Io sono il fiume (Mario Santamaria)
Un romanzo impegnativo. Già le oltre cinquecento pagine, tutte dense, dicono molto dell’impegno profuso.
La sintesi della storia sta nella seconda di copertina, perciò non mi ripeterò.
Personalmente non credo ai generi, credo ai buoni libri ben scritti, e questo è un buon libro ben scritto. Rispetto a ciò, trovo irrilevante che si svolga oggi o, come in questo caso, in un futuro indefinito, dopo una serie di conflitti, evocati sullo sfondo, che hanno prodotto uno stravolgimento dell’organizzazione sociale.
Il modello, per dirne uno , è quello di “Fuga da New York”: qui una Roma divisa in quadranti, settori, recinti, abitati da strati sociali ridefiniti dalle attitudini o dalla maggiore o minore integrazione rispetto al nuovo, fortemente esclusivo, ordine costituito.
Analogamente a Jena Plissken anche Bliss, una delle protagoniste, deve superare una quantità di ostacoli per salvarsi la vita da un qualcosa che le è stato impiantato nel cervello. Qui, più raffinatamente, non si tratta di un veleno a tempo determinato ma dell’innesto di ricordi altrui che funzionano da metastasi disgreganti. Diversamente che da Jena Plissken, Bliss non si salva soltanto con le sue capacità ma grazie all’aiuto, sopratutto ma non solo, dell’altro protagonista, Appo, genietto dei codici binari, che mi è piaciuto immaginare somigliante al Sergio Rubini di Nirvana.
Per chiudere con le associazioni che ho fatto circa le possibili ispirazioni, e qui trascuro l’imprescindibile Philip Dick, mi sembra di aver colto anche un livello di lettura che sembra voler realizzare il programma di superamento dell’homo sapiens che Harari, quello di Homo deus, preconizza.
Il mondo descritto è quello delle diverse marginalità, mentre del mondo dei potenti e dei benestanti si ha traccia solo dagli strumenti di controllo – droni, principalmente – che qua e là arrivano a rendere la vita difficile ai protagonisti.
Si svolge tutto a Roma, non sappiamo niente di che cosa ne sia del resto del mondo ma non ci viene mai in mente di chiedercelo perchè Roma è evidentemente la parte per il tutto.
C’è una parte di quasi divulgazione scientifica che viene proposta per dare credibilità alla ricerca su “che cosa è il tempo”, ai margini della fisica quantistica. Sono argomenti che, personalmente, ogni volta che incontro ho l’impressione di aver abbastanza ben intuito e che regolarmente dimentico un attimo dopo e avrei difficoltà a riproporli. Ho avuto la stessa impressione, e anche qualche momento di appesantimento, nel leggere queste parti di “Io sono il tempo”, ma capisco e apprezzo il grande impegno che c’è sotto: impegno non solo narrativo ma proprio di “comprensione”, come se dover accettare razionalmente le conseguenze del principio di indeterminazione fosse stato acquisito come necessario ma non pacificante. Confesso di essere rimasto deluso nel leggere che il presente potesse essere stato identificato di durata definita ma lascio aperta la porta alla possibilità che io non abbia ben capito.
Le parte migliori a mio parere sono le scene di azione: si vedono, se ne sentono gli odori, i suoni, se ne respirano le emozioni: un livello davvero alto di scrittura.
Considerata la già notevole complessità dell’insieme, con flashback che di continuo modificano i contesti e le convinzioni dei protagonisti circa la narrazione in cui sono inseriti, avrei risparmiato al lettore l’onere di equiparare i diversi nomi e appellativi con i quali sono di volta in volta identificati i tanti protagonisti. Ad un certo mi ci sono perso ed ho lasciato perdere ma il racconto di avventura non ha perso di credibilità nè di intensità.
Appo e Bliss sono i giovani protagonisti, ma i tre scienziati più il loro maestro, della generazione precedente che ha prodotto la catastrofe e che ora cerca di controllarla, sono forse i protagonisti veri, con i loro continui cambi di posizione esistenziale e le diverse sfere emotive: anche questi passaggi non sono facili da seguire ma da un certo punto in poi ho deciso di avere fiducia nel fatto che l’autore li avesse ben chiari in mente tutti ed ho preferito l’immersione in ciò che stava succedendo nella pagina.
Ambientare un romanzo complesso in un futuro indefinito da una parte dà spazio ad ogni immaginazione e dall’altro dà il notevole vantaggio narrativo di costruire senza alcun limite che non sia una coerenza interna. Una volta data coerenza ad una visione in cui possono coesistere piani di esistenze parallele con trasferimento di brandelli di ricordi da uno all’altro, tutto è possibile, e lo svelamento finale dei due capitoli iniziali può far girare la testa per il rutilare di sovrapposizione di narrazioni, ma il sostegno di una scrittura non facile ma sempre scorrevole e limpida fa accettare il controllo ferreo, che immagino “costoso” per l’autore, della (non) linearità della storia: ma, nella vigenza del principio di indeterminazione, forse anche questa è coerenza.
Ne potrebbe anche uscire un ben film, per quanto forse ne vedrei più adatta la trasposizione in una graphic novel e, visto che c’è già un eccellente – vedi splendida copertina – illustratore, chissà…
In conclusione: la scrittura è superba, la capacità di organizzazione drammaturgica è piena, mi piace immaginare un prossimo lavoro in cui la sfida sia affrontare i paletti di una storia ambientata in un mondo totalmente reale.
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