Un grande gelo (Arnaldur Indridason)

Ancora un giallo dal nord, stavolta dall’Islanda. Un bambino di madre thailandese e padre islandese viene trovato morto nel parco. E’ stato ucciso con un’arma da taglio. Questo nelle primissime pagine, non rivelo niente.

E’ l’occasione per restituirci le tensioni razziali, e intanto io penso che cosa spingerà qualcuno, dalla Thailandia, a scegliere come meta proprio l’Islanda? Eppure pare che i thailandesi siano una componente importante dell’immigrazione di lì. Qui, ad esempio, non se ne sente parlare.

È un libro di quelli che procedono stancamente fino a metà e poi prendono corpo e sostanza. L’elemento che domina è la stanchezza, che si sovrappone alla mia di sapere già come andrà a finire, non perchè io abbia “scoperto l’assassino”, ma perchè il poliziotto è solo, con un rapporto difficile con i figli, umano e disulluso, sopraffatto dalla miseria umana con cui è costretto a misurarsi eppure deciso a venire a capo di ogni singolo caso che gli si presenta.

Altro elemento significativo è lo spaccato degli adolescenti, dei rapporti tra di loro, con i genitori, con gli insegnanti.

Se non è una leggenda metropolitana che nei paesi scandinavi c’è la maggior percentuale di suicidi in rapporto alla popolazione, beh allora questo libro aiuta a capirne alcune ragioni.

Prima o poi comprerò qualche altro libro di Arnaldur Indridason.

Sonata a Kreutzer (Lev Tolstoi)

Chi non ha, almeno una volta nella vita, sognato di uccidere la moglie (o il marito, fidanzato/a, etc)? Magari ne ha solo desiderato la morte, per non dover prendere la decisione di lasciarlo/a?

Sonata a Kreutzer è la storia di un uxoricidio effettivo raccontato dall’assassino – assolto perchè il tribunale riconoscerà che aveva agito per motivi di onore – ad un passeggero incontrato casualmente in treno.

Ho letto abbastanza sconcertato: tutta la prima parte è un concentrato di luoghi comuni sul matrimonio tomba dell’amore e sulla misogenia: “…chi fa la prostituta per un periodo di tempo limitato viene disprezzata da tutti, e chi lo fa per periodi più lunghi gode del massimo rispetto.” Vero è che non conosco i costumi russi del periodo, e quindi non sono in grado di valutare se quelli che oggi mi appaiono luoghi comuni allora potessero essere letti come concetti  avanzati.

Un primo effetto, comunque, è un sospiro di sollievo: un po’ di strada verso un mondo più civile l’abbiamo fatta. Poi mi è venuto un dubbio: forse Tolstoi non si identifica con il protagonista, e lo vuole ridicolizzare. Dal tono dell’insieme mi pare poco probabile, e l’impressione che mi resta è quella di un alter ego che sfoga nella scrittura ciò che non mette in pratica per motivi morali, sociali o che so io.

Dunque, la prima parte è la descrizione dei disastri del matrimonio.

Nella seconda, inopinatamente, irrompe invece una gelosia – che a me pare tanto irragionevole quanto lontano affettivamente il protagonosta si sente dalla moglie – che porterà alla tragedia finale. Tale irragionevolezza mi ha fatto considerare l’ipotesi che il tema del racconto sia non tanto la donna e il matrimonio quanto dove possono portare sentimenti non controllati dalla ragione.

Forse in queste diverse, tutte possibili chiavi di lettura, sta la grandezza del racconto, che mi sono goduto anche per alcuni particolari perfidi, come, nelle pagine finali: la preoccupazione del marito assassino, mentre sta sventrando la moglie, di non risultare ridicolo se corresse dietro al rivale a piedi scalzi e, poco dopo, mentre medita se usare contro di se la pistola, l’attenzione ad infilarsi almeno le pantofole quando lo avvertono che la polizia sta arrivando.  

