Articoli

Breaking news (Frank Schätzing)

Consigliato da Clara Sereni, mille pagine di avventure di un giornalista che, dopo una tragedia in Afganistan di cui è stato parte, ritroviamo – carriera, quella brillante, finita – a ciondolare per i bar del medio oriente scrivendo articoli per giornali secondari.

Gli si presenta lo scoop della vita, l’occasione per provare a rientrare nel giro dei grandi reporter di guerra.

Siccome lo scoop ha a che fare con i servizi segreti israeliani, nelle loro varie diramazioni ufficiali ed anche in quelle che da noi si chiamerebbero deviate, la faccenda si fa complicata fino al rischio della vita, che qualcuno strada facendo ci rimette davvero.

Chi ricorda uno dei racconti della Nausea, di Sartre, sa che il partigiano torturato deve resistere ventiquattro ore per dare modo ai suoi compagni di trovare rifugi sicuri e allora costui, per guadagnare tempo, finge di cedere e si inventa che i suoi compagni hanno come punto di raccolta un certo cimitero. Beh, il punto di racconta è proprio in quel cimitero, ed il povero partigiano senza volere ha consegnato i propri compagni al massacro. Qui succede qualcosa del genere: per avvalorare le informazioni che ha, il nostro protagonista aggiunge di suo qualcosa di molto succoso per il giornale a cui sta offrendo l’articolo e dal quale deve avere una consistente somma di denaro per acquistare il cd, senza sapere che quella invenzione, talmente enorme, è vera, e qualcuno che ha ascoltato la conversazione non può permettersi che venga divulgata.

Comincia così la caccia e la fuga.

Ma questo è solo il filo che lega il romanzo, perchè il grosso della sostanza consiste nel racconto, a mano a mano che i tanti protagonisti si presentano sulla scena e se ne sviluppano le vite, della costruzione dello stato di Israele, delle guerre vinte, delle paci fatte, delle paci non fatte, delle invasioni del Libano dei territori palestinesi del Sinai etc.

Da quello che so, le ricostruzioni sono abbastanza fedeli, anche se il punto di vista è sempre rigorosamente israeliano, ma d’altra parte si tratta di un romanzo e le malefatte israeliane non sono certo sottaciute, anche se grande simpatia verso non tanto i palestinesi quanto i loro capi non sembra esserci.

Se qualcuno ha visto quel peraltro bellissimo film che era Valzer con Bashir può capire quando dico che niente è sottaciuto ma la sofferenza maggiore sembra essere quella di chi è costretto a far finta di non vedere mentre i palestinesi di Sabra e Chatila vengono massacrati dalle milizie falangiste piuttosto che lo strazio di chi è massacrato.

Le parti che mi sono particolarmente piaciute sono quelle delle vite dei colonizzatori di una parte del Sinai che pochi anni dopo sono costretti ad abbandonare tutto perchè è stata fatta la pace con l’Egitto, e alcuni di costoro si ritrovano di nuovo lasciare le proprie case per un nuovo progetto di accordo con i palestinesi. Sappiamo che poi le cose, storicamente e politicamente, stanno andando in tutt’altra direzione, ma le lacerazioni interne e le conseguenze sia sui legami familiari che sulla lealtà dei vari apparati sono ottimamente rese.

Il meglio sono le scene di azione, sia all’inizio in Afganistan sia durante gli inseguimenti a chiave plurima in Israele. Qualche volta al protagonista vengono attribuite doti di combattente direi esagerate, ma il tutto tiene.

Non svelo nè l’invenzione vera del giornalista nè il progetto micidiale che salterebbe se lo scoop fosse reso pubblico, dico solo che risultano credibili nel contesto.

Un libro complesso, documentato, direi al livello del miglior Ken Follet.

