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Quello che non ti dicono (M. Calabresi)

Pochi, come Mario Calabresi, hanno raccontato una vicenda, e insieme un periodo storico, con altrettanto equilibrio.

Mario Calabresi è stato direttore de La Stampa e di Repubblica, da dove è stato mandato via perchè “troppo equilibrato” (ovviamente non fu questa la motivazione ufficiale).

Un passo indietro: quando, per stornare le indagini sulla bomba di piazza Fontana dai fascisti – poi riconosciuti responsabili – lo stato cercò di indirizzarle verso gli anarchici, il commissario Calabresi era colui che aveva in custodia l’incolpevole anarchico Pinelli, che morì dopo essere volato giù da una finestra della questura di Milano.
Perciò il commissario Calabresi diventò, in quella stagione dolorosa, uno dei “cattivi” designati, e fu assassinato a revolverate.

Mario Calabresi è il figlio del commissario Calabresi e ha raccontato, in “Spingendo la notte più in là”, l’evoluzione della sua famiglia dopo l’assassinio del padre – 1972 – con un equilibrio più che raro.

In questo nuovo libro scrive che, dopo il precedente, aveva giurato di non tornare più su quel periodo, ma un frate dall’Algeria gli parla di una sua quasi coetanea, che ha vissuto una vicenda dolorosa rimasta dimenticata.

Quasi coetanea perchè nata dopo la morte del padre, nel 1975, a sua volta morto senza sapere che gli sarebbe nata una figlia.

Marta è la figlia di Carlo Saronio, proveniente da una delle più influenti famiglie di Milano, ricca di un impero chimico.
Carlo rifiutava i suoi privilegi e oscillava fra volontariato cattolico e istanze gruppettare rivoluzionarie, tanto da mettere a disposizione alcune residenze familiari per attività criminali/terroristiche.

Quando, anche perchè innamorato della madre di Marta, se ne stava probabilmente staccando, fu rapito, forse consenziente, forse no, dai suoi stessi compagni, che ne chiesero il riscatto.
I criminali comuni ai quali fu appaltato il rapimento furono talmente stupidi – sembra di stare in un film dei Coen – da sbagliare la dose di anestetico, tanto che Carlo morì subito. Riuscirono tuttavia a far credere che fosse vivo e a ottenere un riscatto.
La storia è quella del dramma di una famiglia, in un periodo in cui i rapimenti erano il mezzo preferito della malavita – otto in contemporanea, in quei mesi – e del dramma di una giovanissima che si ritrova da pochissimo incinta e con la famiglia del compagno, con l’unica eccezione della madre di Carlo, che la vede come un’approfittatrice.
Solo anni dopo, grazie a un pentito, il corpo di Carlo sarà ritrovato.
Il frate dall’Algeria è un cugino di Carlo, schifato dal comportamento della propria famiglia verso la madre di Marta.
Questa la storia.
Tutto sommato una storia “semplice”, che Mario Calabresi sa restituire come un appassionante giallo attuale, ricostruendo il clima, gli odori, i sapori di un periodo della nostra storia difficile da immaginare per chi non l’abbia vissuto.
La scrittura è piana e onesta, a testimonianza di un equilibrio raro.

Lacci (Domenico Starnone)

Un libro disperato.

Lo capisco, definirlo “disperato” può non attrarre, e tuttavia vale la pena leggere questo ultimo romanzo di Domenico Starnone.

Ne lessi, e rilessi – uno dei libri più divertenti che io abbia incontrato – “La scuola”, agli esordi, poi uno o forse due altri romanzi che non mi hanno lasciato traccia; questo “Lacci”, invece, mi ha colpito per il pessimismo cosmico che trasmette, vestito di uno stile sempre accattivante e piacevole.

Una coppia va in crisi: lui si è innamorato di una ragazza più giovane e vuole viversi questa esperienza. Niente di più banale, eppure i bei romanzi non sono dati dal raccontare storie nuove, ma dal come vengono raccontate. E Starnone sa raccontare, sa tenere l’attenzione viva, la curiosità sveglia.

Ci saranno evoluzioni, naturalmente, che qui non racconto. Ci sono, oltre a marito, moglie, amante di lui, due figli, che da bambini patiscono l’assenza del padre e da adulti si confrontano sulle identità dei genitori, e infine un gatto, con un suo ruolo nella narrazione.

