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La città dei vivi (Nicola Lagioia)

Una brutta storia del 2016, quella raccontata ne La città dei vivi da Nicola Lagioia: due ragazzi, Manuel e Marco, per due giorni torturano e infine uccidono, in un appartamento di Roma, Luca, che conoscevano appena.
Un delitto insensato, senza movente, fa particolarmente orrore, appare più disumano che altri delitti.
Non c’è nessuna indulgenza sui particolari di quei due giorni, c’è uno scavare, con attenzione e comunque rispetto, nelle vite dei due carnefici e della vittima, c’è il tentativo di entrare in contatto con i loro mondi.
C’è il tentativo di entrare in contatto con l’umanità, comunque, della ferocia e della noia, di non scansare i mostri perché altro da noi.
Tentativo, credo, riuscito. L’autore ha sentito la necessità di esserci, e per questo di scrivere in prima persona. Avrebbe potuto fare altre scelte, ma fin dall’inizio ci fa sapere di essere stato toccato personalmente dalla vicenda, per fatti lontani anche se, nel loro contenuto, non paragonabili. Ma sotto ci sono, anche se non del tutto esplicitate, le domande “se si fossero presentate circostanze particolari, potrei esserne stato protagonista anche io, allora? Potrei domani?”.
Domande rivolta a sé stesso, e questo gli dà legittimità e forza per proporle a chiunque legga. E io credo che ciascuno possa ritrovare, nella memoria, situazioni vissute. Questa è la ragion d’essere, credo, di un libro così difficile. Dove parlano amici, parenti, vengono ricostruite circostanze, dove attraverso i racconti di chi li ha conosciuti, di chi li ha cresciuti, i tre protagonisti acquistano forma e dimensione.
È un libro i cui protagonisti sono uomini. Le donne presenti sono figure di contorno rispetto alla narrazione. D’altra parte, non credo esistano esempi di donne che seviziano qualcuno fino alla morte. Dunque, è il maschile che deve interrogarsi. Così come ne “La scuola cattolica” che, scavando nel delitto del Circeo, decostruisce spietatamente, e ne mostra le viscere aperte, un sistema educativo, un quartiere, il genere maschile.
Roma non ne esce bene, ma nemmeno la Puglia ne usciva bene, anzi, ne “La Ferocia”, e la letteratura o fa venire dubbi oppure a che serve scrivere?
A trovarci un difetto, l’inutile storia parallela del turista olandese, mero espediente per aprire e chiudere, secondo me del tutto superfluo. Continuo ad apprezzare la scrittura di Nicola Lagioia e il suo modo di intendere l’impegno civile anche nella scrittura.

Esquilino (Nicola Lagioia)

Riflessioni oneste di un intellettuale sul rapporto fra intellettuali e poveri, sulla totale mancanza di un luogo linguistico di confronto.

“Un intellettuale è costretto a analizzare le acque del fiume in cui nuota molte ore al giorno per giungere alla conclusione che la sorgente è marcia o avvelenata. Un povero, per fare la stessa cosa, ci mette meno di un secondo.”

“Oneste riflessioni” è la qualità principale di questo libretto di sessantaquattro pagine, formato minuscolo, che Feltrinelli di viale Marconi (Roma) ha inopinatamente seppellito nella zona “Turismo”, ciò che potrebbe indurre l’autore, in una ipotetica, quanto improbabile, futura edizione, ad aggiungere una quarta ricognizione alle tre presenti.

Otto euro sono però troppi: va bene che non è la quantità a fare la qualità, ma una certa proporzione andrebbe salvaguardata. Ero stato tentato di leggermelo tutto in libreria, visto che c’era una poltrona disponibile.

Mi è rimasta la curiosità, non soddisfatta nemmeno dal web, circa queste “Edizioni dell’asino” che vantano il sostegno di Capossela, Lerner, Garrone, Servillo e tanti altri intelletuali di primo piano.

La ferocia (Nicola Lagioia)

Feroce è feroce, il titolo è il suo.
Un palazzinaro pugliese, che fa crescere la propria azienda fino al successo internazionale. Moglie e quattro figli tutti coinvolti, ciascuno a suo modo, nelle nefandezze necessarie, quasi deterministiche, alla crescita.
Nel sud dove i poteri sono quelli mischiati dei grandi professionisti, dei baroni, dei magistrati, dei funzionari piccoli o grandi purchè abbiano una qualche capacità di interdizione sui processi decisionali.
Comincia con una tragedia, un incidente, e per tutto il libro ci chiediamo perchè vogliano farla sembrare qualcosa di peggio di quello che è.
Piano piano lo capiremo, e saremo portati quasi a farcene una ragione.
L’autore schifa palesemente i suoi personaggi, e però a tutti vuole anche un po’ bene, almeno a quelli della famiglia, di ciascuno esprime la carica di umanità, non ci sono mostri, anche se tutti, nessuno escluso, portano il proprio carico di colpa, quando per azione cosciente, quando per omissione consapevole, quando per immersione – che appare inevitabile – nella fanghiglia della provincia feroce.
La storia procede anche come un bel giallo ma il piacere della lettura sta nell’emergere delle sfaccettature dei personaggi: il patriarca, la moglie, i due figli maschi, le due figlie femmine. Nessuno è innocente, nemmeno chi, già gravato di un incolpevole peccato originale, ha cercato di salvarsi allontanandosi. Tutti sono mirabilmente invischiati dalle tessiture del patriarca che sempre si muove ad unico beneficio della famiglia.
La scrittura è tanto barocca quanto precisa, a volte eccessiva, a volte fastidiosa, ma bastano poche pagine a rassicurarci che non si tratta, non solo, di un esercizio di bravura: dà l’idea di una volontà dell’autore di volerci trasmettere tutto il miscuglio di scirocco e sudore e aliti pesanti e profumi costosi e vere eleganze tuttavia svaccate di fondo.
La costruzione cronologica con i ritorni indietro rasenta la perfezione: a volte restiamo un attimo confusi ma sappiamo sempre a che punto emotivo e temporale siamo.
Solo il finale mi è risultato un po’ “facile”. Ma il vero finale è di qualche pagina prima, quando si capisce che cosa è successo davvero e l’abisso del patriarca appare senza fondo.
Non conoscevo affatto Nicola Lagioia, cercherò qualche suo romanzo precedente, una volta tanto il Premio Strega ha fatto una buona scelta.