Il decoro (David Leavitt)

David Leavitt è l’autore dell’ottimo “Il matematico indiano“.

Questo “Il decoro” è una divcrtente e a tratti insopportabile – direi resa volutamente insopportabile dall’autore – descrizione dello stato di totale smarrimento in cui sono caduti un gruppo di amici newyorkesi, intellettuali più che benestanti anche se non straricchi, dopo la vittoria di Trump del 2016.

Mi capitò, proprio ai primi di novembre 2016, di trovarmi ospite di un gruppo di americani che, in occasione del compleanno di qualche loro parente spagnolo, avevano preso in affitto, avendo già votato per corrispondenza, una bella casa nobiliare nel sud della Spagna. La notizia della vittoria di Trump li letteralmente prostrò. Intendiamoci, anche io ero preoccupato e incredulo, ma loro erano proprio persi. Uno scrisse subito su Facebook che chiunque avesse votato Trump glielo facesse sapere che lo avrebbe cancellato dai suoi amici e dalla sua vita.

Ecco, l’ambiente descritto da Levitt mi ha richiamato quella situazione. Qui, al centro delle vicende c’è una casa a Venezia, Italia, che un’amica di Eva deve vendere per necessità e che Eva vuole assolutamente comprare, ora anche per sfuggire al clima irrespirabile del nuovo contesto prodotto dalla vittoria di Trump.  Anche se Eva non ha votato perchè al seggio c’era troppa fila.

Bruce, il marito di Eva, tende ad assecondare, anche perchè si sente in colpa per la giovane amante che non riesce a gestire, i desideri e talvolta i capricci di Eva, ma stavolta la spesa potrebbe essere eccessiva. Anche perchè la casa andrà ristrutturata ed Eva si affida a nessun altro che all’arredatore principe di New York, il quale ovviamente è pieno di impegni.

Altre vicende e personaggi scorrono, con dialoghi sempre gustosi, come quando Eva confida la sua preoccupazione a un’amica per lo stato di agitazione dei loro cani che, da quando Bruce li porta a spasso insieme ai cani del vicino Alec, che ha votato Trump e ha fatto addirittura una festa proprio davanti a casa loro, hanno assorbito le energie negative che il vicino ha trasmesso ai suoi cani.

Alec, nel chiacchierare con Bruce, gli dice voi democratici siete come quei pazzi che si prendono una jena come animale di compagnia e poi, quando la jena vi strappa la faccia a morsi, la vostra preoccupazione è che potrebbe non darvi una seconda possibilità di conviverci: campate male perchè trasformate la vostra paura in colpa!

Insomma, credo che renda bene un certo ambiente, probabile brodo di cultura, immagino, delle parti eccessive del metoo e della cancel culture. Un libro godibile, infine.

Due vite (Emanuele Trevi)

Premio Strega 2021, centoventi pagine che scorrono, letto in un pomeriggio.

Non conoscevo, prima di leggere questo libro, nè Rocco Carbone nè Pia Pera, i due amici dell’autore – le due vite – di cui il libro parla. Rocco Carbone è stato uno scrittore di cui sono stati pubblicati alcuni romanzi, Pia Pera un’apprezzatissima traduttrice, sopratutto dal russo. Per la verità, prima del premio, non conoscevo nemmeno Emanuele Trevi.

I due amici sono morti prima di quando sarebbe giusto morire, uno per un incidente in motorino e l’altra per una malattia degenerativa che non lascia scampo. Le due vite si alternano parallele, se ben ricordo in una sola circostanza i tre amici si trovano tutti e tre insieme, e dunque si tratta del racconto, più che di un terzetto di amici, come avevo immaginato, di due amicizie dello scrittore, che hanno avuto disgraziatamente in comune, e dolorosamente per chi ha loro voluto bene, una morte prematura.

Ci ho trovato, tuttavia, poca vita e molta letterature, come se le due esistenze di cui si parla si risolvessero in larghissima parte nelle loro opere, nelle opere alle quali si sono accostati, e nelle opere che a mano a mano, episodio per episodio, si associano all’esperienza di chi ne ha scritto.

