Una storia chiusa (Clara Sereni)
Di solito leggo la sera, a volte il pomeriggio. E’ raro che mi metta la sveglia la domenica per essere sicuro di avere il tempo, prima di un impegno previsto per metà mattinata, di finire un romanzo. Così è andata per “Una storia chiusa”. Perchè volevo vedere come finiva. E fino a metà volevo vedere come finiva il giallo della pennetta usb lasciata in gran segreto di pericolo dal figlio tossico alla mamma nel residence per anziani, più le altre potenziali connessioni con – forse – il figlio traffichimo di Vandaosiris, con la nipote terrorista – forse – dell’ex partigiano, con l’agente dei servizi che si occupa della sicurezza della giudice rifugiatasi sotto falso nome, a fine carriera, nello stesso residence.
Ma dopo la metà i fili dell’intreccio del racconto perdono consistenza e lasciano spazio alle umanità dolenti dei protagonisti. E mi sveglio non tanto per sapere come va a finire ma come lo avrà fatto finire.
Il che, qui, non svelerò. Anche se non si tratta propriamente di un finale a sorpresa.
Ci vuole coraggio per scrivere un romanzo i cui protagonisti principali sono tutti vecchi, con pochi personaggi di contorno – figli, nipoti, l’assistente sociale – di età diverse.
E ci vuole bravura per prendere – se non è consapevolezza piena è stare appieno nel tempo presente – la struttura di una serie televisiva, di quelle fatte bene tipo Lost, dove la compresenza casuale di più persone è l’occasione per esplorare in parallelo le relazioni del presente e i passati di ciascuno, e portarla, oggi, in un romanzo.
Quella che all’inizio appare la protagonista, la giudice, piano piano va sullo sfondo, a differenza di altri romanzi o racconti di Clara Sereni, in cui la presenza – diretta o indiretta – dell’autrice è sempre molto forte. Mi richiama lo sfondo, sempre dello stesso colore, delle coperte ad uncinetto che Margherita continua a tessere e a tornarci indietro disfacendo maglie su maglie perchè anche se nessuno se ne accorgesse me ne accorgerei io se non fossero perfette.
E il fascista dalle mani d’oro che ripara tutto e che un altro ospite ha riconosciuto – forse – come il feroce assassino da cui miracolosamente si salvò. E Olga, che accende le candele, nei rispettivi anniversari, per i morti delle stragi di stato, e disputa con Dante se il Vajont vada considerata tale.
E altri. Chi più chi meno vicini alla morte. E vivi. Con la memoria riverberata nel presente.
Un senso di compiutezza. Di vite dolenti, ma ciascuna a suo modo vissuta.
Post scriptum: ci vedo già, dentro, un testo teatrale. Forse anche una sceneggiatura per un produttore coraggioso. Quindi, forse, una storia non del tutto chiusa.
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