David Golder (Irene Nemirovsky)

Fortuna, declino resurrezione e morte di uno speculatore – ebreo, manco a dirlo – di cui l’autrice (morta ad Auschwitz) descrive la vitalità incomprimibile e le relazioni umane inesistenti: amici, moglie, figlia, tutti rapportati sempre e solo al denaro e alla capacità di produrne ed erogarne.

Spessori psicologici scarsi, qualche pagina potente – quelle finali sulla trattativa da concludere ad ogni costo mentre l’angina pectoris stringe verso una morte dolorosa – e poco più. Scorrevole. Tutto sommato “facile”, pur nella sua durezza.

Balzac aveva già detto tutto, e la “scoperta” di Adelphi di questa scrittrice della prima metà del ‘900 mi pare solo un espediente editoriale. Tralasciabile senza rimpianti.

Danny l’eletto (Chaim Potok)

Ancora mi chiedo che cosa mi abbia convinto a leggere tutte le quasi trecentocinquanta pagine di due adolescenti, che diventano amici dopo una quasi tragica partita di baseball, e dei loro padri. Più un paio di insegnanti, un fratello, una madre, ma tutti di contorno.

Siamo a Brooklin, fra l’inizio della seconda guerra mondiale e la costituzione dello stato di Israele.

Già: i due ragazzi sono ebrei osservanti, ma uno è osservante normale, mentre l’altro è di quelli vestiti sempre di nero con i riccioli la barbetta eccetera. Entrambi destinati a diventare rabbini, uno per scelta e l’altro perchè gli tocca in quanto figlio di una dinastia di rabbini che ha accompagnato la propria comunità nei secoli fra ricchezze e persecuzioni.

La tensione, dentro una scrittura piana e quasi dolce, è continua. È la tensione dell’ottenere il permesso del padre a frequentare questo ragazzo di un gruppo di ebrei con tradizioni e regole diverse, la tensione di un padre che non parla mai – mai, e quando la farà sarà per interposta persona – con il figlio se non nello studio del Talmud. Che finalmente ho capito (forse) che cos’è: una serie di commenti alla bibbia e di precetti e norme consolidati nei secoli dai sapienti riconosciuti.

A complicare le cose ce ne sono due versioni, del Talmud.

Così si possono stare giorni e giorni sull’interpretazione di cinque / sei righe, mettendo a confronto le diverse versioni, i punti di vista dei diversi sapienti che ne hanno scritto, le sfumature di significato, e la cabala che ogni parola trasforma in numero e cerca rapporti tra i numeri per risalire ad altre verità

Potok è riuscito ad appassionarmi a questo spaccare il capello in ventiquattro senza mai parlare del contenuto del contendere, e anche solo questo lo considero un risultato letterario straordinario.

Ho anche imparato che gli ebrei più ebrei degli altri erano contrarissimi alla costituzione dello stato di Israele, tanto da inscenare manifestazioni contro, perchè nasceva ad opera di ebrei non abbastanza religiosi.

Gli scontri ideologici tra i padri coinvolgeranno i figli, che per due anni, pur frequentando la stessa scuola, la stessa classe, non si potranno parlare. A me è parso un paradigma della “necessità” di vivere nella sofferenza, molto più efficace e sottile di quella indotta dai sensi di colpa cattolici, che alla fine con una bella confessione te li puoi lavare via, perchè è come se tutto il dolore del mondo fosse sulle loro – degli ebrei – spalle.

Continuo ad interrogarmi su chi propriamente “sia” un ebreo, visto che le razze sono molteplici, e che la religione non è discriminante, dato che pretendono di dirsi ebrei anche i non credenti. La risposta – provvisoria – che mi do è che si tratta della gloria di essere diversi. Speciali. E anche se non credi in dio la tua specialità deriva comunque dall’essere parte del popolo eletto. Una vita di paradossi, in cui che sia centrale lo studio del Talmud è tutt’altro che casuale.

A tutt’altri livelli, somiglia alla risposta che ci davano alla domanda a che serve studiare il latino: forma la mente. Già.

Finisco il libro con più domande che risposte, ammirato, toccato, sconvolto dai danni che le religioni, le ideologie, possono fare. Ma pare che non se ne riesca a fare a meno.

 

 

Con le peggiori intenzioni (di Giovanni Piperno)

Due famiglie romane, una ebrea e l’altra di “gentili” – il punto di vista è quello dell’ultimogenito della famiglia ebrea – accompagnate per tre generazioni nelle fortune, le rovine, le contraddizioni, le imprese. Con legami conseguenti ad un matrimonio misto nella generazione di mezzo, avversato da entrambe le famiglie ma poi accettato.

