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L’angoscia del re Salomone (Roman Gary)

A proposito del bisogno di aver bisogno degli altri

Questo romanzo, come il precedente “La vita davanti a sè“, uscì firmato da Emile Ajar. Con questo stratagemma Roman Gary vinse per due volte – il regolamento lo avrebbe vietato – il premio Goncourt. Si dev’essere divertito un sacco, visto che il segreto è riuscito a portarselo nella tomba.

Come nel precedente, il protagonista è un outsider, che parla una lingua tutta sua con la quale pronuncia inconsuete verità: Jeannot è stato ingaggiato da Salomon, un vecchio di ottantacinque anni, ricco di trascorsi industriali, come tutto fare; Salomon sostiene un centro – una sorta di telefono amico – e qualche volta è lui stesso, la notte, a rispondere alle telefonate dei disperati, perchè, dice Jeannot, “…la notte si sente maggiormente angosciato e appunto quando è più solo ha bisogno di qualcuno che abbia bisogno di lui.”

Sembra aver imparato la lezione che Salomon gli ha dato quando si sono conosciuti: “… che si sono sempre sentiti sfigati e respinti e che si rifanno diventando psichiatri e si occupano dei giovani drogati e dei poveri disgraziati e si sentono importanti e sono molto ricercati e circondati da ammirazione…

La vicenda centrale è tuttavia una triangolazione che si snoda, con la mediazione del centro di assistenza telefonica, fra Salomon, Jeannot e Cora, una anziana cantante che ha avuto un breve momento di gloria negli anni della guerra.

Scopriremo strada facendo perchè Cora non ha potuto proseguire una carriera che sarebbe potuta essere importante, scopriremo quale relazione c’è stata fra Salomon e Cora, quali segreti nasconde, vedremo quali saranno i modi, in parte casuali, in parte orientati, con i quali Jeannot e Cora si avvicineranno.
Un libro delizioso.

La vita davanti a sè (Roman Gary)

Il commovente Momo, nel collegio dei figli di puttana.

Momo è un ragazzino arabo di dieci anni, ma forse undici, e strada facendo scoprirà che potrebbe averne anche quattordici.
Modo vive con Madame Rosa che, all’ultimo piano di un condominio senza ascensore, alleva una mezza dozzina di flgli di puttana. Alla lettera: sono figli di prostitute che, per le leggi allora vigenti, hanno paura che i servizi sociali glieli tolgano e li diano in affido, e dunque li consegnano a Madame Rosa affinchè se ne prenda cura.
Per Madame Rosa è un lavoro: ogni madre le invia periodicamente soldi, ma Madame Rosa continua a tenere i bambini anche quando le madri scompaiono.
Madame Rosa è una vecchia ebrea nera che ci sta poco con la testa, ogni tanto rivive epoche lontane ed è piena di acciacchi.
Momo se ne prende cura alla fine più di quante cure abbia ricevuto.
Momo si è costruito un linguaggio tutto suo e una visione del mondo del tutto singolare.

Momo soffre per quanto Madame Rosa si deteriora: Madame Rosa gli ha detto che c’è una faccenda che si chiama Ordine dei medici che è fatto apposta per farle delle sevizie e impedirle di morire. Perciò Momo si arrabbia con il dottor Katz, talmente vecchio da dover essere portato in braccio per le scale per visitare Madame Rosa, quando gli dice che non la può abortire.
Momo se la caverà a modo suo, e alla fine ci sarà anche chi si occuperà di lui.

PS: Romain Gary ha vinto il Goncourt con questo romanzo ma con uno pseudonimo: si è saputo solo qualche mese dopo che si era suicidato con un colpo di pistola. Era stato il marito di Jean Seberg, suicida un anno prima. Ha lasciato un biglietto: “Nessun rapporto con Jean Seberg, i patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove

La professione del padre (S. Chalandon)

Un romanzo singolare, difficile da descrivere senza svelarne troppo.

L’inizio si può dire, perchè dalle prime pagine il quadro di un padre millantatore e violento, di una madre remissiva, di un figlioletto vittima, è chiaro.

Tutta la prima parte è densa di complotti, dell’amico americano Ted che dà istruzioni al padre a che a sua volta le trasmette al figlio o se ne fa scudo per le punizioni tremende che infligge al piccolo protagonista quando non esegue a puntino gli ordini o non è perfetto a scuola.

Pian piano il figlio diventerà parte attiva e proattiva dei deliri del padre.

Diventerà grande, si costruirà una vita autonoma: un bel lavoro di restauratore, una moglie, un figlio.