Benchè il finale sembri aspirare a trasmettere un senso di vitalità e spensieratezza, non si salva nessuno. L’impressione è che l’autore non li sopporti proprio, i suoi personaggi, come se il suo approccio allo stare al mondo avesse esaurito tutte le energie a cercare di capirlo e ci avesse rinunciato, senza essersi arreso al fatto che, “capire”, non si può.

“Se tu te lo sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie“. Questo è l’incipit-

Ti mostri affettuoso e intantio sfoghi i cattivi sentimenti per vie traverse“, dice la moglie del marito.

“Mio fratello è un uomo finto… sa mimare bene tutti i sentimenti senza mai provarne nessuno”, dice la sorella del fratello, da adulti.

Si legge in un soffio.

Vita e morte di un ingegnere (E. Albinati)

Della vita, non molto; della morte, letteralmente fino all’ultimo respiro; anzi, alla cremazione.

 

Scritto subito dopo “La scuola cattolica“, e da me letto subito dopo, è come se fosse una continuazione. Come se dopo aver esplorato un quartiere borghese, una scuola privata, un delitto che in quell’humus ha preso forma, Albinati abbia deciso di andare in profondità nella vita del padre.

L’autore scrive ancora in prima persona, è lui presente, non si tratta di un romanzo, si tratta della descrizione del padre, del quasi non rapporto con quest’uomo dedito al lavoro, del quale la moglie spera che l’avvicinarsi della morte “porti a galla i tesori sepolti… senza capire che il tesoro era appunto quell’acqua limpida… in fondo alla cui singolare trasparenza non c’era niente che non fosse da sempre visibile a occhio nudo”.

Mi sono chiesto se mi piacerebbe risultare così a un figlio e no, non mi piacerebbe: quella “singolare trasparenza”, che pure fa pensare a una persona “pulita”, senza contraddizioni, la sentirei addosso come un limite.

Il libro – 159 pagine – è diviso in due parti, quasi paritarie, ma anche se della malattia e della morte si tratta nella seconda parte, malattia e morte sono presenti in tutto il racconto. A me è rimasta impressa con forza la descrizione puntigliosa, dotata di una pietas tenuta a bada da un intelletto poco incline alle sbavature emotive e che tuttavia arriva al lettore, che si chiede – io mi chiedevo – ma ne avete tutte le possibilità, perchè non lo fate morire in pace?

La risposta ci viene data, anche se la domanda nel testo non è posta, e sono quei piccoli gesti che possono essere scambiati, senza poterne essere certi, per attaccamento alla vita, e ai quali non può essere negato valore.

Accompagnamo così l’ingegnere nelle riprese, nelle ricadute, in alcuni trattamenti quasi sicuramente inutili, talvolta dolorosi oltre che inutili, funzionali probabilmente solo al profitto della clinica, fino alla morte nel letto di casa, con i cari vicini ma senza che riesca a godere della loro presenza mentre qualcuno, di sicuro l’autore, cerca, e forse riesce, a beneficiare fino all’ultimo respiro del padre, anche se non sembra riuscire a riconoscerne il sapore.

Difficilmente saremo sollevati dal doppio arcobaleno che si staglia sulla Flaminia mentre la famiglia torna a casa dopo la cremazione.

 

La scuola cattolica (E. Albinati)

Attraverso un quartiere, una scuola, un delitto, un’analisi del maschile, da dentro.

Tre sigle percorrono questo romanzo di più di mille e quattrocento pagine: QT, SLM, DdC.
Rispettivamente, il quartiere Trieste, il san Leone Magno, il delitto del Circeo.

Anni settanta, tre ragazzi incontrano due ragazze, le portano in una villa sul Circeo, le seviziano per due giorni fino a ucciderle. Le mettono nel portabagli della macchina e tornano a Roma a prendersi un gelato. Una delle due ragazze però ha solo finto di essere morta, batte dall’interno del portabagli, qualcuno la sente, viene salvata, due dei tre ragazzi vengono immediatamente arrestati, del terzo non si saprà più niente fino a oggi.

Ci arriviamo dopo più di quattrocento pagine. In realtà, le pagine sui fatti dei delitti – ce ne sarà un altro – sono davvero poche e senza mai che si indulga in quel genere di descrizioni che fanno la fortuna della cronaca nera dei giornali.