Purtroppo, quando la vita vissuta traspare dalle pagine non arriva – a me non è arrivato, anche se lascio aperta l’opzione che si sia trattato di pudore da parte dell’autore – quel soffio di commozione, di sentimento che ci si potrebbe aspettare dal racconto di amicizie dichiarate così profonde.

Non è un romanzo, risulta piuttosto una specie di parziale autobiografia per interposte persone. Sono meravigliato che gli sia stato assegnato il più prestigioso premio letterario italiano; ho immaginato che i giurati siano stati sedotti dal fatto che, alla fin fine, si parli del loro mondo, di persone che probabilmente tutti hanno conosciuto e apprezzato. Un po’ come quando i critici cinematografici osannano film anche mediocri ma che hanno il merito di trattare di cinema.

Una lettura piacevole, poco più.

La città dei vivi (Nicola Lagioia)

Una brutta storia del 2016, quella raccontata ne La città dei vivi da Nicola Lagioia: due ragazzi, Manuel e Marco, per due giorni torturano e infine uccidono, in un appartamento di Roma, Luca, che conoscevano appena.
Un delitto insensato, senza movente, fa particolarmente orrore, appare più disumano che altri delitti.
Non c’è nessuna indulgenza sui particolari di quei due giorni, c’è uno scavare, con attenzione e comunque rispetto, nelle vite dei due carnefici e della vittima, c’è il tentativo di entrare in contatto con i loro mondi.
C’è il tentativo di entrare in contatto con l’umanità, comunque, della ferocia e della noia, di non scansare i mostri perché altro da noi.
Tentativo, credo, riuscito. L’autore ha sentito la necessità di esserci, e per questo di scrivere in prima persona. Avrebbe potuto fare altre scelte, ma fin dall’inizio ci fa sapere di essere stato toccato personalmente dalla vicenda, per fatti lontani anche se, nel loro contenuto, non paragonabili. Ma sotto ci sono, anche se non del tutto esplicitate, le domande “se si fossero presentate circostanze particolari, potrei esserne stato protagonista anche io, allora? Potrei domani?”.
Domande rivolta a sé stesso, e questo gli dà legittimità e forza per proporle a chiunque legga. E io credo che ciascuno possa ritrovare, nella memoria, situazioni vissute. Questa è la ragion d’essere, credo, di un libro così difficile. Dove parlano amici, parenti, vengono ricostruite circostanze, dove attraverso i racconti di chi li ha conosciuti, di chi li ha cresciuti, i tre protagonisti acquistano forma e dimensione.
È un libro i cui protagonisti sono uomini. Le donne presenti sono figure di contorno rispetto alla narrazione. D’altra parte, non credo esistano esempi di donne che seviziano qualcuno fino alla morte. Dunque, è il maschile che deve interrogarsi. Così come ne “La scuola cattolica” che, scavando nel delitto del Circeo, decostruisce spietatamente, e ne mostra le viscere aperte, un sistema educativo, un quartiere, il genere maschile.
Roma non ne esce bene, ma nemmeno la Puglia ne usciva bene, anzi, ne “La Ferocia”, e la letteratura o fa venire dubbi oppure a che serve scrivere?
A trovarci un difetto, l’inutile storia parallela del turista olandese, mero espediente per aprire e chiudere, secondo me del tutto superfluo. Continuo ad apprezzare la scrittura di Nicola Lagioia e il suo modo di intendere l’impegno civile anche nella scrittura.

L’angoscia del re Salomone (Roman Gary)

A proposito del bisogno di aver bisogno degli altri

Questo romanzo, come il precedente “La vita davanti a sè“, uscì firmato da Emile Ajar. Con questo stratagemma Roman Gary vinse per due volte – il regolamento lo avrebbe vietato – il premio Goncourt. Si dev’essere divertito un sacco, visto che il segreto è riuscito a portarselo nella tomba.

