La libertà di andare dove voglio (Reinhold Messner)
“…e così sono diventato un drogato di queste intense esperienza sui monti, e ho imparato a contenermi per poter proseguire. Nella libertà è compresa anche la rinuncia, però la libertà non ha limiti“. (pag 40).
Quattrocentocinquanta pagine di scalate e attraversamenti, di imprese al limite delle capacità umane. Quando, rispetto a tanti modi di sfidare l’impossibile, ci chiediamo ma chi glielo fa fare, qui una risposta la troviamo. Un Ulisse che cerca più di tutto sè stesso. E che sembra averlo trovato. Reinhold Messner si chiede di continuo che cosa lo spinga, che cosa lo induca a mettere in secondo piano tutto il resto, compresi gli affetti più cari.
Si tratta di una specie di spinta interiore irriducibile, è l’incarnarsi di quel “è più forte di me”, che a volte utilizziamo per non prenderci la responsabilità fino in fondo di qualche nostra scelta. Messner le responsabilità se le prende tutte, nei successi e nelle disgrazie. Dalle prime scalate, giovanissimo, sulle Dolomiti, all’Everest senza bombole di ossigeno, alla salita su tutte le quattordici montagne più alte di 8.000 metri, alla ricerca di “chi ci riesce per primo” – in concorrenza con un miliardario americano, e vincerà un poco noto canadese, di cui Messner riconosce quasi con affetto il primato – a scalare le sette montagne più alte di ciascuno dei sette continenti (ed è buffo leggere di queste diatribe sulla definizione di continente, che diventa fondamentale per decidere del primato) fino all’attraversamento dell’Antartide e dei deserti.
Non mi sono mai sentito al limite delle mie forze, nè mai l’ho cercato, nelle modeste montagne su cui sono salito, ma di quei momenti di essere soli nella natura e di quella selvaggia gioia al superamento di un ostacolo che sembrava impossibile un lieve sapore mi è capitato di sentire; Messner restituisce quale potrebbe essere stato il sapore pieno. E siccome scrive anche bene, fa vivere a chi legge la difficoltà da superare, la decisione da prendere dopo la quale alcune decisioni non si potranno più prendere, fa vivere il freddo dei bivacchi su uno spunzone, bagnati a meno trenta gradi, la difficoltà di comunicazione con il campo base o con altri alpinisti. L’amputazione di alcune dita congelate da entrambi i piedi. La tragedia della perdita di un fratello, di un amico, di un compagno di avventura.
Ho scoperto qui che le difficoltà maggiori non sono di ordine tecnico, come immaginavo, tipo una parete liscia senza appigli, ma dipendono dalla consistenza della roccia, che si sbriciola, non tiene, o dalla consistenza della neve – mi sosterrà o ci affonderò? – o da come girerà il vento rispetto alle potenziali slavine, o dai sassi che cadono da più in alto.
Di alcune miserie umane – chi ha letto il libro sul K2 di Walter Bonatti se ne sarà fatta un’idea – che attraversano anche il mondo dell’alpinismo, che ci piacerebbe immaginare tutto eroismo e altruismo, Messner dice qualcosa ma passandoci sopra senza addentrarvisi. Non dev’essere per niente un tipo simpatico, Messner, anche se pare sia un eccellente conferenziere, a cui piace condividere le proprie esperienze, a cui è anche necessario guadagnare per finanziarsi nuove imprese, ma il cui mondo è altrove, e che ha “sempre simpatizzato con una categoria particolare di persone, un po’ fuori dai ranghi, anticonformiste, tendenzialmente girovaghe, studenti fuori corso, guide, bracconieri, visti da tutti con un misto di scetticismo e di rispetto.”
La sua ultima impresa, finora, passati i settant’anni e quindi tenendo conto dei limiti fisici, è un castello ristrutturato con le sole proprie forze, dove ha sede il Messner Mountain Museum – MMM – che mi propongo di visitare.
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