I perbenismi e la voglia di epatér le bourgeois, i drammi adolescenziali, le amicizie tradite, le amicizie confermate nonostante, le generosità pelose, le ricchezze straripanti eppure insufficienti a garantire quel quarto di nobiltà a cui si aspira, e così via, tra il ghetto dietro via Arenula e il baretto dei gelati di Piazzale delle Muse, dove i rampolli futuri imprenditori di successo o falliti venditori di fumo si alternano fra l’epoca dei Monclair e quella dei jeans tagliati a livello mutanda. Senza nemmeno sfiorare – e non credo sia casuale – l’epoca degli eskimo.

Amo, in un romanzo, i fatti, i vissuti, che ci fanno conoscere i personaggi. Qui le descrizioni dei tumulti interiori precedono i fatti, peraltro con una maestria linguistica che non ho potuto fare a meno di ammirare.

Alcuni protagonisti che, al’inizio, migrano da Roma verso Israele, e alcuni riferimenti storici, mi hanno richiamato alla mente Il gioco dei regni, di Clara Sereni, e dove lì erano gli ebrei drammatici delle rivoluzioni e dei contrasti sionisti / comunisti qui sono gli sciamannati vitalisti sfrenati dei personaggi di Roth. Restano però riferimenti episodici.

Piperno, comunque, sembra non volere bene a nessuno dei suoi personaggi. Verso il protagonista – Davide – è addirittura feroce. Come se – e questa è tutta mia immaginazione – molti personaggi potessero essere ben riconoscibili, e trattar male l’eventuale alter-ego dell’autore potesse essere un mettere le mani avanti per la ferocia primaria riservata a tutti gli altri protagonisti. Esclusi, e forse non a caso, proprio il papà e la mamma dell’io narrante Davide (a me è risultato fastidioso l’elemento stilistico del continuo passaggio al “tu”).

Il mondo dei pariolini Piperno sembra conoscerlo bene, ed averlo subito non superficialmente.

Mi resta la considerazione, su cui mi piacerebbe approfondire la riflessione, sul fatto che tale libertà di linguaggio e di giudizio, senza dover temere di essere bollati per antisemiti, resti tuttora riservata a scrittori ebrei.

Coral Glynn (di Peter Camerun)

Un romanzo classico, in cui i fatti sono raccontati nella loro sequenza cronologica.

Già solo questo, oggi, ne fa una rarità, affogati come siamo da capitoli alternati di vite parallele, flashback a gogo, decine di personaggi che si intrecciano si perdono e si ritrovano in matasse aggrovigliate.

Peter Camerun, invece, mette in scena i personaggi, introduce un solo elemento fortemente drammatico  – tragico – che resterà comunque a lato di una vicenda di relazioni personali che si snoda piana, pur nei contrasti di sentimenti.

Il finale è sorprendente e asciutto, nessuna palla va nella buca che ci possiamo essere immaginati, ma tutte vanno in una buca che, a posteriori, ci diciamo che avremmo potuto pensare: più come nella vita vera che nei romanzi. E questa, forse, è la sua migliore qualità.

Perciò: il romanzo sarà pure morto, ma un buon romanzo tiene buona compagnia, qua e là ci suscita qualche riflessione, qualche ricordo, qualche progetto. Resta tempo sempre ben speso. Il che non si può dire di tante attività umane.

Fratelli e cani (Giorgio Molinari)

Duecento pagine che se ne vanno come il vento. Una storia ben costruita, magari un po’ “studiata”, che comunque ti tiene e ti chiede di continuare ad esser letta fino alla fine. E così è stato, per me.

Anche se il prologo – due, tre pagine: tutto il romanzo sono capitoletti brevi, nervosi, concisi – mi aveva deluso: la donna aggredita in casa che si arma di coltello per difendersi da una violenza e finisce con scopami mi sapeva troppo di quello che noi maschi ci piacerebbe le femmine provassero.

Ma poi la scrittura scorre – e pazienza se qualche volta la strada è polverosa e la pioggia fredda e fitta – e l’intreccio è avvincente.

I rimandi che mi ha suggerito sono Romanzo popolare per l’ambientazione e per il sogno in Provenza, Pulp fiction per la sparatoria in cui riescono ad ammazzarsi disciplinatamente tutti a vicenda, Mickey Spillane per la disinvoltura dei passaggi emotivi, perchè quello che conta è l’azione, e l’inverosimiglianza del comportamento della guardia (donna) forestale conta poco se la sparatoria finale alla John Woo serve a portarci all’esondazione finale che chiude il cerchio aperto da una delle primissime scene.

