La casa è carica di cose raffinate e di piccole invasive collezioni di cosette strane di ogni genere.
Già stato a NY, lo stesso per pochi giorni, qualche anno fa; la strana sensazione che provo è di sentirmici a mio agio come se padroneggiassi la città.
In fondo a Manhattan gli imbarchi per la statua della libertà, l’isola dove venivano accolti o respinti gli immigranti – se non l’avete visto, “Terranuova” di Crialese dirà molto – e il grattacielo costruito dov’erano le torri gemelle.
Da lì una bella passeggiata fra giardini ben tenuti lungo l’Hudson dove provo ad essere d’aiuto per risolvere un problema di scacchi ma tutte le mie soluzioni erano già state sperimentate, ed ho solo confutato un’ipotesi che sembrava brillante ma risultava perdente.
Era una zona, a ridosso delle banchine per le navi che risalivano l’Hudson, di magazzini, con le tipiche scale antincendio esterne.
Da quando ci si è trasferito, sembra, Robert De Niro, è in via di riqualificazione urbana, anche se comunque resiste un enorme deposito UPS.
Arriviamo al nuovo Whitney museum, su progetto di Renzo Piano. Deludente nei contenuti, ma qualcosa per cui ne sia valsa la pena si trova sempre
Rocko, Pollok, Hoover, un a me ignoto emulo di Magritte, e scusate se è poco.
La vista dalla terazza bar:
Fra le meraviglie dell’appartamento che ci ospita c’è la terrazza condominiale, attrezzata con ombrelloni sdraie sedie, dove ci portiamo e consumiamo le colazioni prese dallo Stardbuck sotto casa, con vista sull’Empire State Building.
New York è una città piena di cose che sembrano fuori posto, con la chiesetta alta 10 metri a fianco del grattacielo o l’edificio a parallelepipedo rosso che non ha voluto vendere ed è ora sovrastato da enormi uffici ma ha mantenuto dentro il suo bar tutto americano con tanto di orinatoi originali di almeno due secoli fa.
Penso che il suo fascino stia in questa capacità di amalgama e di sovrapposizione, di edifici tanto quanto di umanità e culture diverse dove, contrariamente all’impressione iniziale, niente è davvero fuori posto.
Organizzazione e coordinamento: la sosta a uno dei tanti franchising – questo era “all salads” – mi fa riflettere sulla capacità di organizzazione e di smaltimento velocissimo di decine e decine di persone che entrano ed escono a ciclo continuo. Siamo all’ora di punta, intorno alle 13, la clientela è la più varia fra operai in tuta tailleur eleganti vecchiette: dietro al bancone in uno spazio stretto
conto almeno dodici addetti a comporre le insalate in qualsiasi variante fra le decine e decine esposte. L’unica accortezza è di essersi fatte le idee chiare prima di arrivare al banco. Alla fine del percorso ti chiedono se l’insalata la vuoi più tagliata e su un tavolo di legno te la sminuzzano con una mezzaluna a tre lame. Una quantità di lavoratori, probabilmente mal pagati, probabilmente studenti e comunque un servizio efficiente dove tutti sono gentilissimi. E l’insalata era pure buona.
La giornata con la guida di Glenn è speciale. Glenn è un artista – prevalentemente pittore – e un profondo conoscitore di New York. Ci illustra alcuni dei murales (chiamano così, diversamente che da noi, le pitture sui muri in interni) sui quali ha scritto un bellissimo libro.
Rockfeller center fu costruito negli anni 30. Lui era l’essenza del capitalismo, la moglie una un sacco di sinistra, che pretese ed ottenne di affidare ai più grandi artisti viventi le pitture interne. Si dice che Picasso e Matisse abbiano rifiutato, alla fine la scelta cadde sul messicano Diego Rivera, che presentò in approvazione i suoi bozzetti e poi fece come gli pareva, disegnando un grande Lenin e varie altre provocazioni anticapitaliste. Rockfeller si infuriò, cacciò Rivera e mise guardie armate per impedirgli di entrare mentre la sua opera veniva cancellata. Si dice che Frida, moglie di Rivera, distraesse le guardie permettendo ad un suo amico di entrare e fotografare tutto, e così Rivera potè riprodurre la sua opera, che ora è a Città del Messico.
Subentrò un pittore francese con muscolosi omaccioni fra Michelangelo e il realismo socialista, tutto in bianco e nero. Gli yuppies della zona sono ora soliti darsi appuntamento “sotto al pacco”.