Come nel precedente, il protagonista è un outsider, che parla una lingua tutta sua con la quale pronuncia inconsuete verità: Jeannot è stato ingaggiato da Salomon, un vecchio di ottantacinque anni, ricco di trascorsi industriali, come tutto fare; Salomon sostiene un centro – una sorta di telefono amico – e qualche volta è lui stesso, la notte, a rispondere alle telefonate dei disperati, perchè, dice Jeannot, “…la notte si sente maggiormente angosciato e appunto quando è più solo ha bisogno di qualcuno che abbia bisogno di lui.”

Sembra aver imparato la lezione che Salomon gli ha dato quando si sono conosciuti: “… che si sono sempre sentiti sfigati e respinti e che si rifanno diventando psichiatri e si occupano dei giovani drogati e dei poveri disgraziati e si sentono importanti e sono molto ricercati e circondati da ammirazione…

La vicenda centrale è tuttavia una triangolazione che si snoda, con la mediazione del centro di assistenza telefonica, fra Salomon, Jeannot e Cora, una anziana cantante che ha avuto un breve momento di gloria negli anni della guerra.

Scopriremo strada facendo perchè Cora non ha potuto proseguire una carriera che sarebbe potuta essere importante, scopriremo quale relazione c’è stata fra Salomon e Cora, quali segreti nasconde, vedremo quali saranno i modi, in parte casuali, in parte orientati, con i quali Jeannot e Cora si avvicineranno.
Un libro delizioso.

Tempo di uccidere (Ennio Flaiano)

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate, e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri esserne mai del tutto consapevole.

Un camion rovesciato su una strada polverosa dell’Etiopia degli anni trenta, quelli dell’Italia ha un impero.

Il giovane tenente, dopo aver aspettato che passi qualche camion, si stufa, lascia lì il soldato che lo accompagnava e si avvia ad attraversare una valle che lo porterà dove corre una strada più frequentata.

Il protagonista potrebbe essere uno dei personaggi di Joseph Roth – di altra epoca e altre ambientazioni – con i quali sembra avere in comune una cupa neghittosità che lo porta a non stare mai davvero in contatto con il mondo che lo circonda, a sfidarlo e a ritrarsene ma sempre in modi che appaiono casuali anche quando sembrano meditati

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri essere consapevole di che cosa gli succede intorno e che cosa producono le sue azioni.

Così vaga, fra boscaglie infide di iene e fetore di carcasse di muli, fino a una città portuale dove le vie d’uscita non si trovano.
Tornerà alla base? La sua assenza è stata notata? Sarà sanzionata?
Tutto scorre con sullo sfondo le atrocità verso i guerrieri africani, le piccolezze quotidiane di chi si trova a esercitare un briciolo di potere lontano dall’esistenza di fame in patria.
La vicenda del protagonista sembra parallela e in qualche misura simbolica rispetto a quella dell’avventura africana di un esercito comandato da cialtroni tanto male equipaggiati quanto feroci.

Alla fine cammina a fianco di un sottotenente e sente l’odore della pomata per capelli di quello: “... dal profumo delicato, infantile, ma il caldo la stava inacidendo. Una pessima pomata, che il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva“.

Queste, sopra, le ultime parole del romanzo, che ne restituiscono in pieno l’atmosfera.

Diceria dell’untore (G. Bufalino)

Una scrittura unica, un gorgo che ti attira e non ti lascia.

La scrittura.
Per leggere un libro di Bufalino bisogna innamorarsi della sua scrittura.
Me ne sono innamorato con “Le menzogne della notte”, ed ecco qui il più famoso “Diceria dell’untore”.
È una storia, se vogliamo banale, di un amore e di competizione per una donna all’interno di un sanatorio per malati di tubercolosi. Qualcuno morirà, qualcuno è già morto e non lo sa, o lo sa, qualcuno si salverà.

Qualche assaggio, perchè non riuscirei a renderne la grandezza.

“Si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili”

Il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, ma stringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini a rompersi contro la sciara, dovunque fa mulinello, e le illude, un inesistente palpito d’acqua.”

“Avevo più letto libri che vissuto giorni, nel mio così fuggitivo, così inefficace passaggio lungo le stradde degli uomini.”

