L’immortalità (Milan Kundera)
Riletto dopo tanti anni.
Dopo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” Kundera non ha più scritto veri e propri romanzi, o almeno non più nel modo classico.
“Il romanzo non deve somigliare ad una corsa ciclistica, bensì ad un banchetto con molte portate”, scrive, lasciando come soavemente scivolare, tal quale il leggero movimento della mano della donna che fa da incipit, proprio il suo romanzo più famoso.
Di Kundera amo l’amarezza profonda che accompagna una passione contenuta e però forte e sempre presente. E l’ironia distaccata che colpisce con una punta così accuminata che te ne accorgi solo dopo che ti ha penetrato il fegato a fondo. E l’amore per l’Europa che ha potuto conoscere dal centro geografico politico e culturale, come chi è vissuto fra Praga – per nascita – e Parigi – per scelta obbligata, e come chi ne vede la grandezza passata e l’ineluttabile declino presente.
La storia sono tante storie, cucite che non sembrano collegate quando un nome buttato là ti rivela che quel nuovo personaggio è proprio quello o quella tale di cui capitoli dietro e anche se puoi fare fatica a ricollegare proprio tutto sai che le connessioni ci sono, sono profonde e ti restano comunque dentro.
Appaiono anche Goethe, Beethoven, Hemingway e sono – senza tempo – fra i personaggi di oggi, come se ne avessero già catalogato da tempo ogni sentimento.
Mi accorgo che quanto ho scritto finora può valere per tutto Kundera, ed in effetti è l’autore che ho letto di più, di cui ho letto tutto più volte, e leggerlo mi dà un piacere non esprimibile fino in fondo a parole.
Continuo e rileggerlo, infatti, sapendo che troverò ogni volta qualcosa di nuovo.
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