Qui siamo al King Cole bar at St Regis Hotel.
La scommessa fu che non sarebbe riuscito a dipingere una scoreggia, e così Maxfield Parrish – siamo nel 1906 – che stava lavorando ad un murale per un antipaticissimo committente, che pretendeva ci fosse la propria faccia nella posizione del re al centro, lo accontentò e lo dipinse mentre scoreggiava, come si capisce dalle figure intorno, con la faccia disgustata del pittore che si tura il naso.
Infine, il Carlyle, illustrato da un pittore svizzero allora molto rinomato, i cui murales dai colori pastello erano stati quasi del tutto ricoperti dalla nicotina. Glenn fu chiamato a restaurarli, ci racconta che fece un lavorone e che fu pagato meno del pattuito, del che si rifece in una maniera che non si può dire ma molto artistica. Non è finita: svicolando fra le cucine facendo finta di niente, Glenn ci porta in un locale parallelo, in quel momento chiuso, con altri murales, dove ci dice che Woody Allen suona il suo clarinetto nella jazz band una volta a settimana.
Ci racconta che, nella discussione per essere pagato il giusto, gli fu offerto un tavolo per una serata con Woody Allen, dove alla fine gli fu però presentato un conto di ottocento dollari.
Glenn è il primo sula sinistra in piedi. La vendetta ci fu, anche questa non si può scrivere ma fidatevi che fu notevole.
Una passeggiata serale a Bryant Park offre quello che a me pare il meglio di questa città: fate conto circa la larghezza di Piazza Vittorio a Roma, forse un po’ meno, un piccolo palco con una discreta rock band, sedie e tavolini sparsi, gratuiti e in quantità tale che chiunque possa usufruirne,
gente che ascolta, gente che parla, gente che gioca, gente che fa ginnastica insomma ci sarà pure il lato oscuro ma qui la sensazione è proprio di libertà diffusa. Non posso fare a meno di pensare che, in un posto così centrale di una nostra città, i due chioschi-bar si sarebbero allargati a dismisura, ce sarebbero non meno di dieci ad occupare con i loro carissimi tavolini tutto il perimetro della piazza. Dall’Empire: tutt’altro che banale
Manhattan a 360 gradi fa una certa impressione. Cominciò con “Gang of New York”, chi se lo ricorda il film di Scorsese? Vista dall’alto dell’Empire il fascino di questo pezzetto di terra fra due fiumi torna tutto.
Le foto della costruzione di questo grattacielo, la spiegazione delle modalità costruttive sono impressionanti.
E la gara che ai primi del ‘900 si svolgeva per chi fosse riuscito a costruire il più alto, con le antenne di 60 metri per arrivare più sù può sembrare un gioco infantile fra miliardari, ma sotto c’era la sostanza del potere.
“Quanto puoi andare sù senza che venga giù?”, si dice abbia chiesto il committente all’architetto.
Qui sotto si riconosce Central Park (qualcuno ricorda Hair, di M. Forman?), il grattacielo della Chrysler, uno dei competitor, forse il più bello, e l’attenzione è attratta anche dalle costruzioni basse, ciascuna delle quali avrà, credo, una sua leggenda o di tigna del proprietario o di reperto storico da conservare.
Per chi non ci fosse ancora andato: la spesa per arrivare al picco più alto – circa la metà dei 50 dollari che saranno ben spesi – si può risparmiare. Dall’86mo piano si vede tutto, e all’aria aperta.
http://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.png00Stefanohttp://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.pngStefano2015-08-31 02:49:352021-09-08 16:10:11_01New York
“…e così sono diventato un drogato di queste intense esperienza sui monti, e ho imparato a contenermi per poter proseguire. Nella libertà è compresa anche la rinuncia, però la libertà non ha limiti“. (pag 40).
Quattrocentocinquanta pagine di scalate e attraversamenti, di imprese al limite delle capacità umane. Quando, rispetto a tanti modi di sfidare l’impossibile, ci chiediamo ma chi glielo fa fare, qui una risposta la troviamo. Un Ulisse che cerca più di tutto sè stesso. E che sembra averlo trovato. Reinhold Messner si chiede di continuo che cosa lo spinga, che cosa lo induca a mettere in secondo piano tutto il resto, compresi gli affetti più cari.