Sono nato in quel quartiere, so dov’è il SLM anche se non l’ho frequentato ma sono stato in un collegio gestito da religiosi, conosco quel clima, quel genere di persone perchè, dopo aver abitato altrove, ho lavorato lì vicino e i miei figli hanno frequentato un asilo del quartiere e poi le elementari a Villa Paganini.
Albinati mi ha restituito in pieno quel clima, con in più una quantità di sfaccettature le più diverse.

L’autore ci è nato, ci è vissuto, ha frequentato il SLM e ha conosciuto gli autori del DdC, i loro fratelli e sorelle, gli amici, i genitori, gli insegnanti. Ha sentito il bisogno irrefrenabile di scrivere quando uno dei tre, dopo aver scontato anni di galera ed essere uscito per buona condotta in semi libertà – era diventato consulente psicologico – aveva ammazzato due donne, madre e figlia, la figlia di quattordici anni. Di nuovo senza alcun motivo che lo posso fare, lo faccio.

Eppure non è la riflessione sui delitti il centro del libro. Ne è invece lo spunto per un’analisi profonda, molto profonda, del mondo maschile, in un percorso a spirale con le curve che si allargano sempre di più fino ad abbracciare, in questa ricerca, la borghesia, la classe media, la religione e la sottile arte di rovesciare il senso comune per cui, per dirne solo una, chi muore passa a miglior vita.

Due capitoli, in particolare, dicono del grande scrittore.

Dopo aver fatto complessi ragionamenti sulla quasi ineluttabilità genetica del maschio a essere stupratore e assassino, un capitolo descrive una scena di sesso, bella, vera, alla fine della quale “Le sue natiche rilucevano chiare nel buio, e lei sembrava morta, non si muoveva più, non respirava.“.

Sul finale, l’autore bambino in settimana bianca si ammala, un prete amorevole se ne prende cura, noi vediamo come se ne prende cura ma non sappiamo come se ne prende cura.

L’autore – presente in prima persona nel romanzo – non si fa sconti, ma davvero non se ne fa, non come quelli che si trattano malissimo mentre strizzano l’occhio al lettore: visto, come sono del tutto trasparente anche nel peggio di me?

Sembra spietato, verso i suoi personaggi / persone, tranne che verso la famiglia Rummo, della cui tragedia racconta in un altro bellissimo capitolo, e che ritrova sul finale, alla messa di natale di mezzanotte,  che gli dà l’occasione di concludere il romanzo con una parola inaspettata, che qui non rivelerò.

Non è una lettura leggera, ma è una lettura che prende, che fa venir voglia di andare avanti perchè è vero che sta esprimendo lo stesso concetto ma lo sta facendo con parole nuove, con sempre un aggiunta di significato, un approfondimento marginale ma vero. È uno di quei libri che quando lo hai finito ti lascia la nostalgia di un’esperienza che è passata e che è stato così bello viverla.

I maschi dovrebbero leggerlo per specchiarvisi, come ho cercato, non senza difficoltà, di fare, le donne dovrebbero leggerlo per imparare qualcosa sul maschile e poterlo, qualche volta, compatire.

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Il disperato bisogno di senso, tipico del romanzo, trionfa nelle conclusioni che noi tiriamo sul nostro passato,
fornendo un alibi fantastico per qualsiasi cosa sia accaduta ma anche per quelle che debbono ancora accadere; in
fondo la letteratura è un’assicurazione sulla vita per abbandonare il tentativo di costruirsene una diversa, di
costruire un altro me stesso migliore o più coraggioso,

È questo, sempre, ogni romanzo: la narrazione di un’infelicità.

 

 

 

 

tutto chiede salvezza (D. Mencarelli)

Sarebbe uno Strega meritato

Una settimana di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) trascorsa da Daniele Mencarelli – il personaggio del romanzo ha lo stesso nome dello scrittore – in una stanza a sei letti del reparto di psichiatria di un ospedale, dopo l’ultima esplosione di rabbia che, oltre a distruzione di oggetti, ha prodotto ferite alle mani e lo svenimento del padre.

“Mi sembra che la vita mi pesi più degli altri”, dice Daniele, vent’anni, allo psichiatra. La sua ricchezza e la sua condanna è un’empatia priva di confini, che può diventare distruttiva.

