Viaggio di nozze (Patrik Modiano)

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Quando, fra i tanti libri esposti, ne prendo in mano uno, a volte mi chiedo che cosa mi abbia attratto proprio in quel libro. Non sempre è facile riconoscerlo. Non sempre mi piace doverlo ammettere, ma è un esercizio istruttivo, dirci che cosa davvero ci muove.

In questo caso mi sono fatto attrarre dalla fascetta che ricordava “Premio Nobel 2014”, e stavolta è andata bene, con un autore – confesso – a me prima sconosciuto.

Per me è un racconto lungo (130 pagine), anche se la copertina recita “romanzo”. Anche in questo ha affinità con Tabucchi, che ho sentito richiamato dalle atmosfere insieme lievi e dense di sotterranei. La scrittura non cerca preziosismi e perciò l’ho potuto leggere in una serata, con lo sfondo, che mi è sembrato molto appropriato, del pianoforte di Satie.

Pochi personaggi che si incontrano, e poi due o tre volte si reincontrano, fra casualità e ricerca, fra gli ultimi anni della seconda guerra mondiale e oggi.

Il destino del protagonista legato a quello di una donna. Ci si potrebbe aspettare una storia d’amore, vissuta o mancata che sia, e invece è altro. Quando si potrebbe anche essere un po’ irritati perchè ormai mancano pochissime pagine e non ce ne possono essere abbastanza per una spiegazione plausibile, e ci si rassegna all’ennesimo “finale aperto”, le ultime quattro righe – quattro righe quattro – dicono quanto basta, ed è necessario.

Mi ha richiamato l’ultima pagina de “L’amico ritrovato”, di Fred Uhlman. L’essenzialità, senza oscurità, è privilegio di pochi. Cercherò altro, di Patrik Modiano.

Via Ripetta 155 (Clara Sereni)

viaripetta155Le manifestazioni piene di speranze di migliorare il mondo, lo scivolamento – troppo tardi avvertito – ad altro, il fumo dei lacrimogeni e l’aria pesante di fumo delle case, questo è reso al meglio nella verità di quegli anni.
La libertà degli amori, o piuttosto dello scambio facile, o meglio non appesantito da eccessive implicazioni energetico affettive, questa non sono sicuro che fosse davvero così leggera come viene proposta. Le gelosie potevano pure essere polical uncorrect ma tali erano, devastanti come ogni sentimento represso.
La parte di Clara Sereni che a me esce più vivida da queste pagine è la tenacia la forza di volontà la capacità di ottenere o meglio conquistare: una casa al centro di Roma, un’autonomia economica, un posto nella letteratura. Meglio ancora: guadagnarsi qualsiasi cosa importante con fatica ed impegno e rigore.
E il giusto orgoglio di essere passata per il lavoro di dattilografa, e per essere stata brava, anche molto brava, a livelli di eccellenza, in quel lavoro.
L’autoironia, sempre presente. Eppure autoironia non è la parola giusta. Distacco, forse? E nemmeno basta. E nemmeno è vero: non c’è distacco, no. Forse non c’è una parola unica per rendere il senso della partecipazione forte ai fatti raccontati e della distanza da cui vengono raccontati. Come da chi sia oltre.
Questo essere, o vedersi, oltre, è ciò che forse autorizza a chiamare ciascuno con il proprio vero nome (il cognome è sottinteso ma chi sa lo sa). Questo a me è sembrato superfluo, qualche volta non di buon gusto.
Non lo faccio mai, prima di scrivere di un libro, ma stavolta ho letto alcune recensioni. Sono rimasto sorpreso che in nessuna recensione, in nessuna intervista ci siano state considerazioni o domande sulle persone vere che abitano il libro. Citto Maselli ad esempio – “che stai scrivendo?” – di cui l’autrice è innamorata per anni, e con il quale anche la madre sembra aver avuto una relazione. Mi chiedo quale sia il senso di averne accennato di sfuggita, visto che non c’era l’intenzione di coglierne, nella scrittura, la drammaticità.
Questo essere oltre, mi dico, forse non è davvero così oltre.
“Colpevolmente”, nell’ultima frase, può essere letterariamente bello, ma a me è suonato stonato. Parte di quel dolore razionalizzato ma non redimibile, che rende così difficile collocarsi davvero oltre.
Clara Sereni non considera Via Ripetta 155 fra i suoi libri migliori, ma non le date retta: si tratta di snobismo.