“Voglio cercarmi un bambino per la strada… Gli darò uno schiaffo, gli dirò un’oscenità, una bestemmia di quelle che non si scordano. Voglio durare cinquant’anni ancora dentro di lui.”

“… nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritardarlo di un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto.”

In generale, non amo questo tipo di scrittura ridondante, non vorrei mai scrivere così. Ma dalla scittura di Bufalino sono affascinato, come da un gorgo che ti attira e non ti lascia.

Il libro varrebbe la pena averlo, per chiunque scriva, anche solo per l’appendice finale, aggiunta in questa edizione: c’è l’indice dei “Temi”, fatto dall’autore, c’è la spiegazione delle scelte di scrittura, ci sono note quasi per ogni pagina. Non per caso lo cominciò a scrivere negli anni cinquanta e fu pubblicato nel 1981. Per me, un grande della nostra letteratura.

I vagabondi (Olga Tokarczuk)

“La Polonia … è scomparsa dalle cartine geografiche dell’Europa per più di 100 anni con le spartizioni, e poi occupata dai nazisti e dai russi… Spariamo e ricompariamo, e non ci fidiamo di ciò in cui ci viene detto di credere”

Romanzo? Non è un romanzo, ma poco importa. D’altra parte nemmeno lo si sarebbe potuto definire una raccolta di racconti, anche se ci sono dentro almeno due, tre racconti molto belli.

Una serie di impressioni di viaggio fra aeroporti, treni, incontri occasionali, metropolitane.

Eppure l’autrice riesce, e senza fornire appigli di collegamento, a mantenere amalgamate le storie che racconta. Oltre al tema del viaggio, la conservazione dei corpi dopo la morte: il cuore di Chopin trasportato dai suoi amici; lo schiavo nero diventato il confidente saggio dell’imperatore e, dopo morto, le struggenti lettere della figlia all’imperatore, affinchè cessi quella barbarie di esporlo impagliato come un fenomeno; la donna che vaga per la metropolitana e incontra una barbona che ha una sua storia; moglie e figlio che scompaiono per due giorni durante una vacanza e, anni dopo, il marito/padre che ancora chiede alla moglie come sono andate le cose.

Sarei molto curioso di sapere come ha deciso l’ordine in cui ha disposto i capitoletti. Per esempio, il racconto più lungo, di moglie e figlio che scompaiono, è esposto in tre parti diverse, riconoscibili dallo stesso titolo: prima dieci pagine e poi altre sedici con in mezzo solo un paio di capitoletti di mezza pagina, infine ripreso duecentocinquanta pagine dopo. Perchè duecentocinquanta e non cinquanta o cento o duecento? E tutti gli altri “titoli”, piuttosto brevi, ha un senso che siano collocati dove stanno o è puramente casuale?

Già porsi queste domande esclude che di romanzo possa trattarsi e che abba una struttura. Eppure, chiamatelo come vi pare ma leggetelo, perchè ne vale la pena.

L’autrice ha originariamente studiato psicologia e qui si è inventata una “psicologia del viaggio” che fa capolino qui e là fino alla fase chiave: “qualunque sia la destinazione, si viaggia sempre in quella direzione. Non importa dove sono, non fa differenza. Io ci sono.”

 

 

Lacci (Domenico Starnone)

Un libro disperato.

Lo capisco, definirlo “disperato” può non attrarre, e tuttavia vale la pena leggere questo ultimo romanzo di Domenico Starnone.

Ne lessi, e rilessi – uno dei libri più divertenti che io abbia incontrato – “La scuola”, agli esordi, poi uno o forse due altri romanzi che non mi hanno lasciato traccia; questo “Lacci”, invece, mi ha colpito per il pessimismo cosmico che trasmette, vestito di uno stile sempre accattivante e piacevole.

Una coppia va in crisi: lui si è innamorato di una ragazza più giovane e vuole viversi questa esperienza. Niente di più banale, eppure i bei romanzi non sono dati dal raccontare storie nuove, ma dal come vengono raccontate. E Starnone sa raccontare, sa tenere l’attenzione viva, la curiosità sveglia.

