Articoli

Homo Deus (Yuval Noah Harari)

Un concentrato di intelligenza, come ogni volta che un rigoroso esame del presente e del passato induce a porsi domande epocali, senza la pretesa di avere le risposte.

Non riesco a riprodurre i percorsi con i quali Harari arriva ad una serie di – ipotetiche e potenziali, sia ben chiaro – previsioni, cerco di limitarmi ad esporne alcuni assunti.

L’evoluzione tecnologica consente quantomeno di “pensare” che l’immortalità sia possibile, insieme al raggiungimento della felicità, ma questi bei progetti sembrano presupporre un’economia a crescita infinita che probabilmente ci condurrà all’estinzione, per mano di creature superiori all’ homo sapiens che noi stessi stiamo cominciando a generare.

Uno degli assunti, mi pare sia proprio il principale, su cui poggiano gli argomenti di Harari è che i neuroscienziati avrebbero dimostrato che non esisterebbero gli individui, ma che ogni essere umano sarebbe costituito di un insiemi di algoritmi, sopratutto biochimici. Ad esempio, le emozioni – “provare” qualcosa – sarebbero prodotte da una serie di algoritmi che sono stati essenziali per lo sviluppo dell’homo sapiens, secondo i principi di Darwin della sopravivvenza del più adatto.

Se “sentire” deriva da algoritmi biochimici, allora anche gli animali “sentono”, e non si può escludere che “entità” di provenienza informatico/elettronica possano/potranno “sentire”. La superiorità dell’homo sapiens è data dalla nostra capacità di collaborare e di farlo con estrema duttilità, a differenza ad esempio delle formiche o delle api,

Altra superiorità dell’homo sapiens sta nella capacità di raccontare storie, e dunque di dare un senso al passato, fare previsioni per il futuro. costruire entità immateriali e intersoggettive come il denaro, gli dei, etc, con funzioni rilevantissime nella nostra esistenza.

Fra queste entità, quella che da qualche secolo ha prevalso, è l’umanesimo, che riconosce una serie di diritti fondamentali a ciascun uomo, fra cui la capacità di realizzarsi al meglio. Qui il punto è in che cosa consisterebbe la libertà: di certo possiamo scegliere quali azioni compiere, ma possiamo scegliere quali desideri avere? E se questi sono determinati da processi biochimici in che cosa consiste esattamente la libertà?

L’evoluzione dell’economia, d’altra parte, tende a rendere sempre meno utili i singoli individui, o meglio la massa dei singoli individui, che possiamo constatare come vengono sempre più rapidamente sostituiti da algoritmi non-umani, anche se creati da uomini. Ma a mano a mano che questi nuovi organismi diventano “capaci di apprendere” sempre meno l’intervento umano sarà necessario. Basta pensare alla medicina: una volta immagazzinati una mole sterminata di dati di tutti gli individui, un computer potrà fare nella maggior parte dei casi diagnosi più accurate e proporre terapie più efficaci della maggioranza dei singoli medici.

La nuova religione dell’umanità potrebbe essere basata appunto sui dati. I Datisti sostengono che un computer che conosca la maggior parte delle informazioni significative su di me potrebbe essere in grado di conoscermi meglio di me stesso e di anticipare i miei desideri. Il che è ciò che, in forma ancora largamente grezza, già fanno i vari Google, Facebook, Amazon etc.

Non si può perciò escludere che saremo governati, “per il nostro bene” da macchine da noi costruite che si saranno da noi emancipate.

Sicuramente ho tagliato con l’accetta concetti che Harari espone con anche un sempre interessante corredo storico e scientifico. Difficile condividere la tesi centrale, che mi fa tornare alla mente suggestioni liceali / universitarie del Barkley che considerava la realtà come meri “fasci di sensazioni”, dell’individuo come “insieme di algoritmi”. Difficile anche confutarla.

Scene dalla vita di un villaggio (Amos Oz)

Sono solito fare un’orecchia in basso – so che qualcuno soffrirà di lesa librità – sulle pagine dove ho trovato una frase un concetto un insieme di suoni di parole che mi abbiano colpito.

(In basso, per distinguerle da quelle – orrore orrore – che faccio in alto, e che ovviamente a mano a mano richiudo anche se le cicatrici restano, per mantenere il segno di dove sono arrivato a leggere)

I libri di Amos Oz sono fra i più massacrati da questa mia abitudine. Può parlare di niente e la sua scrittura da sola vale la lettura.

“Scene dalla vita di un villaggio” non ha la grandezza epica di “Una storia d’amore e di tenebra”, e sono rimasto un po’ deluso dallo scoprire che non di un romanzo si tratta ma di alcuni racconti, il cui filo comune – tenue, proprio tenue – è dato dallo svolgersi tutti nello stesso luogo fisico.

Qualche piccolo particolare – un oggetto, il parente di qualcuno del racconto precedente, cose così – fa da trait d’union fra un racconto e l’altro. Bisogna anche scovarli, non sempre ne ho avuto voglia e perciò sulla fiducia ho deciso che se avessi letto con più attenzione li avrei trovati, perchè ci dovevano essere. Magari non ci sono. Non sempre.

A distanza di poche settimane dalla lettura ne ricordo poco… una sensazione di polvere, di indefinitezza, di situazioni appese, personaggi fluttuanti.

Insomma: non scopriremo mai se davvero qualcuno scava di notte sotto alla casa, e nemmeno ci verrà proposta una qualche ipotesi sul perchè qualcuno dovrebbe farlo.

Queste, le righe finali:

“…. i discorsi non servono a niente, comincia un altro giorno torrido e bisogna andare a lavorare. Chi può lavorare, lavori, fatichi e taccia. Chi non ce la fa più, per favore, che si degni di morire. Chiusa la faccenda”