Si alternano, nei colloqui, due psichiatri, uno assente l’altro più partecipe. Alla fine le parti quasi si invertiranno: il primo risolverà con inaspettata umanità una situazione molto difficile mentre l’altro si sarà rannicchiato in fuga da tutto. Questa capacità di restituire, con poche pennellate chiare, la complessità e le contraddizioni di tutti i personaggi presenti a me pare una delle qualità migliori del libro.

Nelle sette giornate che Daniele trascorre lì, in un periodo di caldo afoso che rende a tutti difficile dormire e che fa svegliare inzuppati di sudore, Daniele conosce i compagni di stanza. Due sono lì come lui in TSO, per poco tempo, finchè non passa il momentaccio; altri sono fissi, chi del tutto privo di sguardo e di mondo, chi alle prese con un passato irredimibile.

Poi ci sono gli infermieri. Ciascuno merita un ritratto non banale, non stereotipato; ognuno, anche chi appare di straforo o del tutto sullo sfondo, viene restituito con pochi tocchi che ne rendono la complessità.

Ci sono mezze pagine – la gravidanza “impossibile” fra due pazienti – che in poche righe alternano il sapore di pezzi di paradiso allo sprofondo nella realtà.

È un libro pieno di emozioni vere, che prendono chi legge proprio perchè le sente vere, mai strumentali alla storia da raccontare.

La gratitudine che Mario sa restituirmi dovrebbero vederla almeno una volta nella vita tutti gli esseri umani esistenti. Come un’opera d’arte o un capolavoro della natura.”

Il padre e la madre di Daniele, i fratelli, li vediamo in controluce: una base sicura che gli permette di non perdersi del tutto. Forse pure che gli ha permesso di sperimentare lo sperimentabile nella certezza di ritrovarli: sempre, solidi.

Sul finale, un incidente: sono bastate meno di dieci righe a renderne la drammaticità. A seguito dell’incidente, le reazioni emotive varie dei pazienti producono una scena in cui ciascuno rivela altre parti di sè. Bastano quattro pagine, senza alcun bisogno di calcare la mano su qualche effetto, a far succedere tutto e a restituire a ciascuno una collocazione.

La settimana di TSO finisce, Daniele torna a casa a piedi, immerso nella gioia dei colori intorno, dove tutto chiede salvezza.

Sono molto contento che sia entrato nella cinquina finalista dello Strega e che sia stato il più votato dai giovani. Della cinquina (sestina, quest’anno) ho letto Colibrì, mentre non conosco gli altri libri finalisti. Visto che il libro di Veronesi è stato il più votato dalla giuria che assegnerà il premio, non ho dubbi che Mencarelli meriti di vincerlo.

Un’ultima riflessione, simile a quella fatta dopo aver letto il suo primo romanzo: a un certo punto gli spunti tratti dalla vita di una persona si esuriscono, o si ripetono; auguro a Daniele Mencarelli di continuare a regalarci questa prosa anche con altri protagonisti.

Mi chiamo Yuri (Patrizia Pieri)

Dieci anni dopo, due amici e una madre restituiscono verità e dignità a Yuri.

Conosco Patrizia Pieri come brava fotografa, il lavoro e la passione di una vita, immagino non sia stato facile passare da una modalità espressiva a un’altra senza portarsi dietro residui.

Invece, il romanzo è fatto di parole, come dev’essere, e “privo” di foto; a parte quella vera e propria della copertina che ferma un ambiente della storia particolarmente caro ad alcuni dei protagonisti.
La foto è stata presa a villa Sciarra, un bellissimo posto nel cuore di Monteverde, Roma, ora purtroppo molto trascurato, dove un gruppo di amici passava ore in cui nascevano amori, amicizie, qualche illegalità da adolescenti e qualche altra da giovani adulti che entrano in contatto con adulti feccia.

È la storia di un sentimento rimasto sospeso fra amicizia e amore, che dieci anni dopo un incidente stradale in cui Yuri muore – il protagonista appare solo nei racconti degli amici e della madre – è la spinta che induce gli amici più cari di Yuri a indagare su quell’incidente sul quale troppe ombre non sono state illuminate.