Ci saranno evoluzioni, naturalmente, che qui non racconto. Ci sono, oltre a marito, moglie, amante di lui, due figli, che da bambini patiscono l’assenza del padre e da adulti si confrontano sulle identità dei genitori, e infine un gatto, con un suo ruolo nella narrazione.

Benchè il finale sembri aspirare a trasmettere un senso di vitalità e spensieratezza, non si salva nessuno. L’impressione è che l’autore non li sopporti proprio, i suoi personaggi, come se il suo approccio allo stare al mondo avesse esaurito tutte le energie a cercare di capirlo e ci avesse rinunciato, senza essersi arreso al fatto che, “capire”, non si può.

“Se tu te lo sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie“. Questo è l’incipit-

Ti mostri affettuoso e intantio sfoghi i cattivi sentimenti per vie traverse“, dice la moglie del marito.

“Mio fratello è un uomo finto… sa mimare bene tutti i sentimenti senza mai provarne nessuno”, dice la sorella del fratello, da adulti.

Si legge in un soffio.

Vita e morte di un ingegnere (E. Albinati)

Della vita, non molto; della morte, letteralmente fino all’ultimo respiro; anzi, alla cremazione.

 

Scritto subito dopo “La scuola cattolica“, e da me letto subito dopo, è come se fosse una continuazione. Come se dopo aver esplorato un quartiere borghese, una scuola privata, un delitto che in quell’humus ha preso forma, Albinati abbia deciso di andare in profondità nella vita del padre.

L’autore scrive ancora in prima persona, è lui presente, non si tratta di un romanzo, si tratta della descrizione del padre, del quasi non rapporto con quest’uomo dedito al lavoro, del quale la moglie spera che l’avvicinarsi della morte “porti a galla i tesori sepolti… senza capire che il tesoro era appunto quell’acqua limpida… in fondo alla cui singolare trasparenza non c’era niente che non fosse da sempre visibile a occhio nudo”.

Mi sono chiesto se mi piacerebbe risultare così a un figlio e no, non mi piacerebbe: quella “singolare trasparenza”, che pure fa pensare a una persona “pulita”, senza contraddizioni, la sentirei addosso come un limite.

Il libro – 159 pagine – è diviso in due parti, quasi paritarie, ma anche se della malattia e della morte si tratta nella seconda parte, malattia e morte sono presenti in tutto il racconto. A me è rimasta impressa con forza la descrizione puntigliosa, dotata di una pietas tenuta a bada da un intelletto poco incline alle sbavature emotive e che tuttavia arriva al lettore, che si chiede – io mi chiedevo – ma ne avete tutte le possibilità, perchè non lo fate morire in pace?

La risposta ci viene data, anche se la domanda nel testo non è posta, e sono quei piccoli gesti che possono essere scambiati, senza poterne essere certi, per attaccamento alla vita, e ai quali non può essere negato valore.

Accompagnamo così l’ingegnere nelle riprese, nelle ricadute, in alcuni trattamenti quasi sicuramente inutili, talvolta dolorosi oltre che inutili, funzionali probabilmente solo al profitto della clinica, fino alla morte nel letto di casa, con i cari vicini ma senza che riesca a godere della loro presenza mentre qualcuno, di sicuro l’autore, cerca, e forse riesce, a beneficiare fino all’ultimo respiro del padre, anche se non sembra riuscire a riconoscerne il sapore.

Difficilmente saremo sollevati dal doppio arcobaleno che si staglia sulla Flaminia mentre la famiglia torna a casa dopo la cremazione.

 

La scuola cattolica (E. Albinati)

Attraverso un quartiere, una scuola, un delitto, un’analisi del maschile, da dentro.

Tre sigle percorrono questo romanzo di più di mille e quattrocento pagine: QT, SLM, DdC.
Rispettivamente, il quartiere Trieste, il san Leone Magno, il delitto del Circeo.

Anni settanta, tre ragazzi incontrano due ragazze, le portano in una villa sul Circeo, le seviziano per due giorni fino a ucciderle. Le mettono nel portabagli della macchina e tornano a Roma a prendersi un gelato. Una delle due ragazze però ha solo finto di essere morta, batte dall’interno del portabagli, qualcuno la sente, viene salvata, due dei tre ragazzi vengono immediatamente arrestati, del terzo non si saprà più niente fino a oggi.

