Il matematico indiano (David Levitt)
Matematica e geometria vanno forte, nei titoli dei libri degli ultimi anni, ma qui non è un pretesto: Ramanujan è il matematico indiano davvero vissuto fra Cambridge e Oxford a cavallo della prima guerra mondiale.
È Hardy – importante matematico inglese dell’epoca – che, ricevuta una lettera di Ramanujan, ne intuisce il genio e fa in modo di farlo arrivare in Inghilterra.
Ramanujan è in origine un autodidatta che, solo bevendo avidamente qualsiasi testo di matematica o geometria gli capiti tra le mani, è arrivato a risultati straordinari. Che, appunto, colpiscono Hardy. Dirà di se stesso che l’esser riuscito a far arrivare Ramanujan in Inghilterra è stato il suo maggior contributo alla matematica.
Fin qui, la parte storica sicuramente vera.
Le relazioni tra gli accademici di Cambridge, gli amori, le gelosie personali e professionali, le invidie, le difficoltà di ambientamento di Ramanujan sia culturali – bramino ortodosso e vegetariano – che pratiche, e le magie delle scoperte matematiche che tanto mi affascinano quanto mi risultano di inarrivabile astrattezza.
Le apparizioni di personaggi come Russel, Keynes, Wittgenstein danno la misura del livello di concentrazione di intelligenze in quei luoghi in quel periodo.
La bravura di Levitt sta nel raccontarti gli intrecci della vita quotidiana come se davvero lui stesso l’avesse vissuta, tanto ti senti immerso, nel leggere, in quell’atmosfera di eccitazione intellettuale, di miserie personali e di slanci solidali.
Un romanzo denso, che mi ha lasciato pieno di quella tristezza feconda.
PS trovo ignobile che nella nota di copertina sia citato Hardy e non Ramanujan.
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