Il simpatizzante (Viet Thanh Nguyen)
Il protagonista ha un talento naturale: è “in grado di considerare qualsiasi punto di vista da due punti di vista antitetici“.
È il talento delle spie, dei doppiogiochisti. Il nostro, infatti, è un comunista vietnamita infiltrato al fianco di uno dei più importanti generali del Vietnam del sud, che seguirà negli Usa in fuga alla rovinosa caduta di Saigon. Da lì continuerà a mandare relazioni segrete sui tentativi dei reduci irriducibili di tornare a lottare per la liberazione, fino a rientrare egli stesso e a incontrare gli effetti della realizzazione rivoluzionaria.
Viet Thanh Nguyen è un professore universitario di letteratura, ed è l’ennesimo esempio – la prima folgorazione l’ebbi con lo straordinario “I versetti satanici” di Salman Rushdie- di come l’incrocio di culture sia il più fecondo mezzo per far emergere qualcosa di originale.
Quanti film avremo visto sulla guerra del Vietnam? Beh, mai mi sono sentito così dentro alla paura alla polvere alla confusione al sangue alla disperazione al sudore come nella descrizione dell’assalto agli ultimi posti per lasciare Saigon mentre i vietcong hanno sfondato tutte le resistenze e stanno entrando in città.
Un sottofondo permanente di dolente ironia permette una descrizione quasi leggera di torture e ammazzamenti.
Il tema, comunque, non è la storia della guerra del Vietnam, ma la condanna alla mancanza di identità di quest’uomo doppio, generato da una donna vietnamita e da un prete bianco, che riflette a sua volta il dramma di un paese separato da una riga tracciata sulla carta geografica. La sua tragedia è quella di un popolo riunificato a prezzo di infiniti – e alla fin fine inutili, superflui – orrori.
Premio Pulitzer 2016. Da leggere.
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