Infine: La carica dei 101, per l’umanizzazione dei due branchi – anche se qui si tratta di cani feroci allevati per il combattimento – che accompagnano la trama ai margini della campagna di Fiumicino.

L’autore vuole bene ai suoi personaggi, fino a far passare un’autoassoluzione “Lo abbiamo fatto perchè non avevamo scelta” che – azzardo senza rete – qualche rispecchiamento,  magari in tutt’altri contesti, potrebbe trovare nella vita vera.

PS: ho conosciuto Giorgio Molinari in un corso di sceneggiatura al quale anch’io partecipavo: la sua sceneggiatura era sicuramente la migliore, e alla fine l’unico difetto trovato fu ma chi avrà i soldi per realizzarla, oggi? Mi piace ricordare che alcuni temi sono rimasti: l’infanzia abbandonata, la fuga potendo contare solo su se stessi, la vendetta sugli adulti “cattivi” appena possibile. E il finale political correct, sia pure con uno spruzzo, ma proprio uno schizzetto, di malizia.

Questo è il suo secondo romanzo: che la realizzazione del sogno continui, dunque!

L’estranea (Patrick McGrath)

Un segreto di famiglia, svelato, – resterà ignoto se per consapevole volontà o per un momento di defaillance – cambia inesorabilmente, nel profondo, le esistenze di tutti i protagonisti di questo romanzo.

Chi perchè direttamente coinvolto, chi perchè legato a chi direttamente coinvolto.

E, siccome del segreto è rivelata la sostanza, ma non l’intero contesto nè i particolari, il romanzo scorre anche come un giallo in cui alcuni vogliono sapere, altri preferiscono evitare, ed ogni pezzetto di verità – o di interpretazione di chi la espone o trova? – che si aggiunge non si può prevedere quali effetti produrrà.

I protagonisti sono Constance, che vuole diventare padrona di se stessa finalmente liberandosi del padre da cui non si sente amata, ed il marito Sidney, che le risponde chiediti piuttosto perchè il cielo è azzurro alla domanda di Constance perchè dici di amarmi.

Constance e Sidney si alternano in prima persona capitolo per capitolo, ed è doloroso assistere alle rispettive letture degli stessi fatti che mai combaciano nell’essenziale.

Poi Iris, sorella un po’ sciamannata di Constance, innamorata di un pianista di pianobar, Howard, figlio di un precedente matrimonio di Sidney, Morgan, padre di Constance ed Iris, e Mildred, sua fedele governante.

Sullo sfondo, protagonista inconsapevole e tuttavia presenza discreta e metaforica del disfacimento e, forse, della ricostruzione, Penn station, la stazione dei treni al centro di New York che negli anni 60 fu demolita e ricostruita mentre il traffico continuava. E’ l’unico elemento che ci dà un’informazione sul tempo in cui il romanzo si svolge.

A me è piaciuto anche più di Follia, per il quale Patrick McGrath è soprattutto famoso. Ricordo anche Spider, che non ho letto ma di cui ho visto il bellissimo film che ne ha tratto Cronemberg. Non c’è allegria, di sicuro. Tanta vita, sì, c’è.

Per mano mia (Maurizio De Giovanni)

Quinto romanzo con protagonista il commissario Ricciardi, nella Napoli degli anni ’30.

Il commissario Ricciardi è ricco di famiglia, è unanimemente riconosciuto come eccellente investigatore, non è amato dai fascisti perchè, pur avendo una posizione di tale responsabilità, non li blandisce, anche se mai si esprime apertamente in modo critico.

Stavolta il morto è proprio un funzionario del regime, incaricato, pur senza una veste ufficiale, di controllare il porto. I pescatori, in realtà.

È l’occasione anche per uno spaccato sulle polizie parallele estratte dalle milizie fasciste, di cui ci resta ancora qualche retaggio: non era la guardia forestale il braccio armato del tentato golpe di Junio Valerio Borghese negli anni ’60?

Godibili le descrizioni dei presepi e di chi ne costruisce statuine e ambienti.

C’è pure, come in ogni buona sceneggiatura – sì perchè ormai i romanzi hanno la struttura cinematografica – la storia parallela del fidato brigadiere Maione, peraltro ottimamente  amalgamata nell’insieme.