Stavo per lasciarlo a metà, stanco della sequenza di “avventure” senza costrutto. Avrei fatto un grande errore, perchè la prima parte è stata necessaria a preparare una seconda parte bellissima, nella ripresa di contatto dopo anni del figlio con i genitori.

Di questa parte preferisco non dire niente, se qualcuno che leggerà qui vorrà leggere il romanzo, perchè l’ho letta non più stancamente come fin verso la metà ma appassionato e voglioso di arrivare alla fine dello svolgimento dei sentimenti che si sviluppano. Senza le grandi contraddizioni che mi sarei potuto aspettare, e anzi con un tono piano, equilibrato, mai urlato. Commovente. Un sentimento che per qualche verso si avvicina a quello che ho avvertito nel vedere Joker, per la vicinanza, che in nessun modo copre le pessime azioni dei protagonisti, a stati di sofferenza estrema di alcune persone.


Da leggere

La festa dell’insignificanza (Milan Kundera)

Stalin racconta di come, andando a caccia, vide su un albero ventiquattro pernici e di come, avendo solo dodici cartucce, potè colpirne solo dodici.

Siccome a Stalin piacevano molto le pernici, tornò a casa, si procurò altre dodici cartucce e così potè prendere le altre dodici.

Stalin raccontava questo aneddoto di vita vissuta e poi si ritirava in una stanza da dove poteva ascoltare i commenti dei presenti che nel frattempo si erano raccolti nel pisciatotio per sbeffeggiare di nascosto il grande capo, alla cui presenza nessuno si era azzardato a muovere obiezioni e anzi tutti avevano applaudito la sua sagacia e abilità venatoria.

Una donna vuole suicidarsi. Si butta nel fiume, ma un giovane si tuffa per salvarla. La donna non vuole essere salvata, quindi si divincola e, visto che il ragazzo insiste a volerla salvare, fa in modo di tenerlo sotto finche non smette di respirare. A qual punto la donna ci ripensa, decide che vale la pena continuare a vivere ancora un pò e nuota verso riva.

La festa dell’insignificanza, come credo tutti gli scritti di Kundera dopo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” – se finisce il mondo e devo salvarne solo uno io salvo questo – non è un vero romanzo. È un saggio di filosofia e un esercizio di scrittura sublime.

Non sempre colgo i nessi, che peraltro nel profondo sento esserci.

Qui, una pagina sull’io come volontà e rappresentazione e sul disprezzo.

La vita come un romanzo russo (Emmanuele Carrère)

Mi sono sorpreso di non aver qui recensito “Il regno” e “Limonov”, dello stesso autore.

Entrambi da leggere, specialmente, per me, Limonov, che restituisce un affresco di un personaggio davvero speciale, un poeta che viene dal popolo, un crogiolo di contraddizioni fra gli intellettuali di New York, l’URSS di ieri e la Russia di oggi.

Il regno è una profonda riflessione, storicamente fondata, sul cristianesimo, nascita e sviluppo dei primi tempi.

Carrère ha inventato un genere, che credo abbia anche una denominazione, per quanto – poco, proprio poco, a mio parere – queste classificazioni valgano, che consiste nella presenza diretta, con la propria vita, dello scrittore in ciò che sta scrivendo.

Questa presenza in Limonov è discreta, in secondo piano. Ne “Il regno” c’è di più, ed ha una sua ragion d’essere in alcuni paralleli della Storia con il contatto dello scrittore con il cristianesimo.

Meno male che ho letto “La vita come un romanzo russo”, che è stato scritto prima degli altri due citati, dopo Limonov e Il regno. Perchè se lo avessi letto per primo difficilmente mi sarei accostato ad altro.

La storia di “la vita come un romanzo russo” assembla – assembla, sì, perchè le connessioni fra le storie sono fragili quando non inesistenti – la volontà di rendere pubblica la vergogna di famiglia di un nonno che è stato collaborazionista, la curiosità di andare a capire in un posto sperduto della Russia chi fosse quel prigioniero ungherese di cui tutti si erano dimenticati, un racconto erotico che mette definitivamente in crisi la relazione con la compagna del momento.

La presenza costante dell’autore qui è insopportabile, e l’esibizione di sincerità somiglia più ad una trasmissione televisiva in cui si celebra l’osceno dell’intimità esibita che alle Confessioni di sant’Agostino.

Però scrive tanto bene, e riesce a portarti alla fine: la magia è di farsi vedere così tanto stronzo che tu che lo leggi riesci a dirti vabbè pure io certe volte non scherzo, ma proprio così no, eh!

Viaggio di nozze (Patrik Modiano)

modiano

Quando, fra i tanti libri esposti, ne prendo in mano uno, a volte mi chiedo che cosa mi abbia attratto proprio in quel libro. Non sempre è facile riconoscerlo. Non sempre mi piace doverlo ammettere, ma è un esercizio istruttivo, dirci che cosa davvero ci muove.

