Teoria degli infiniti (John Banville)
Non conoscevo l’autore, irlandese del 1945. Ne ho comprato il romanzo, come a volte faccio, dapprima attratto dal titolo e dal disegno di Picasso in copertina, poi dalla buona scrittura annusata sfogliando a caso. Una storia non c’è, nè vuole esserci. Trecento e più pagine di descrizione di una decina di personaggi e delle loro relazioni – tutto sommato prive di significativi elementi drammatici – possono risultare un po’ faticose, non fosse per la scrittura che le sorregge. Non c’è un protagonista, se non il grande vecchio morente, sullo sfondo, e la famiglia intorno al patriarca con Mercurio – sì, il dio Mercurio, o Ermes per i greci – narratore inconsueto. I personaggi femminili sono tutti, ciascuno a suo modo, segnati da qualche lacuna o manchevolezza di base, dalle quali quelli maschili sembrano invece immuni. Alcune pagine – un rituale autolesionista, un pollo appena sgozzato che si “vede” come in una natura morta fiamminga – sono memorabili. È, infatti, la scrittura protagonista, soprattutto quando impasta gli interventi dispettosi e lussuriosi degli dei – Mercurio non è il solo presente – con le miserie umane. Sicchè le pagine in cui un soffio improvviso travolge una donna stupita dell’ardore inusuale dell’uomo e poi stordita dal ricordo confuso – forse un sogno? – sono quelle per le quali, soprattutto, varrà la pena averlo letto.
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