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Story / Dialoghi (Robert McKee)

Nel tempo, ho letto tutto ciò che mi è capitato circa come si scrive, il senso dello scrivere, eccetera: dalle Lezioni americane di Calvino a Carver, Yehoshua, Piperno, Franzen, Vargas LLosa, Patricia Highsmith e altri che ora non ricordo.

Ho letto anche testi su come si scrive una sceneggiatura, come si racconta una storia, sulla struttura dei miti riconoscibile in ogni drammaturgia.

I due volumi di Robert McKee sono quanto di meglio possa desiderare chi abbia di questi interessi, direi proprio che saziano.

I concetti fondamentali sono essenzialmente pochi, e sono esattamente esposti all’inizio di ognuno dei due testi, che procedono a spirale: un concetto alla volta viene ripreso, spiegato, esemplificato.

Ogni ripetizione si arricchisce di contenuto finchè il concetto acquista una forma, un colore, diventa sudore, fatica e, infine, soddisfazione.

Se un concetto ho trovato espresso con più forza e originalità che in qualsiasi altro testo, questo è la necessità che, chi scrive, sia capace di stare davvero dentro non solo al protagonista, ma ad ogni singolo personaggio, con carne e sangue, con il corpo, non solo con l’intelletto.

Come non mai mi sono reso conto che la buona, l’eccellente scrittura, non è di per sè sufficiente a scrivere un buon testo.

L’analisi dei dialoghi di Lost in traslation (Sofia Coppola), la straordinaria capacità di dire tanto con il minimo delle parole, mi ha fatto venir voglia di rivedere, forse per la terza o quarta volta, uno dei film che più amo. Attenzione: per chi scrive racconti, o romanzi, le osservazioni di McKee sono altrettanto utili che per chi scrive sceneggiature.

Da non mancare, per chi vuole imparare anche qualcosa su di sè, circa il piacere e la dannazione di scrivere.

Il manifesto del libero lettore (Alessandro Piperno)

Il sottotitolo è “Otto scrittori di cui non so fare a meno”.

Va letto da chiunque ami leggere, sopratutto se ama anche scrivere.

“Dopotutto, i libri sono strumento di piacere, come la droga, l’alcol, il sesso, non il fine ultimo della vita”

Sono molto d’accordo che l’unico criterio, con una parvenza di oggettività, per decidere della qualità di un romanzo sia la sua longevità. Aggiungo che, da un punto di vista più personale, è la voglia di rileggere che ci fa dire quanto amiamo uno scrittore. (Il record, per me, è di Kundera).

Meno d’accordo che quando diciamo che un autore scrive sempre lo stesso libro (ho il fondato dubbio che Piperno potesse riferirsi a sè stesso) sia perchè non lo amiamo abbastanza.

Non mi vengono, così all’istante, paragoni letterari, ma credo di rendere l’idea se dico che Woody Allen è un genio che fa sempre lo stesso film, ma che Stanley Kubrik è un genio superiore per come si è espresso al massimo in ogni genere.

Ed ecco gli otto autori, e che cosa mi ha dato per ciascuno la lettura che ne fa Piperno:

  • Tolstoi: ho sempre avuto un rapporto difficile con i russi, penso che alla fine mi deciderò a leggere Anna Karenina
  • Flaubert: resterò sazio della Madame Bovary letta da giovane.
  • Stendhal: anche qui, “La certosa di Parma” mi basterà.
  • Austen: non mi è venuta voglia nemmeno stavolta di avvicinarmici; non mi massacrate, so che non è un criterio, ma della riduzione cinematografica di Orgoglio e pregiudizio non ho retto nemmeno il primo tempo.
  • Dickens: non ne ho letto niente, e non me ne è venuta voglia.
  • Proust: che ci posso fare? Preso in mano tante volte, mai riuscito ad andare oltre la seconda pagina.
  • Svevo: mi rifaccio, voglio rileggere al più presto “La coscienza di Zeno”, che ricordo godibilissimo gà da giovane.
  • Nabokov: Lolita l’ho già letto due, forse tre volte. Non escludo una quarta.

Temo che alla fine di questa ricognizione risulterò un terribile ignorante, ma il manifesto del libero lettore mi ha assolto a priori!

Dove la storia finisce (Alessandro Piperno)

Il mondo è lo stesso degli altri due romanzi di Piperno – Con le peggiori intenzioni e Inseparabili – che ho letto, e cioè famiglie ebree romane ricche / benestanti.

Comincia, mi pare, ad essere un limite quest’ambientazione costante, come se Piperno non volesse uscire dal mondo che conosce e ripetesse, con variazioni, la stessa sonata con solo qualche tono diverso.

La scrittura è sempre scorrevole e godibile, e questo resta il maggior pregio di questo romanzo e di Piperno in generale.

Lo confrontavo con Eccomi, letto di recente, per l’ambientazione comune ebraica, anche se lì sono intellettuali di New York e qui medio borghesi romani, e riflettevo su come le duecentosettanta pagine siano risultate insufficienti a dare spessore ai personaggi.

Matteo, più che Il protagonista è l’elemento catalizzatore di un groviglio di relazioni di cui è, anche suo malgrado in qualche caso, il centro. Abbiamo quindi la moglie, la figlia di questa moglie e il figlio di una precedente, i rispettivi coniugi e le rispettive famiglie di origine, un caro amico che lo ha sostenuto in tutti i modi durante dodici anni di esilio forzato in California per sfuggire a un feroce cravattaro.