In questo caso mi sono fatto attrarre dalla fascetta che ricordava “Premio Nobel 2014”, e stavolta è andata bene, con un autore – confesso – a me prima sconosciuto.

Per me è un racconto lungo (130 pagine), anche se la copertina recita “romanzo”. Anche in questo ha affinità con Tabucchi, che ho sentito richiamato dalle atmosfere insieme lievi e dense di sotterranei. La scrittura non cerca preziosismi e perciò l’ho potuto leggere in una serata, con lo sfondo, che mi è sembrato molto appropriato, del pianoforte di Satie.

Pochi personaggi che si incontrano, e poi due o tre volte si reincontrano, fra casualità e ricerca, fra gli ultimi anni della seconda guerra mondiale e oggi.

Il destino del protagonista legato a quello di una donna. Ci si potrebbe aspettare una storia d’amore, vissuta o mancata che sia, e invece è altro. Quando si potrebbe anche essere un po’ irritati perchè ormai mancano pochissime pagine e non ce ne possono essere abbastanza per una spiegazione plausibile, e ci si rassegna all’ennesimo “finale aperto”, le ultime quattro righe – quattro righe quattro – dicono quanto basta, ed è necessario.

Mi ha richiamato l’ultima pagina de “L’amico ritrovato”, di Fred Uhlman. L’essenzialità, senza oscurità, è privilegio di pochi. Cercherò altro, di Patrik Modiano.

L’immortalità (Milan Kundera)

Riletto dopo tanti anni.
Dopo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” Kundera non ha più scritto veri e propri romanzi, o almeno non più nel modo classico.
“Il romanzo non deve somigliare ad una corsa ciclistica, bensì ad un banchetto con molte portate”, scrive, lasciando come soavemente scivolare, tal quale il leggero movimento della mano della donna che fa da incipit, proprio il suo romanzo più famoso.
Di Kundera amo l’amarezza profonda che accompagna una passione contenuta e però forte e sempre presente. E l’ironia distaccata che colpisce con una punta così accuminata che te ne accorgi solo dopo che ti ha penetrato il fegato a fondo. E l’amore per l’Europa che ha potuto conoscere dal centro geografico politico e culturale, come chi è vissuto fra Praga – per nascita – e Parigi – per scelta obbligata, e come chi ne vede la grandezza passata e l’ineluttabile declino presente.
La storia sono tante storie, cucite che non sembrano collegate quando un nome buttato là ti rivela che quel nuovo personaggio è proprio quello o quella tale di cui capitoli dietro e anche se puoi fare fatica a ricollegare proprio tutto sai che le connessioni ci sono, sono profonde e ti restano comunque dentro.
Appaiono anche Goethe, Beethoven, Hemingway e sono – senza tempo – fra i personaggi di oggi, come se ne avessero già catalogato da tempo ogni sentimento.
Mi accorgo che quanto ho scritto finora può valere per tutto Kundera, ed in effetti è l’autore che ho letto di più, di cui ho letto tutto più volte, e leggerlo mi dà un piacere non esprimibile fino in fondo a parole.
Continuo e rileggerlo, infatti, sapendo che troverò ogni volta qualcosa di nuovo.

David Golder (Irene Nemirovsky)

Fortuna, declino resurrezione e morte di uno speculatore – ebreo, manco a dirlo – di cui l’autrice (morta ad Auschwitz) descrive la vitalità incomprimibile e le relazioni umane inesistenti: amici, moglie, figlia, tutti rapportati sempre e solo al denaro e alla capacità di produrne ed erogarne.

Spessori psicologici scarsi, qualche pagina potente – quelle finali sulla trattativa da concludere ad ogni costo mentre l’angina pectoris stringe verso una morte dolorosa – e poco più. Scorrevole. Tutto sommato “facile”, pur nella sua durezza.

Balzac aveva già detto tutto, e la “scoperta” di Adelphi di questa scrittrice della prima metà del ‘900 mi pare solo un espediente editoriale. Tralasciabile senza rimpianti.

Il clan dei Mahé (George Simenon)

Una gran fatica, arrivare alla fine. Sconcertante. A voler trovare un tema, un senso: un  medico trascinato da una passione che nemmeno è una passione per una adolescente appena intravista con la quale nemmeno parlerà mai. Una vita monotona che trova un’occasione per rigirarsi… sì, le atmosfere sonnacchiose di una provincia francese umida, ma che altro? Mi ha veramente detto poco, ma forse sono io a non aver trovato.