La festa dell’insignificanza (Milan Kundera)
Stalin racconta di come, andando a caccia, vide su un albero ventiquattro pernici e di come, avendo solo dodici cartucce, potè colpirne solo dodici.
Siccome a Stalin piacevano molto le pernici, tornò a casa, si procurò altre dodici cartucce e così potè prendere le altre dodici.
Stalin raccontava questo aneddoto di vita vissuta e poi si ritirava in una stanza da dove poteva ascoltare i commenti dei presenti che nel frattempo si erano raccolti nel pisciatotio per sbeffeggiare di nascosto il grande capo, alla cui presenza nessuno si era azzardato a muovere obiezioni e anzi tutti avevano applaudito la sua sagacia e abilità venatoria.
Una donna vuole suicidarsi. Si butta nel fiume, ma un giovane si tuffa per salvarla. La donna non vuole essere salvata, quindi si divincola e, visto che il ragazzo insiste a volerla salvare, fa in modo di tenerlo sotto finche non smette di respirare. A qual punto la donna ci ripensa, decide che vale la pena continuare a vivere ancora un pò e nuota verso riva.
La festa dell’insignificanza, come credo tutti gli scritti di Kundera dopo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” – se finisce il mondo e devo salvarne solo uno io salvo questo – non è un vero romanzo. È un saggio di filosofia e un esercizio di scrittura sublime.
Non sempre colgo i nessi, che peraltro nel profondo sento esserci.
Qui, una pagina sull’io come volontà e rappresentazione e sul disprezzo.
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