Per mano mia (Maurizio De Giovanni)

Quinto romanzo con protagonista il commissario Ricciardi, nella Napoli degli anni ’30.

Il commissario Ricciardi è ricco di famiglia, è unanimemente riconosciuto come eccellente investigatore, non è amato dai fascisti perchè, pur avendo una posizione di tale responsabilità, non li blandisce, anche se mai si esprime apertamente in modo critico.

Stavolta il morto è proprio un funzionario del regime, incaricato, pur senza una veste ufficiale, di controllare il porto. I pescatori, in realtà.

È l’occasione anche per uno spaccato sulle polizie parallele estratte dalle milizie fasciste, di cui ci resta ancora qualche retaggio: non era la guardia forestale il braccio armato del tentato golpe di Junio Valerio Borghese negli anni ’60?

Godibili le descrizioni dei presepi e di chi ne costruisce statuine e ambienti.

C’è pure, come in ogni buona sceneggiatura – sì perchè ormai i romanzi hanno la struttura cinematografica – la storia parallela del fidato brigadiere Maione, peraltro ottimamente  amalgamata nell’insieme.

Il commissario Ricciardi ha una singolarità: percepisce le ultime parole dei morti di morte violenta. Questo non sempre è di aiuto alle indagini, anzi a volte è un ostacolo, perchè alle parole manca il tono, l’inclinazione, il contesto, e questo può facilmente essere fuorviante.

Da qui, anche, la sua tristezza di fondo e l’incapacità di instaurare relazioni significative e durature. Qui è conteso tra la bella e famosa attrice che frequenta gli ambienti che contano a Roma, venuta apposta a Napoli per lui e per l’invidia di tutti, e la donna che il commissario guarda la sera nella persiana di fronte e alla quale non ha il coraggio di proporsi.

Il finale è a sorpresa, ma coerente.

Mi è venuta voglia di leggere i precedenti.

Mi è venuta anche voglia di leggere un giallo con il protagonista che, invece di essere sfigato al modo che l’autore gli ha inflitto, sia bello intelligente spiritoso fortunato e se la spassi serenamente.

PS Riccardo Scamarcio ne ha comprato i diritti e ne uscirà uno sceneggiato (meglio di “fiction”, no?) televisivo.

La briscola in cinque (Marco Malvaldi)

Primo di una serie di gialli nell’elegante blu-Sellerio che – ho appena letto – stanno per diventare anche un prodotto tv  (con Valerio Mastrandrea nella parte del protagonista).

Il protagonista è Massimo, barrista – due erre: tra le cose più godibili gli interventi in tosco/livornese – con una sua etica professionale che non gli permette di servirti un cappuccino caldo alle tre del pomeriggio d’estate. Nel bar vicino alla pineta e al mare in un luogo immaginario – Pineta – fra Livorno e la Versilia, dove appunto è tutta una pineta lungomare.

Ne ho letti di seguito altri due, perchè scorrono gradevolmente e Massimo – ingegnere (o chimico: insomma un tecnico di alto livello) prestato al barrismo – è simpatico quanto basta e sfigato quanto basta: tradito in passato dalla moglie sembra diventato asessuato, nonostante l’attrazione per la bella Tiziana che ogni tanto lo sostituisce quando è in cerca di assassini.

Il colore è dato dai quattro terribili vecchietti – tra cui il suocero – che gli occupano lo spazio migliore all’aperto del bar e con il cui aiuto – a volte casuale – risolve assassinii di ragazze lasciate in un cassonetto, scienziati giapponesi avvelenati in un convegno e così via, lasciandone il merito al piuttosto ottuso commissario della zona.

Che dire? Si leggono in un fiato, sotto l’ombrellone vanno benissimo.