Via Ripetta 155 (Clara Sereni)

viaripetta155Le manifestazioni piene di speranze di migliorare il mondo, lo scivolamento – troppo tardi avvertito – ad altro, il fumo dei lacrimogeni e l’aria pesante di fumo delle case, questo è reso al meglio nella verità di quegli anni.
La libertà degli amori, o piuttosto dello scambio facile, o meglio non appesantito da eccessive implicazioni energetico affettive, questa non sono sicuro che fosse davvero così leggera come viene proposta. Le gelosie potevano pure essere polical uncorrect ma tali erano, devastanti come ogni sentimento represso.
La parte di Clara Sereni che a me esce più vivida da queste pagine è la tenacia la forza di volontà la capacità di ottenere o meglio conquistare: una casa al centro di Roma, un’autonomia economica, un posto nella letteratura. Meglio ancora: guadagnarsi qualsiasi cosa importante con fatica ed impegno e rigore.
E il giusto orgoglio di essere passata per il lavoro di dattilografa, e per essere stata brava, anche molto brava, a livelli di eccellenza, in quel lavoro.
L’autoironia, sempre presente. Eppure autoironia non è la parola giusta. Distacco, forse? E nemmeno basta. E nemmeno è vero: non c’è distacco, no. Forse non c’è una parola unica per rendere il senso della partecipazione forte ai fatti raccontati e della distanza da cui vengono raccontati. Come da chi sia oltre.
Questo essere, o vedersi, oltre, è ciò che forse autorizza a chiamare ciascuno con il proprio vero nome (il cognome è sottinteso ma chi sa lo sa). Questo a me è sembrato superfluo, qualche volta non di buon gusto.
Non lo faccio mai, prima di scrivere di un libro, ma stavolta ho letto alcune recensioni. Sono rimasto sorpreso che in nessuna recensione, in nessuna intervista ci siano state considerazioni o domande sulle persone vere che abitano il libro. Citto Maselli ad esempio – “che stai scrivendo?” – di cui l’autrice è innamorata per anni, e con il quale anche la madre sembra aver avuto una relazione. Mi chiedo quale sia il senso di averne accennato di sfuggita, visto che non c’era l’intenzione di coglierne, nella scrittura, la drammaticità.
Questo essere oltre, mi dico, forse non è davvero così oltre.
“Colpevolmente”, nell’ultima frase, può essere letterariamente bello, ma a me è suonato stonato. Parte di quel dolore razionalizzato ma non redimibile, che rende così difficile collocarsi davvero oltre.
Clara Sereni non considera Via Ripetta 155 fra i suoi libri migliori, ma non le date retta: si tratta di snobismo.

Con le peggiori intenzioni (di Giovanni Piperno)

Due famiglie romane, una ebrea e l’altra di “gentili” – il punto di vista è quello dell’ultimogenito della famiglia ebrea – accompagnate per tre generazioni nelle fortune, le rovine, le contraddizioni, le imprese. Con legami conseguenti ad un matrimonio misto nella generazione di mezzo, avversato da entrambe le famiglie ma poi accettato.

I perbenismi e la voglia di epatér le bourgeois, i drammi adolescenziali, le amicizie tradite, le amicizie confermate nonostante, le generosità pelose, le ricchezze straripanti eppure insufficienti a garantire quel quarto di nobiltà a cui si aspira, e così via, tra il ghetto dietro via Arenula e il baretto dei gelati di Piazzale delle Muse, dove i rampolli futuri imprenditori di successo o falliti venditori di fumo si alternano fra l’epoca dei Monclair e quella dei jeans tagliati a livello mutanda. Senza nemmeno sfiorare – e non credo sia casuale – l’epoca degli eskimo.

Amo, in un romanzo, i fatti, i vissuti, che ci fanno conoscere i personaggi. Qui le descrizioni dei tumulti interiori precedono i fatti, peraltro con una maestria linguistica che non ho potuto fare a meno di ammirare.

Alcuni protagonisti che, al’inizio, migrano da Roma verso Israele, e alcuni riferimenti storici, mi hanno richiamato alla mente Il gioco dei regni, di Clara Sereni, e dove lì erano gli ebrei drammatici delle rivoluzioni e dei contrasti sionisti / comunisti qui sono gli sciamannati vitalisti sfrenati dei personaggi di Roth. Restano però riferimenti episodici.

Piperno, comunque, sembra non volere bene a nessuno dei suoi personaggi. Verso il protagonista – Davide – è addirittura feroce. Come se – e questa è tutta mia immaginazione – molti personaggi potessero essere ben riconoscibili, e trattar male l’eventuale alter-ego dell’autore potesse essere un mettere le mani avanti per la ferocia primaria riservata a tutti gli altri protagonisti. Esclusi, e forse non a caso, proprio il papà e la mamma dell’io narrante Davide (a me è risultato fastidioso l’elemento stilistico del continuo passaggio al “tu”).