La trama del matrimonio (Jeffrey Eugenides)

Quasi cinquecento pagine che scorrono, scorrono. Scorrono senza picchi e senza banalità, civettando tra i “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes e le atmosfere – sempre esplicitamente citate – da Jane Austin.
Potrebbe anche bastare, per giustificarne la lettura.

La descrizione di un amore in cui uno dei partner è affetto da disturbo bipolare – alternanza di periodi di depressione e di eccitato iperattivismo – è forse la parte migliore. A me è sembrata molto molto credibile. Vicina alla realtà. Che pure, per fortuna, non ho avuto occasione di incontrare.
Uno degli elementi che mi dicono di un libro hai fatto bene a leggerlo è quando sei vicino alla fine e hai voglia, proprio voglia, di sapere come va a finire.
Perchè i romanzi, come la vita, finiscono. E non è l’ultima delle ragioni per cui amiamo tanto leggerli.
Bene: il piacere maggiore mi è venuto proprio dalle pagine finali, in cui scivola una soluzione piana, con una propria bella coerenza che non si può dire inaspettata ma nemmeno attesa.

Bambini nel tempo (Ian McEwan)

Una delle sceneggiatrici de “La stanza del figlio” (Nanni Moretti), nel raccontare l’evoluzione della sceneggiatura si chiedeva: “che cosa c’è di più terribile della morte di un figlio?”. La risposta fu “che tu, padre, te ne ritenga causa”.
In “Bambini nel tempo” il protagonista – avviene nelle prime pagine quindi non svelo nulla per chi non lo avesse ancora letto – “perde” la figlia di tre anni in un supermercato: arriva alla cassa, si gira, e la bambina semplicemente non c’è più.
Ho pensato che forse l’ignoto, al contrario della morte, lascia una speranza. E, dall’altra parte che, per quanto estrema, la ferita da una morte si può rimarginare, mentre quella da una scomparsa continuerà a sanguinare per sempre.
I libri di Ian McEwan hanno in comune eventi improvvisi che irrompono nella vita di una persona e ne stravolgono l’esistenza. Fa forse eccezione Chesil Beach.
In comune con “Chesil Beach”, “Bambini nel tempo” ha la straordinaria capacità di restituire l’intensità dei sentimenti che, con tutta la loro forza e contradditorietà. attraversano le persone.
C’è anche una sorta di storia parallella – una coppia di amici che improvvisamente, nel pieno di una carriera travolgente, si trasferiscono in un posto sperduto in campagna – anche bella ma che non aggiunge niente al dramma di un uomo e una donna che non sanno come ritrovarsi dopo la scomparsa della figlia. Rispetto a questo, il più recente “Chesil Beach” ha invece raggiunto l’essenzialità.
Entrambi da leggere, senza riserve.

Questa è l’acqua (David Foster Wallace)

Racconti. Mi rendo conto, a distanza di una decina di giorni da quando ho finito di leggerli, che di nessuno ricordo la trama.

Di tutti ricordo i personaggi, le atmosfere, le situazioni.

I racconti di David Foster Wallace una trama ce l’hanno: è che a me è rimasto impresso altro: una scrittura movimentata, allusiva e descrittiva insieme. Con tutta la gamma dall’ironia al sarcasmo.

Ecco qua: “Onassis, sul suo yacht …. rimugina davanti a un succo di sedano nell’angolo bar, seduto su uno sgabello di teak. Il sedile dello sgabello e la superficie del bancone sono rivestiti di raffinatissima pelle grigiazzurra ricavata dallo scroto di capodoglio sotto la supervisione personale della signora O. Onassis gira i cubetti di ghiaccio con il grosso dito.”

Da rileggere, prima o poi.

Il clan dei Mahé (George Simenon)

Una gran fatica, arrivare alla fine. Sconcertante. A voler trovare un tema, un senso: un  medico trascinato da una passione che nemmeno è una passione per una adolescente appena intravista con la quale nemmeno parlerà mai. Una vita monotona che trova un’occasione per rigirarsi… sì, le atmosfere sonnacchiose di una provincia francese umida, ma che altro? Mi ha veramente detto poco, ma forse sono io a non aver trovato.