Il silenzio dell’onda (Gianrico Carofiglio)

Gradevole, scorrevole, piacevole.
E costruito, anche se ben costruito: le due storie a capitoli alternati che nel finale si integrano non hanno forzature ma sono prive di necessità. Un po’ tutto il libro è privo di necessità.
Un buon esercizio di scrittura senza passione. Se fossi un recensore stroncatore lo direi un libro inutile, e già mi pento di questo banale – “se fossi…” – artificio retorico, e poi mi assolvo con banale chiama banale.
Mi è venuto detto con troppa cattiveria, forse perchè ritrovo qualche somiglianza con alcuni aspetti limitanti (il paragone vale solo per “limitanti”, per carità) della mia scrittura.
Si può leggere, si può leggere, infine.

Un grande gelo (Arnaldur Indridason)

Ancora un giallo dal nord, stavolta dall’Islanda. Un bambino di madre thailandese e padre islandese viene trovato morto nel parco. E’ stato ucciso con un’arma da taglio. Questo nelle primissime pagine, non rivelo niente.

E’ l’occasione per restituirci le tensioni razziali, e intanto io penso che cosa spingerà qualcuno, dalla Thailandia, a scegliere come meta proprio l’Islanda? Eppure pare che i thailandesi siano una componente importante dell’immigrazione di lì. Qui, ad esempio, non se ne sente parlare.

È un libro di quelli che procedono stancamente fino a metà e poi prendono corpo e sostanza. L’elemento che domina è la stanchezza, che si sovrappone alla mia di sapere già come andrà a finire, non perchè io abbia “scoperto l’assassino”, ma perchè il poliziotto è solo, con un rapporto difficile con i figli, umano e disulluso, sopraffatto dalla miseria umana con cui è costretto a misurarsi eppure deciso a venire a capo di ogni singolo caso che gli si presenta.

Altro elemento significativo è lo spaccato degli adolescenti, dei rapporti tra di loro, con i genitori, con gli insegnanti.

Se non è una leggenda metropolitana che nei paesi scandinavi c’è la maggior percentuale di suicidi in rapporto alla popolazione, beh allora questo libro aiuta a capirne alcune ragioni.

Prima o poi comprerò qualche altro libro di Arnaldur Indridason.

Il nostro traditore tipo (John Le Carrè)

m/

Credo di aver letto tutto Le Carrè. Il che, per quanto mi riguarda, è vero soltanto anche per Kundera.

Anche se Le Carrè ha scritto soltanto romanzi di spionaggio (più un giallo, poco riuscito), non lo considero uno scrittore “di genere”, ma un grande scrittore.

Anche ne “Il nostro traditore tipo” c’è tutto quanto me lo fa amare: personaggi credibili con spessore psicologico sempre ben definito, una storia un cui un outsider (questo soprattutto nei romanzi scritti dopo il 1989: prima, i protagonisti sono soprattutto professionisti dei servizi) si trova in qualcosa di cui non può afferrare le dimensioni e tuttavia decide di navigarci, anche se ciò comporterà rischi estranei alla propria vita usuale.

La storia è credibile e raccontata in quel modo che fa venire voglia che arrivi la sera per scoprirne il seguito. Insomma, uno di quei libri che danno la frenesia e i timore – perchè: e poi che cosa leggerò? – di arrivare alla fine.

Le Carrè è da leggere tutto, senza eccezioni.

La casa del sonno (Jonathan Coe)

La costruzione dell’intreccio è magistrale.

L’alternarsi di capitoli pari e dispari a vent’anni di distanza, con tutti i fili al posto giusto e senza mai lasciare il lettore disorientato è affascinante.

Eppure, l’emozione, quando potrebbe prenderti, resta sospesa, perchè quella che appariva una storia drammatica non capisci più bene se non sia invece virata nel grottesco.

Nei corsi di sceneggiatura si insegna che in una storia una coincidenza ci può stare, due diventano sospette, tre rendono l’insieme poco credibile: gli ultimi capitoli de “La casa del sonno” sono così pieni di coincidenze che viene da pensare sia stato questo il modo per strizzare l’occhio al lettore e dirgli non mi prendere troppo sul serio, mi ci sto divertendo.

Il che mi lascia il sapore di un chè di immorale, visto che la storia qualche emozione aveva suscitato.