Il mondo dei pariolini Piperno sembra conoscerlo bene, ed averlo subito non superficialmente.

Mi resta la considerazione, su cui mi piacerebbe approfondire la riflessione, sul fatto che tale libertà di linguaggio e di giudizio, senza dover temere di essere bollati per antisemiti, resti tuttora riservata a scrittori ebrei.

14Yiron, ai confini con il Libano. Essere ebreo.

Ada Sereni

Dopo un giro lungo le mura della città vecchia di Gerusalemme, partiamo per il kibbutz di Yiron, al confine con il Libano.

Saremo ospitati da Ada, cugina di una nostra amica.

Ada è un personaggio: tra gli 80 e gli 85 (civetta ancora con l’età), è arrivata in Israele con i genitori fuggiti dall’Italia, ha fatto parte dell’esercito illegale che ha combattuto contro gli inglesi, ha fondato questo kibbutz e qui è sempre tornata, pur avendo girato tutto il mondo. Ha un figlio in Australia, sta progettando un viaggio in Giappone, avrà fumato 10 sigarette in una serata, dopo una vita di insegnante ora lavora nella fabbrica di chiusure lampo del kibbutz, in cui l’attività principale è una cantina che produce più di un milione di bottiglie all’anno. Vino Kosher, e quindi con una nicchia di mercato esclusiva e garantita.

Kosher

Il kosher è un po’ come i nostri docg, o il biologico, o il biodinamico, nel senso che ciascuna di queste categorie di cibi è garantita da un’istituzione che ne dichiara la corrispondenza ai requisiti. Siccome il kosher può essere garantito soltanto dai rabbini, ecco una fonte di guadagno assicurata per i capi religiosi.

Non è questo l’Israele che sognavamo

Anche ad Ada chiedo non la speranza ma la previsione, e anche lei risponde che è molto pessimista: questi ragazzi che nascono qui e che tra i 18 ei 20 anni esercitano il potere su un popolo, che cosa faranno diventare Israele? Non è questo lo stato che volevamo. Sono soprattutto i nostri governanti a non volere la pace. Concorda con l’opinione del tappetaro palestinese che non c’è un leader in grado di prendere decisioni coraggiose, e intanto gli ortodossi e la destra si rinforzano sempre di più.

Essere ebreo/a

Le chiediamo se c’è una sinagoga, ci risponde di no, che il kibbutz è laico. Lei stessa mai stata credente. Allora che cosa significa essere ebrea? Non è una razza, perchè ci sono neri, quelli con i capelli rossi… , non è una religione, perchè ci sono ebrei – Ada lo è – che si sentono tali senza essere religiosi. Io non potrei mai “sentirmi ” cristiano, o cattolico, senza credere in queste religioni. Gli ebrei sembrano i soli a sentirsi tali indipendentemente dalla religione. Eppure la religione ne è il fondamento. Nemmeno è una “cultura”, perchè in quanto cultura anche io la sento mia. E allora? Ada sembra colpita dal fatto di non avere una riposta, o almeno di non poterla esprimere in modo che ci “arrivi”.

Mi resta un punto interrogativo enorme: sono un unicum nella storia dell’umanità? E allora non è proprio questa irriducibile differenza ad aver attirato le persecuzioni? E oggi, mantenere questa situazione di tensione permanente, non è forse un “bisogno” ineludibile? Come se potersi sentire vittima sia un modo di essere di cui non possano fare a meno.