Terre rare (Sandro Veronesi)

Torna il protagonista di Caos calmo, ma è un espediente di cui mi sfugge la ragione, perchè il Pietro Paladini di Terre rare a me pare un’altra persona, bel al di là della diversa scelta di vita e lavoro.
Si legge volentieri, la trama fa venire voglia di proseguire, i personaggi “si vedono” mentre si legge.
Non so bene: ci sono libri dei quali, ciascuno a proprio modo, si avverte la necessità, e ci sono libri ben scritti. Terre rare è un libro ben scritto.
Mi è sembrato particolarmente debole il personaggio della compagna del protagonista, liquidata con troppa facilità.
Infine c’è l’elemento simpatia per forza: questo Pietro Paladini, anche quando si comporta male è subito lì pronto a dirsi e dirci quanto si è comportato male e come ne sia consapevole, e insomma mi piace poco che lo scrittore conduca chi legge a trovare irrimediabilmente il suo protagonista comunque simpatico.
Resta una lettura piacevole, che non mi ha smosso granchè.

L’immortalità (Milan Kundera)

Riletto dopo tanti anni.
Dopo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” Kundera non ha più scritto veri e propri romanzi, o almeno non più nel modo classico.
“Il romanzo non deve somigliare ad una corsa ciclistica, bensì ad un banchetto con molte portate”, scrive, lasciando come soavemente scivolare, tal quale il leggero movimento della mano della donna che fa da incipit, proprio il suo romanzo più famoso.
Di Kundera amo l’amarezza profonda che accompagna una passione contenuta e però forte e sempre presente. E l’ironia distaccata che colpisce con una punta così accuminata che te ne accorgi solo dopo che ti ha penetrato il fegato a fondo. E l’amore per l’Europa che ha potuto conoscere dal centro geografico politico e culturale, come chi è vissuto fra Praga – per nascita – e Parigi – per scelta obbligata, e come chi ne vede la grandezza passata e l’ineluttabile declino presente.
La storia sono tante storie, cucite che non sembrano collegate quando un nome buttato là ti rivela che quel nuovo personaggio è proprio quello o quella tale di cui capitoli dietro e anche se puoi fare fatica a ricollegare proprio tutto sai che le connessioni ci sono, sono profonde e ti restano comunque dentro.
Appaiono anche Goethe, Beethoven, Hemingway e sono – senza tempo – fra i personaggi di oggi, come se ne avessero già catalogato da tempo ogni sentimento.
Mi accorgo che quanto ho scritto finora può valere per tutto Kundera, ed in effetti è l’autore che ho letto di più, di cui ho letto tutto più volte, e leggerlo mi dà un piacere non esprimibile fino in fondo a parole.
Continuo e rileggerlo, infatti, sapendo che troverò ogni volta qualcosa di nuovo.

Il cardellino (Donna Tartt)

Una bella storia, ben raccontata.
Il cardellino è un piccolo quadro di un autore fiammingo, che il protagonista sta ammirando in una mostra, sapientemente guidato, nell’osservazione, dalla mamma, quando….
Le prime cento pagine si leggono d’un fiato, Donna Tartt è di quelle scrittrici che ti fanno sentire l’odore della polvere.
Il cardellino, comunque al centro delle molteplici vicende, mi ha ricordato la palla da baseball di De Lillo in Underworld. L’oggetto che attira gli avvenimenti, li piega, li produce, li scansa.
E la relazione fra due bambini che si ritrovano uniti dalla stessa tragedia, e poi negli anni si rincorrono a loro modo, ha qualcosa de “La Solitudine dei numeri primi”.
Un difetto è la ridondanza. Eppure le tante pagine anche “in più” sono quelle che fanno durare qualche sera ancora il rapporto con i personaggi a cui ti affezioni.
E poi quello che a me è parso un eccesso proprio quantitativo di sballi da droghe alcool impasticcamenti, non sempre necessari nelle descrizioni troppo puntuali, quasi da manuale del piccolo drogato.
Una storia così lunga, che accompagna il ragazzino dodicenne delle prima pagine fino ai circa trent’anni, ha bisogno di qualche colpo di scena, e non ne mancano. Ma le morti improvvise – manco fosse un film di Ozpetec – sopravvengono a freddo, se ne avverte la funzione di sostegno alla storia più che la intrinseca necessità stilistica.
Il finale – l’atmosfera nebbiolosa di Amsterdam è quella (lì a Bruges) de “La coscienza dell’assassino” – è travolgente come un film d’azione americano di quelli fatti bene.
Ma attenzione: la sostanza c’è ed è lo spessore di ciascun personaggio, che emerge dai rispettivi vissuti, senza che ci sia mai il bisogno che l’autrice ci dica “come è” Tizio o Caio.
Il finalino – ormai i romanzi hanno tutti la struttura della sceneggiatura – invece ci poteva essere risparmiato: le considerazioni cosmiche dell’autrice posso condividerle ma non aggiungono sostanza al romanzo che già ne straborda di suo.
Comunque: da leggere, e domani vado a cercare i precedenti di Donna Tartt (ma che razza di cognome è?).