Il commissario Ricciardi ha una singolarità: percepisce le ultime parole dei morti di morte violenta. Questo non sempre è di aiuto alle indagini, anzi a volte è un ostacolo, perchè alle parole manca il tono, l’inclinazione, il contesto, e questo può facilmente essere fuorviante.

Da qui, anche, la sua tristezza di fondo e l’incapacità di instaurare relazioni significative e durature. Qui è conteso tra la bella e famosa attrice che frequenta gli ambienti che contano a Roma, venuta apposta a Napoli per lui e per l’invidia di tutti, e la donna che il commissario guarda la sera nella persiana di fronte e alla quale non ha il coraggio di proporsi.

Il finale è a sorpresa, ma coerente.

Mi è venuta voglia di leggere i precedenti.

Mi è venuta anche voglia di leggere un giallo con il protagonista che, invece di essere sfigato al modo che l’autore gli ha inflitto, sia bello intelligente spiritoso fortunato e se la spassi serenamente.

PS Riccardo Scamarcio ne ha comprato i diritti e ne uscirà uno sceneggiato (meglio di “fiction”, no?) televisivo.

Fuga senza fine (Joseph Roth)

Libro letto tanti anni fa, ora riletto.

All’inizio con un po’ di fatica, e mi stavo cominciando a dire magari allora ti era piaciuto ma adesso mi sa che ti arriva su altre corde e non è detto che valga la pena continuare.

Invece ho ritrovato tutto intero quel vago ricordo di personaggi che, tra le due guerre, passano come inebetiti nella vita, senza mai sapere perchè sono in un posto e se hanno voglia, o motivo, di restarci o di cambiare. Eppure hanno attraversato, e vissuto da dentro, la rivoluzione russa, la Berlino degli anni ’20 con dodici locali per omosessuali (il che non mi aspettavo proprio, in quel periodo storico), la Parigi nel massimo del fulgore culturale.

Un’ironia feroce, che mi ha ricordato quella – più leggera nella forma ma non meno ficcante – di Musil, o di Kundera e che talvolta sfoga nell’invettiva.

“Trovò nei suoi lineamenti levigati e ben curati quella fredda stupidità che somiglia tanto alla bontà soave, alla grazie gentile, all’inconsapevole gioia di vivere, quella desolante, incantevole, elegante stupidità che s’impietosice del mendicante al margine della strada e schiaccia con ogni suo passo leggero migliaia di vite”

Sembra l’epitaffio del – nostro – mondo occidentale, con un centinaio d’anni di anticipo.

Ottima idea, averlo ri-letto.

16Le provenienze

Abbiamo incontrato, e conosciuto, persone – tutte persone interessanti, significative – provenienti da Olanda, Marocco, Italia, Irak, Ungheria.

E Palestina. Purtroppo, questo sento che va scritto su un’altra riga. Almeno allo stato attuale delle cose.

15Tel Aviv: ultimi incontri.

Tel Aviv

Tel Aviv è una città moderna, piena di vita. Girando per l’ex porto ristrutturato tutto in parquet ondulato a simulare le onde, assistiamo ad uno strano minuetto:

Appena sposati? Prove per il servizio fotografico del matrimonio? Spot pubblicitario? Boh.

L’albergo è “urban”, che scopro essere un tipo di arredamento. Singolare il bagno interno alla stanza con pareti tutte a vetro, per quanto sabbiato, e lo specchio del bagno che ne è anche la finestra.

Yamal

Incontriamo ancora due amici di amici. Yamal è uno un sacco alternativo, fa sculture di legno, è di origine Irakena, per non fare il militare si è fatto passare per matto (ci racconta che la psichiatra se ne innamorò..). Vuole andarsene prima possibile da Israele.

Esty

La mattina dopo Esty, arrivata qui con i genitori scappati dall’Ungheria “comunista”, la incontriamo in un bar molto carino, tra fuori e dentro..

Esty è sui sessanta, elegante, costruisce bei gioielli. Forse le buttiamo addosso troppe cose per essere la prima volta che la vediamo, ma è lei a chiederci che cosa ne pensiamo della situazione. Ad una nostra domanda butta la testa da una parte e fa un sospirone che non so come interpretare, tra “ancora questa domanda” e “e adesso che cosa vi dico”. La domanda era: negli ultimi 10, 15 anni, quanti israeliani e quanti palestinesi sono morti?.

Aeroporto

I controlli all’aeroporto sono poco più che normali. Rientro tranquillo. Tante cose da mettere in ordine. Ci vorrà tempo.