Lo strozzino finalmente è morto, e il ritorno di Matteo costringe tutti a confrontarsi con la novità nelle vite di ognuno.

Le diatribe di coppia con i corollari suoceri nuore cognati sono descritte con una certa ferocia e questa forse è la parte più godibile.

Il finale arriva inaspettato, il che in genere è una buona cosa perchè è difficile ormai rimanere sorpresi, ma risulta “aggiunto” come per voler dare un tocco di drammaticità a situazioni ben scritte e descritte ma fruste.

A differenza che negli altri romanzi Piperno qui tratta infine bene i suoi personaggi, e l’ultima riga a sorpresa mi ha dato l’impressione di averla scritta per farsi perdonare dalla comunità ebraica romana la messa a nudo ripetuta di un mondo che, nell’insieme, non fa mai una bella figura da questi romanzi. Ma questa è solo una mia libera interpretazione.

Inseparabili (Alessandro Piperno)

Benchè “Con le peggiori intenzioni” non mi fosse piaciuto, tuttavia la scrittura di Giovanni Piperno è ammaliante e, fatta passare l’ubriacatura del Premio Strega, ho sfogliato “Inseparabili” in libreria e ho deciso di dargli – raramente lo faccio: c’è così tanto da leggere… – un’altra possibilità.

La struttura è nella sostanza identica a quella de “Le correzioni“: una famiglia, i figli – tre ne “Le correzioni”, due ne “Gli inseparabili” – le vicende di padre madre e figli che scandiscono il loro tempo e ad ogni ripresa ciascuno aggiunge tasselli alle storie degli altri.

Anche il finale ha qualche somiglianza: lì un ultimo pranzo di Natale prima di lasciare la casa dove tutti sono cresciuti prima di disperdersi, qui un funerale, occasioni per un’ultima vista d’insieme e un ultimo sguardo sui  personaggi.

Ai quali Piperno sembra volere un po’ più bene che ne “Con le peggiori intenzioni”, pur mantenendo la predilezione a far emergere, di ciascuno, il peggio.

Gli inseparabili sono il fratello indolente che si ritrova, per un colpo di genio e di fortuna, con una fama internazionale che non sa gestire, e il fratello brillante che si invischia in una speculazione finanziaria in mezzo ai peggiori mafiosi delle repubbliche baltiche.

Si viaggia in tutto il mondo, la storia sicuramente c’è e sembra pronta, come sempre più spesso mi accade di pensare mentre leggo, per una bella sceneggiatura per un bravo regista.

Scorre in tutte le pagine una profonda, profondissima amarezza, quasi un dolore che non riesca ad esprimersi come tale ed abbia perciò bisogno di tanta intelligenza e tanta capacità di scrittura. Sarà per questo che mi riesce di pensare a Giovanni Piperno più con affetto che con simpatia.

 

 

 

Con le peggiori intenzioni (di Giovanni Piperno)

Due famiglie romane, una ebrea e l’altra di “gentili” – il punto di vista è quello dell’ultimogenito della famiglia ebrea – accompagnate per tre generazioni nelle fortune, le rovine, le contraddizioni, le imprese. Con legami conseguenti ad un matrimonio misto nella generazione di mezzo, avversato da entrambe le famiglie ma poi accettato.

I perbenismi e la voglia di epatér le bourgeois, i drammi adolescenziali, le amicizie tradite, le amicizie confermate nonostante, le generosità pelose, le ricchezze straripanti eppure insufficienti a garantire quel quarto di nobiltà a cui si aspira, e così via, tra il ghetto dietro via Arenula e il baretto dei gelati di Piazzale delle Muse, dove i rampolli futuri imprenditori di successo o falliti venditori di fumo si alternano fra l’epoca dei Monclair e quella dei jeans tagliati a livello mutanda. Senza nemmeno sfiorare – e non credo sia casuale – l’epoca degli eskimo.

Amo, in un romanzo, i fatti, i vissuti, che ci fanno conoscere i personaggi. Qui le descrizioni dei tumulti interiori precedono i fatti, peraltro con una maestria linguistica che non ho potuto fare a meno di ammirare.

Alcuni protagonisti che, al’inizio, migrano da Roma verso Israele, e alcuni riferimenti storici, mi hanno richiamato alla mente Il gioco dei regni, di Clara Sereni, e dove lì erano gli ebrei drammatici delle rivoluzioni e dei contrasti sionisti / comunisti qui sono gli sciamannati vitalisti sfrenati dei personaggi di Roth. Restano però riferimenti episodici.

Piperno, comunque, sembra non volere bene a nessuno dei suoi personaggi. Verso il protagonista – Davide – è addirittura feroce. Come se – e questa è tutta mia immaginazione – molti personaggi potessero essere ben riconoscibili, e trattar male l’eventuale alter-ego dell’autore potesse essere un mettere le mani avanti per la ferocia primaria riservata a tutti gli altri protagonisti. Esclusi, e forse non a caso, proprio il papà e la mamma dell’io narrante Davide (a me è risultato fastidioso l’elemento stilistico del continuo passaggio al “tu”).

Il mondo dei pariolini Piperno sembra conoscerlo bene, ed averlo subito non superficialmente.

Mi resta la considerazione, su cui mi piacerebbe approfondire la riflessione, sul fatto che tale libertà di linguaggio e di giudizio, senza dover temere di essere bollati per antisemiti, resti tuttora riservata a scrittori ebrei.