Ci arriviamo dopo più di quattrocento pagine. In realtà, le pagine sui fatti dei delitti – ce ne sarà un altro – sono davvero poche e senza mai che si indulga in quel genere di descrizioni che fanno la fortuna della cronaca nera dei giornali.

Sono nato in quel quartiere, so dov’è il SLM anche se non l’ho frequentato ma sono stato in un collegio gestito da religiosi, conosco quel clima, quel genere di persone perchè, dopo aver abitato altrove, ho lavorato lì vicino e i miei figli hanno frequentato un asilo del quartiere e poi le elementari a Villa Paganini.
Albinati mi ha restituito in pieno quel clima, con in più una quantità di sfaccettature le più diverse.

L’autore ci è nato, ci è vissuto, ha frequentato il SLM e ha conosciuto gli autori del DdC, i loro fratelli e sorelle, gli amici, i genitori, gli insegnanti. Ha sentito il bisogno irrefrenabile di scrivere quando uno dei tre, dopo aver scontato anni di galera ed essere uscito per buona condotta in semi libertà – era diventato consulente psicologico – aveva ammazzato due donne, madre e figlia, la figlia di quattordici anni. Di nuovo senza alcun motivo che lo posso fare, lo faccio.

Eppure non è la riflessione sui delitti il centro del libro. Ne è invece lo spunto per un’analisi profonda, molto profonda, del mondo maschile, in un percorso a spirale con le curve che si allargano sempre di più fino ad abbracciare, in questa ricerca, la borghesia, la classe media, la religione e la sottile arte di rovesciare il senso comune per cui, per dirne solo una, chi muore passa a miglior vita.

Due capitoli, in particolare, dicono del grande scrittore.

Dopo aver fatto complessi ragionamenti sulla quasi ineluttabilità genetica del maschio a essere stupratore e assassino, un capitolo descrive una scena di sesso, bella, vera, alla fine della quale “Le sue natiche rilucevano chiare nel buio, e lei sembrava morta, non si muoveva più, non respirava.“.

Sul finale, l’autore bambino in settimana bianca si ammala, un prete amorevole se ne prende cura, noi vediamo come se ne prende cura ma non sappiamo come se ne prende cura.

L’autore – presente in prima persona nel romanzo – non si fa sconti, ma davvero non se ne fa, non come quelli che si trattano malissimo mentre strizzano l’occhio al lettore: visto, come sono del tutto trasparente anche nel peggio di me?

Sembra spietato, verso i suoi personaggi / persone, tranne che verso la famiglia Rummo, della cui tragedia racconta in un altro bellissimo capitolo, e che ritrova sul finale, alla messa di natale di mezzanotte,  che gli dà l’occasione di concludere il romanzo con una parola inaspettata, che qui non rivelerò.

Non è una lettura leggera, ma è una lettura che prende, che fa venir voglia di andare avanti perchè è vero che sta esprimendo lo stesso concetto ma lo sta facendo con parole nuove, con sempre un aggiunta di significato, un approfondimento marginale ma vero. È uno di quei libri che quando lo hai finito ti lascia la nostalgia di un’esperienza che è passata e che è stato così bello viverla.

I maschi dovrebbero leggerlo per specchiarvisi, come ho cercato, non senza difficoltà, di fare, le donne dovrebbero leggerlo per imparare qualcosa sul maschile e poterlo, qualche volta, compatire.

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Il disperato bisogno di senso, tipico del romanzo, trionfa nelle conclusioni che noi tiriamo sul nostro passato,
fornendo un alibi fantastico per qualsiasi cosa sia accaduta ma anche per quelle che debbono ancora accadere; in
fondo la letteratura è un’assicurazione sulla vita per abbandonare il tentativo di costruirsene una diversa, di
costruire un altro me stesso migliore o più coraggioso,

È questo, sempre, ogni romanzo: la narrazione di un’infelicità.