Cavalli selvaggi (Cormac McCarthy)

Dialoghi secchi. Paesaggi che sembra di uscirne impolverati dal deserto e con gli occhi pieni pieni di colori e odori.

Non tutto si chiude, quindi più come nella vita che come nei romanzi. L’amicizia fra due ragazzi poco più che ragazzini è il tema di tutto il romanzo, come l’amore tra padre e figlio lo era in “La strada”. Il viaggio, il superamento delle difficoltà. Le ingiustizie. Bello, intenso, non consolatorio.

Racconti di Cechov

Finito di leggere Le Carrè, privo stavolta di quel piccolo capitale di libri nuovi che di solito mantengo e reintegro a mano a mano, mi aggiro per  le mensole e scovo una raccolta (con Repubblica di qualche anno fa) di racconti di Cechov.

Confesso la mia difficoltà con i russi: Memorie del sottosuolo e Delitto e castigo letti di recente, La morte di Ivan Il’ic… mi pare nient’altro. Il ricordo che ne ho, soprattutto per  Dostoevskij, è di pesantezza per questa libidine di scavo interiore e per il moralismo di fondo che mi è sembrato di percepire.

Cechov è stato invece una bella scoperta: distacco pur nella partecipazione alle vicende dei personaggi, comunque mai giudicati, leggerezza di scrittura, finali a sospensione.

Perciò, ho scovato “Il gabbiano” – regia per la tv di Bellocchio – e presto me lo guarderò.

Il nostro traditore tipo (John Le Carrè)

m/

Credo di aver letto tutto Le Carrè. Il che, per quanto mi riguarda, è vero soltanto anche per Kundera.

Anche se Le Carrè ha scritto soltanto romanzi di spionaggio (più un giallo, poco riuscito), non lo considero uno scrittore “di genere”, ma un grande scrittore.

Anche ne “Il nostro traditore tipo” c’è tutto quanto me lo fa amare: personaggi credibili con spessore psicologico sempre ben definito, una storia un cui un outsider (questo soprattutto nei romanzi scritti dopo il 1989: prima, i protagonisti sono soprattutto professionisti dei servizi) si trova in qualcosa di cui non può afferrare le dimensioni e tuttavia decide di navigarci, anche se ciò comporterà rischi estranei alla propria vita usuale.

La storia è credibile e raccontata in quel modo che fa venire voglia che arrivi la sera per scoprirne il seguito. Insomma, uno di quei libri che danno la frenesia e i timore – perchè: e poi che cosa leggerò? – di arrivare alla fine.

Le Carrè è da leggere tutto, senza eccezioni.

Teoria degli infiniti (John Banville)

Non conoscevo l’autore, irlandese del 1945. Ne ho comprato il romanzo, come a volte faccio, dapprima attratto dal titolo e dal disegno di Picasso in copertina, poi dalla buona scrittura annusata sfogliando a caso. Una storia non c’è, nè vuole esserci. Trecento e più pagine di descrizione di una decina di personaggi e delle loro relazioni – tutto sommato prive di significativi elementi drammatici – possono risultare un po’ faticose, non fosse per la scrittura che le sorregge. Non c’è un protagonista, se non il grande vecchio morente, sullo sfondo, e la famiglia intorno al patriarca con Mercurio – sì, il dio Mercurio, o Ermes per i greci – narratore inconsueto. I personaggi femminili sono tutti, ciascuno a suo modo, segnati da qualche lacuna o manchevolezza di base, dalle quali quelli maschili sembrano invece immuni. Alcune pagine – un rituale autolesionista, un pollo appena sgozzato che si “vede” come in una natura morta fiamminga – sono memorabili. È, infatti, la scrittura protagonista, soprattutto quando impasta gli interventi dispettosi e lussuriosi degli dei – Mercurio non è il solo presente – con le miserie umane. Sicchè le pagine in cui un soffio improvviso travolge una donna stupita dell’ardore inusuale dell’uomo e poi stordita dal ricordo confuso – forse un sogno? – sono quelle per le quali, soprattutto, varrà la pena averlo letto.