Una storia chiusa (Clara Sereni)

Di solito leggo la sera, a volte il pomeriggio. E’ raro che mi metta la sveglia la domenica per essere sicuro di avere il tempo, prima di un impegno previsto per metà mattinata, di finire un romanzo. Così è andata per “Una storia chiusa”. Perchè volevo vedere come finiva. E fino a metà volevo vedere come finiva il giallo della pennetta usb lasciata in gran segreto di pericolo dal figlio tossico alla mamma nel residence per anziani, più le altre potenziali connessioni con – forse – il figlio traffichimo di Vandaosiris, con la nipote terrorista – forse – dell’ex partigiano, con l’agente dei servizi che si occupa della sicurezza della giudice rifugiatasi sotto falso nome, a fine carriera, nello stesso residence.
Ma dopo la metà i fili dell’intreccio del racconto perdono consistenza e lasciano spazio alle umanità dolenti dei protagonisti. E mi sveglio non tanto per sapere come va a finire ma come lo avrà fatto finire.
Il che, qui, non svelerò. Anche se non si tratta propriamente di un finale a sorpresa.
Ci vuole coraggio per scrivere un romanzo i cui protagonisti principali sono tutti vecchi, con pochi personaggi di contorno – figli, nipoti, l’assistente sociale – di età diverse.
E ci vuole bravura per prendere – se non è consapevolezza piena è stare appieno nel tempo presente – la struttura di una serie televisiva, di quelle fatte bene tipo Lost, dove la compresenza casuale di più persone è l’occasione per esplorare in parallelo le relazioni del presente e i passati di ciascuno, e portarla, oggi, in un romanzo.
Quella che all’inizio appare la protagonista, la giudice, piano piano va sullo sfondo, a differenza di altri romanzi o racconti di Clara Sereni, in cui la presenza – diretta o indiretta – dell’autrice è sempre molto forte. Mi richiama lo sfondo, sempre dello stesso colore, delle coperte ad uncinetto che Margherita continua a tessere e a tornarci indietro disfacendo maglie su maglie perchè anche se nessuno se ne accorgesse me ne accorgerei io se non fossero perfette.
E il fascista dalle mani d’oro che ripara tutto e che un altro ospite ha riconosciuto – forse – come il feroce assassino da cui miracolosamente si salvò. E Olga, che accende le candele, nei rispettivi anniversari, per i morti delle stragi di stato, e disputa con Dante se il Vajont vada considerata tale.
E altri. Chi più chi meno vicini alla morte. E vivi. Con la memoria riverberata nel presente.
Un senso di compiutezza. Di vite dolenti, ma ciascuna a suo modo vissuta.
Post scriptum: ci vedo già, dentro, un testo teatrale. Forse anche una sceneggiatura per un produttore coraggioso. Quindi, forse, una storia non del tutto chiusa.

Acciaio (Silvia Avallone)

I personaggi: due ragazze accompagnate dalla tarda adolescenza a pre-adulte. E l’acciaieria dove si fanno le rotaie per tutti i treni del mondo. Questi i protagonisti di “Acciaio”.

Poi: i ragazzi, i genitori, alcune amiche. Infine, l’Elba: così vicina così lontana. Causa iniziale – con le sue miniere – dell’esistenza di Piombino, e ora sta lì, a vista tutti i giorni, meno di un’ora di traghetto, ma posto tra l’alieno e l’irraggiungibile per l’umanità giovane della città cresciuta intorno agli altiforni che non si spengono mai.

Sono diffidente, in principio, verso le opere prime di scrittori giovani che vincono subito qualche premio (“Acciaio” ha vinto lo Strega). Tendo a pensare a manovre di case editrici che vogliono lo scrittore-personaggio. Magari ci saranno pure state, le manovre, ma “Acciaio” è un gran bel libro e Silvia Avallone una signora scrittrice.

Avevo comunque già un buon viatico da Clara Sereni, che mi aveva detto di aver votato proprio per “Acciaio”, allo Strega, quando i miei amici di Piombino me l’hanno regalato, perciò…

Perciò i libri posso distinguerli in tre categorie: quelli che non vale la pena leggere e questi, dismessi da tempo i sensi di colpa, li lascio perdere serenamente. Poi ci sono quelli ben scritti, con storie attraenti, che in certi momenti ti chiedi dove andrà a parare ma che ti dici comunque vale la pena continuare. Infine ci sono i libri che non vedi l’ora di riprendere in mano per proseguire.

“Acciaio” sta nell’ultima categoria. Dopo poco i personaggi sono persone che conosci, e le cose che succedono, le vicende che li toccano sono cose che succedono a persone che conosci. Perciò può capitarti di piangere se qualcosa di brutto succede a qualcuno di loro. Forse anche perchè il tuo migliore amico ci lavora, in quella fonderia.