Si tratta di una specie di spinta interiore irriducibile, è l’incarnarsi di quel “è più forte di me”, che a volte utilizziamo per non prenderci la responsabilità fino in fondo di qualche nostra scelta. Messner le responsabilità se le prende tutte, nei successi e nelle disgrazie. Dalle prime scalate, giovanissimo, sulle Dolomiti, all’Everest senza bombole di ossigeno, alla salita su tutte le quattordici montagne più alte di 8.000 metri, alla ricerca di “chi ci riesce per primo” – in concorrenza con un miliardario americano, e vincerà un poco noto canadese, di cui Messner riconosce quasi con affetto il primato – a scalare le sette montagne più alte di ciascuno dei sette continenti (ed è buffo leggere di queste diatribe sulla definizione di continente, che diventa fondamentale per decidere del primato) fino all’attraversamento dell’Antartide e dei deserti.
Non mi sono mai sentito al limite delle mie forze, nè mai l’ho cercato, nelle modeste montagne su cui sono salito, ma di quei momenti di essere soli nella natura e di quella selvaggia gioia al superamento di un ostacolo che sembrava impossibile un lieve sapore mi è capitato di sentire; Messner restituisce quale potrebbe essere stato il sapore pieno. E siccome scrive anche bene, fa vivere a chi legge la difficoltà da superare, la decisione da prendere dopo la quale alcune decisioni non si potranno più prendere, fa vivere il freddo dei bivacchi su uno spunzone, bagnati a meno trenta gradi, la difficoltà di comunicazione con il campo base o con altri alpinisti. L’amputazione di alcune dita congelate da entrambi i piedi. La tragedia della perdita di un fratello, di un amico, di un compagno di avventura.
Ho scoperto qui che le difficoltà maggiori non sono di ordine tecnico, come immaginavo, tipo una parete liscia senza appigli, ma dipendono dalla consistenza della roccia, che si sbriciola, non tiene, o dalla consistenza della neve – mi sosterrà o ci affonderò? – o da come girerà il vento rispetto alle potenziali slavine, o dai sassi che cadono da più in alto.
Di alcune miserie umane – chi ha letto il libro sul K2 di Walter Bonatti se ne sarà fatta un’idea – che attraversano anche il mondo dell’alpinismo, che ci piacerebbe immaginare tutto eroismo e altruismo, Messner dice qualcosa ma passandoci sopra senza addentrarvisi. Non dev’essere per niente un tipo simpatico, Messner, anche se pare sia un eccellente conferenziere, a cui piace condividere le proprie esperienze, a cui è anche necessario guadagnare per finanziarsi nuove imprese, ma il cui mondo è altrove, e che ha “sempre simpatizzato con una categoria particolare di persone, un po’ fuori dai ranghi, anticonformiste, tendenzialmente girovaghe, studenti fuori corso, guide, bracconieri, visti da tutti con un misto di scetticismo e di rispetto.”
La sua ultima impresa, finora, passati i settant’anni e quindi tenendo conto dei limiti fisici, è un castello ristrutturato con le sole proprie forze, dove ha sede il Messner Mountain Museum – MMM – che mi propongo di visitare.
http://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.png00Stefanohttp://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.pngStefano2015-08-16 12:48:452021-12-01 18:05:28La libertà di andare dove voglio (Reinhold Messner)
Una giovane donna ruba piante trascurate dai condomini di Monteverde, a Roma, e se ne prende cura nel suo largo terrazzo.
Questa la trovata, piuttosto debole, che vorrebbe sorreggere e dare struttura ad un raccontino gradevole, scritto in buon italiano.
Molto scorrevole, si fa leggere volentieri. Forse anche perchè, nel leggerlo, ricevo la sensazione gratificante di potermi riconoscere in gran parte in quel mondo vagamente di sinistra pieno di buone intenzioni e anche di qualche buon comportamento.
Ma questa appartenenza così evidente è un limite: le svolte drammatiche – ce ne sono un paio – arrivano prive di necessità, appaiono forzature con lo scopo di dare spessore ad una storia che non ne ha.
Di fondo, irrilevante. Eppure la stoffa c’è. Vedremo se ci sarà un secondo tentativo, con più distacco dalla vita vissuta della scrittrice, che qui dà l’impressione di avere ricevuto troppo spazio.
http://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.png00Stefanohttp://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.pngStefano2015-08-06 01:21:482021-09-09 16:22:28La ladra di piante (Daniela Amenta)
Quando, fra i tanti libri esposti, ne prendo in mano uno, a volte mi chiedo che cosa mi abbia attratto proprio in quel libro. Non sempre è facile riconoscerlo. Non sempre mi piace doverlo ammettere, ma è un esercizio istruttivo, dirci che cosa davvero ci muove.