PS non è forse irrilevante aggiungere che per la prima volta ho letto un romanzo su Kindle.
Beh, mi dispiacerà ma – in generale – il libro in carta è da considerare morto a brevissimo, resterà solo per edizioni preziose o per chi non saprà rinunciare a com’era bello prima, come i patiti del vinile per i dischi, e sarà anche disposto a spendere – fra un paio d’anni, direi – tre o quattro volte tanto.
Oggi (14/09/14) ho preso in mano per la prima volta “Il cardellino” in libreria: sono circa 900 pagine, sarebbe stato scomodissimo da leggere al letto ma anche sul divano. E, sempre oggi, ero intenzionato a comprare “Il conte di Montecristo”, che non ho mai letto, ma di fronte alle 1.000 pagine scritte piccolissime mi sono detto che è certo che lo leggerò su Kindle e che, essendo un classico senza più diritti di autore, lo troverò pure gratis.

Ferito a morte (Raffaele La Capria)

Riletto almeno per la terza volta, resta un piacere sopraffino.
Un gruppo di ragazzi di buone famiglie napoletane fra la fine della guerra e gli anni cinquanta, fra mare sole pesca subacquea e ragazze e il circolo nautico dove padri e zii e nonni si sfidano in epiche partite che durano giorni ed in cui possono giocarsi tutto.
E’ una storia di maschi, le donne sono di sfondo, anche se non si tratta di virilità quanto di cameratismo, amicizia, eppure i sentimenti mai sono esposti, sempre sfumati, tutti intorno all’inattualità del protagonista, Massimo, che non riesce nè a sentirsi parte nè a staccarsi.
L’incipit – la spigola mancata perchè l’arpione parte un attimo dopo e Carla mancata non si sa perchè – è fra i più belli io dico della letteratura mondiale.
Non conosco se non superficialmente Napoli, non ho vissuto quegli anni cinquanta, eppure è come se l’aria di quel mondo mi fosse diventata familiare, e mi sento e affezionato e lontano da Ninì, Cocò, Sasà…
Il romanzo è pervaso da un senso di struggimento, in una pagina, forse una e mezza, Glauco, tornato da avventurose ricerche d’oro in Venezuela e traffici d’armi con Cuba, distrugge l’immaginario incantato dei Caraibi mentre sorseggia un caffè sulla piazzetta, dove Massimo inutilmente cerca di rintracciare il fratello Ninì, il più brillante della compagnia, il più ricercato, che sta prendendo il posto dell’inarrivabile Sasà, del quale è destinato a condividere anche l’inevitabile declino.
Infine: la scrittura. Ricca, elegante, complessa quanto scorrevole, che ti fa arrivare l’odore del mare e il rumore dei passi sulla piazzetta di Capri, capace di quegli sviamenti temporali di cui oggi troppi fanno sfoggio senza sapienza.
In realtà non so spiegare fino in fondo perchè è un libro che, senza che ciò sia in alcun modo cercato, prende il cuore di chi lo legge.

Settanta acrilico trenta lana (Viola Di Grado)

Mi avevavo detto “peccato ci sia scritto sulla pagina di copertina che l’autrice ha solo ventitrè anni, sarebbe stato meglio leggere senza saperlo”. Credo che lo avrei intuito: la scrittura è di una donna e di una giovane donna, il che – la riconoscibilità di genere – forse è un primo limite.
Ma sbaglio a partire dai “limiti”, perchè le qualità li sovrastano ampiamente.
La scrittura, soprattutto: inventiva, ricca, padroneggiata con disinvoltura, piegata ai ritmi.
Ecco, il ritmo: il ritmo è costantemente accelerato, non lascia spazio alle introspezioni, le fa dedurre dagli accadimenti – il che considero un grosso pregio – ma così i passaggi, in meno di duecento pagine, a volte risultano ingoiati in fretta.
La storia: un uomo muore insieme con l’amante in un incidente di macchina (mi ha ricordato Film Blu, anche se lì muoiono marito e figlia e l’amante si scopre dopo) e moglie e figlia sono annichilite. Il dolore, diretto e reciprocamente riflesso, le annienta. In una cittadina inglese descritta quasi con violenza nei colori e nelle tetraggini le due donne si isolano in un silenzio in cui ogni sguardo ha un titolo, un significato, come gli ideogrammi cinesi che la figlia studia con un ragazzo cinese in un negozio di vestiti cinesi.
Una pagina d’amore – incompiuto – con ideogrammi fra le più belle che abbia letto. Meno riuscite, mi è parso, altre pagine di sesso. Il rapporto fra i due fratelli cinesi mi è risultato un po’ accozzato, e la resurrezione repentina della madre, con finale che non dico, mi è arrivata poco vera.
Il finale dice “non ti voglio lisciare il pelo, caro lettore”, ma la scrittura dice altro.
Insomma le contraddizioni non mancano, ma ogni romanzo che mi fa venire voglia, e fino alle ultime pagine, di arrivare alla fine è degno di essere letto.