La storia prosegue scorrevole: la ricerca della verità – piena anche di avventure inattese, nello squallore di una mala romana tra cocaina fascisti e strozzini – va in parallelo con il crescere di un sentimento, osservato con grande delicatezza.

I piani temporali – oggi a trent’anni, ieri a venti, l’altro ieri fra tredici e quindici – si alternano fluidi e restituiscono lo spessore dei diversi personaggi e le rispettive evoluzioni, involuzioni.

Della madre di Yuri, Patricia, sappiamo che proviene da una famiglia ipocrita da cui è scappata e che ha incontrato un uomo – il padre di Yuri – rivelatosi un poco di buono. Patricia resta sullo sfondo: non vuole credere alla casualità dell’incidente stradale – troppe incongruenze, troppi sospetti – ma il dolore incommensurabile della perdita di un figlio non le permette, sul momento, di cercare.

Cercheranno, per lei e con lei, Valentina e Andrea, gli amici più cari di Yuri, alla cui memoria questo romanzo, oltre a confermare l’amore di una madre, restituisce dignità e rispetto.

La casa degli sguardi (D. Mencarelli)

Poesia che nasce dalla merda

Il protagonista è l’autore stesso, citato anche con il cognome nel testo.

Si può definire un romanzo di formazione, di un giovane dato per perso: ogni tipo di droga e casino e rissa fino a essere atterrato nei bicchieri di bianco, che li trovi dappertutto senza doverti sbattere troppo.
Perso per i genitori che tuttavia si accaniscono a prendersene cura anche quando non solo le forze ma la volontà viene meno. Perso anche per i fratelli, con i quali Daniele ha relazioni mediate dai nipotini, che lo adorano.

Daniele, nel romanzo come nella vita, è un poeta. Le sue poesie sono apprezzate e pubblicate su riviste prestigiose.
Eppure, l’unica lettura di poesie descritta nel romanzo “chissà come sarà andata”.

L’aiuto iniziale gli viene da un amico intellettuale, poeta anche lui, che gli trova un posto in una cooperativa di pulizie.
La merda da spalare nei sotterraei del Bambin Gesù, l’intollerabile casetta che ospita i bambini morti e il dolore di chi li ha amati, gli interventi pericolosi nelle zone infette, quelli insopportabili vicino alle sale operatorie o dove si fanno le autopsie, sono la strada che lo restituisce alla realtà.
Insieme alla poesia, in un finale nè scontato nè retorico.

Lungo questa strada incontra i compagni di lavoro. Con pochi tocchi ce li fa vedere, ci fa sentire quella solidarietà brusca, qualche volta condita di protervia o di bassezza ma che unisce le piccole squadre che si formano per lavori schifosi, a tratti pericolosi. È la parte più bella, per me.

Una scrittura sobria, tagliente, efficace. Senza indulgenze verso il protagonista. Il poeta ha prestato allo scrittore gli accostamenti di parole che colpiscono diretti, entrano nel cuore di chi legge. Non c’è una storia di cui vuoi sapere la fine eppure da un certo punto in poi non te ne riesci a staccare.

È uscito da poche settimane il secondo romanzo, “Tutto chiede salvezza”. Lo leggerò. So che è fra i candidati al premio Strega, gli auguro di vincerlo. Gli auguro anche di poter cominciare a scrivere romanzi d’invenzione.

Colibrì (Sandro Veronesi)

Una generazione perdente che si fa da parte in punta di piedi.

Di Veronesi mi piacque molto “Caos calmo”, poi rimasi deluso da “Terre rare”.
Mi ha convinto a comprare “Colibrì”, anche prima di ricevere qualche commento di lettori che considero affidabili, la recensione su Internazionale di Goffredo Fofi, notoriamente poco incline agli entusiasmi.
Perciò avevo forse maturato aspettative eccessive, da qui una parziale delusione; comunque, sia chiaro che ho letto volentieri e che ne è valsa la pena.

L’ho trovato tuttavia a tratti faticoso, per i troppi piani relazionali che si alternano e impongono al lettore di ricentrarsi, quasi a ogni capitolo.
Si passa dalla strana relazione del protagonista, Marco, con lo psicoanalista della moglie (no spoiler: è proprio l’inizio), alla famiglia di origine, ai rapporti tra fratelli e sorelle, all’amore epistolare con Luisa, alle lettere senza risposta al fratello Giacomo, alla famiglia che Marco ha costruito e, infine, alla straordinaria nipote Miraijin, figlia della figlia, che vuole rappresentare “l’uomo del futuro” e alla quale vengono attribuite qualità straordinarie, in un salto futuribile, al limite della fantascienza, che mi è sembrato un po’ giustapposto alla storia.