In questo caso mi sono fatto attrarre dalla fascetta che ricordava “Premio Nobel 2014”, e stavolta è andata bene, con un autore – confesso – a me prima sconosciuto.
Per me è un racconto lungo (130 pagine), anche se la copertina recita “romanzo”. Anche in questo ha affinità con Tabucchi, che ho sentito richiamato dalle atmosfere insieme lievi e dense di sotterranei. La scrittura non cerca preziosismi e perciò l’ho potuto leggere in una serata, con lo sfondo, che mi è sembrato molto appropriato, del pianoforte di Satie.
Pochi personaggi che si incontrano, e poi due o tre volte si reincontrano, fra casualità e ricerca, fra gli ultimi anni della seconda guerra mondiale e oggi.
Il destino del protagonista legato a quello di una donna. Ci si potrebbe aspettare una storia d’amore, vissuta o mancata che sia, e invece è altro. Quando si potrebbe anche essere un po’ irritati perchè ormai mancano pochissime pagine e non ce ne possono essere abbastanza per una spiegazione plausibile, e ci si rassegna all’ennesimo “finale aperto”, le ultime quattro righe – quattro righe quattro – dicono quanto basta, ed è necessario.
Mi ha richiamato l’ultima pagina de “L’amico ritrovato”, di Fred Uhlman. L’essenzialità, senza oscurità, è privilegio di pochi. Cercherò altro, di Patrik Modiano.
http://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.png00Stefanohttp://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.pngStefano2015-06-08 11:49:042021-09-09 16:12:07Viaggio di nozze (Patrik Modiano)
Le manifestazioni piene di speranze di migliorare il mondo, lo scivolamento – troppo tardi avvertito – ad altro, il fumo dei lacrimogeni e l’aria pesante di fumo delle case, questo è reso al meglio nella verità di quegli anni.
La libertà degli amori, o piuttosto dello scambio facile, o meglio non appesantito da eccessive implicazioni energetico affettive, questa non sono sicuro che fosse davvero così leggera come viene proposta. Le gelosie potevano pure essere polical uncorrect ma tali erano, devastanti come ogni sentimento represso.
La parte di Clara Sereni che a me esce più vivida da queste pagine è la tenacia la forza di volontà la capacità di ottenere o meglio conquistare: una casa al centro di Roma, un’autonomia economica, un posto nella letteratura. Meglio ancora: guadagnarsi qualsiasi cosa importante con fatica ed impegno e rigore.
E il giusto orgoglio di essere passata per il lavoro di dattilografa, e per essere stata brava, anche molto brava, a livelli di eccellenza, in quel lavoro.
L’autoironia, sempre presente. Eppure autoironia non è la parola giusta. Distacco, forse? E nemmeno basta. E nemmeno è vero: non c’è distacco, no. Forse non c’è una parola unica per rendere il senso della partecipazione forte ai fatti raccontati e della distanza da cui vengono raccontati. Come da chi sia oltre.
Questo essere, o vedersi, oltre, è ciò che forse autorizza a chiamare ciascuno con il proprio vero nome (il cognome è sottinteso ma chi sa lo sa). Questo a me è sembrato superfluo, qualche volta non di buon gusto.
Non lo faccio mai, prima di scrivere di un libro, ma stavolta ho letto alcune recensioni. Sono rimasto sorpreso che in nessuna recensione, in nessuna intervista ci siano state considerazioni o domande sulle persone vere che abitano il libro. Citto Maselli ad esempio – “che stai scrivendo?” – di cui l’autrice è innamorata per anni, e con il quale anche la madre sembra aver avuto una relazione. Mi chiedo quale sia il senso di averne accennato di sfuggita, visto che non c’era l’intenzione di coglierne, nella scrittura, la drammaticità.
Questo essere oltre, mi dico, forse non è davvero così oltre.
“Colpevolmente”, nell’ultima frase, può essere letterariamente bello, ma a me è suonato stonato. Parte di quel dolore razionalizzato ma non redimibile, che rende così difficile collocarsi davvero oltre.
Clara Sereni non considera Via Ripetta 155 fra i suoi libri migliori, ma non le date retta: si tratta di snobismo.