L’ufficiale e la spia (Robert Harris)

L’affare Dreyfus, nella Francia di fine ottocento.
Avevo informazioni vaghe, sui fatti, avevo una reminiscenza del J’accuse di Zola, ne ho ricavato un’informazione completa, circa i fatti, organizzati in un romanzo appassionante.
Un ufficiale francese – Dreyfus, ebreo, e quindi anche l’antisemitismo farà la propria parte – ingiustamente accusato di essere una spia dei tedeschi, condannato con prove false e deportato sull’isola del diavolo (Sudamerica, di fronte alla Caienna) in condizioni disumane, e un altro ufficiale francese che andrà a fondo dei dubbi che, all’inizio casualmente, gli verranno sulla vicenda. E che per questo sarà a sua volta perseguitato.
Ecco un romanzo che non aggiunge niente alla storia della letteratura, che non contiene sperimentazioni, che non ha una lingua elaborata, che non ti sorprende con la frase ad effetto.
Ecco un romanzo.
Quattrocento pagine ben scritte, che scorrono e ti prendono e vuoi leggere ancora per sapere come andrà a finire anche se lo sai già.
E ritrovi e riconosci i burocrati – questi i grandi burocrati della guerra, ma non sono diversi i burocratini – prima ottusi poi disposti a qualsiasi nefandezza pur di mantenere il punto pur di non dover riconoscere di aver sbagliato. Non li ho conosciuti tanto diversi, anche se in – per fortuna – contesti non così drammatici, nella capacità di piegare qualsiasi virgola alla verità pregiudiziale già stabilita.
Un gran bel libro, che mi ha fatto venire voglia di andare a cercare Il conte di Montecristo, che ho solo visto reso per lo schermo, ma mai letto.
E gli altri libri di Robert Harris.

Maschio bianco etero (John Niven)

Una bella sorpresa, uno di quei libri comprati a naso, cioè aprendo a caso e provando a leggere qualche pagina. A volte funziona.
Il protagonista è uno scrittore di successo, ora soprattutto sceneggiatore corteggiatissimo, sciupone in tutti i sensi nato con un talento che è anche la sua maledizione.
La prima metà del libro in America, Los Angeles, alle prese con la solita necessità di concludere una serie di lavori se no il fisco, e la seconda in Inghilterra, da cui proviene, con la ripresa di contatto con la famiglia di origine, la moglie separata, la figlia adolescente.
Situazioni sempre un po’ eccessive, come una via di mezzo fra Bret Easton Ellis – ma senza alcuna efferratezza – e Nick Norby – ma senza la sua leggerezza – e comunque godibile. Secondo me anche Californication ha contribuito ad inspirare.
Sono rimasto deluso dal finale, costruito proprio con la grammatica di finalino e finale, ma sono sicuro che ai più la conclusione piacerà.
Vale la pena leggerlo, credo che cercherò il precedente e, a quanto sembra, più noto, “A volte ritorno”.

Tempo di imparare (Valeria Parrella)

Lo cominci con un leggero fastidio, per la lingua difficile, e dopo poche pagine te lo senti in mano che lo vuoi leggere tutto di un fiato.
Eppure sai che non ci sarà un “finale”.
Eppure non c’è un intreccio, non ci sono personaggi, non il filo di una storia, se non una mamma ed il figlio disabile che non vuole chiamare disabile e nemmeno normale e nemmeno solo figlio e allora capisci che la lingua difficile non è esercizio di bravura ma necessità per dire ciò che non ci sono tutte le parole per dirlo.
E quando lo capisci perdoni qualche sfoggio superfluo (non si dovrebbe dare per scontato che tutti sappiano chi è Chomsky, ad esempio) di cultura e cerchi di collocarlo nella Napoli colta di cui la protagonista è figlia dichiarata.