La terza persona si alterna alle prime persone di chi scrive le lettere: Marco a Luisa, Marco a Giacomo, Luisa a Marco. Non è sempre facile districarsi, anche per l’alternarsi continuo dei piani temporali.

Marco, per essere un protagonista, ha una caratteristica particolare, almeno nella mia lettura: sembra illuminare più i personaggi con i quali viene in contatto che se stesso. Il che sembra coerente con il fatto che a un certo punto la sua ragione di vita diventa la nipote dalle qualità non comuni: forse il tema centrale del libro è proprio il farsi da parte di una generazione perdente, verso la quale tuttavia non manca indulgenza.

Muoiono tanti personaggi, in questo libro, ma non mi sono mai sentito “toccato” dagli eventi: una certa superiore leggerezza di chi scrive sembra aleggiare sulle circostanze più drammatiche e attenuarle anche oltre, forse, la volontà dell’autore. Non lo considero un difetto, semmai la cifra stilistica che rende riconoscibile lo scrittore Veronesi.

A tratti, ho avuto l’impressione che la “costruzione” abbia prevalso sul sentimento, che pure si sente.

Sento nostalgia per i romanzi scritti nel rispetto della cronologia dei fatti, chissà se il prossimo…

Cosa resta di noi (Giampaolo Simi)

La Versilia, una coppia che non riesce ad avere figli, composta da un bagnino diventato imprenditore per matrimonio, una donna bellissima che ne è diventata la moglie e si dedica alla carriera di scrittrice e poi di presenza televisiva, l’arguzia toscana quando diventa becera, un’impiegata innamorata dell’uomo sbagliato.

È quest’ultima che muore. Anzi scompare. Tranquilli: succede nelle primissime pagine, quindi non svelo niente.

La scrittura va via liscia, i personaggi sono bel delineati, anche i minori, come l’amico del bagnino, il padre del trucido.

Per la parte “giallo” la storia è ben condotta, ma nelle ultime pagine il crash finale è poco sostenuto dalle premesse e dalla logica e anche le evoluzioni di qualche personaggio – sopratutto la moglie – sono decisamente poco credibili.

Che dire? Gradevole, posso provare con altri.

Il quasi giallo Sellerio è ormai quasi un genere: scrittori dallo stile scorrevole che raccontano storie che fanno pensare a qualche ambizione maggiore rimasta confinata. Di persona Giampaolo Sini – conosciuto ad una “lectio magistralis” sul cui titolo lui stesso ironizzava – ha l’aria simpatica, confermata dalla esplicita dichiarazione di sapere esattamente dove – letterariamente – sta e dove vuole stare.

Resto qui (M. Balzano)

Sono stato diverse volte in val Pusteria, non sapevo che in zona ci fosse, seppellito dall’acqua di una diga, questo paese, del quale è stato risparmiato il campanile che pare diventato meta di selfie.

Il romanzo parla di una famiglia e di una comunità strapazzati per una generazione prima dai fascisti che vietano di parlare il tedesco, poi dai nazisti, infine dalla Montecatini.

Ad un certo punto ci sono gli andanti e i restanti: si guardano male fra di loro, come traditori, perchè fascisti e nazisti si sono accordati per permettere a chi voglia di trasferirsi in Austria.

La guerra è sullo sfondo che segna le esistenze: la figlia scappata con gli zii ricchi, il figlio che diventa nazista e va volontario, moglie e marito che scappano nel gelo verso la Svizzera.

La guerra finisce, le esistenze sembrano ricomporsi, la diga, i cui lavori tante volte sono stati sospesi e tante ripresi – i più confidano nel fato benigno, nella provvidenza, nel papa – infine viene costruita, i masi fatti saltare col tritolo, le famiglie costrette in trentaquattro metri quadri ciascuna.

Uno stile asciutto, denso, per un romanzo appassionante, come se non si sapesse come andrà a finire. Un’epopea di vinti, mai domi.

Bello, da leggere.