07Netanya e Tsfat (Jeudith ce la vieta)
21 gennaio 2011
Netanya
Citta’ a nord di Tel Aviv, allungata per chilometri lungo la linea della spiaggia. Una volta erano tutte dune, qui, ci racconta Jeudith, fra il triste per il passato che non c’e piu’ e l’orgoglioso per le realizzazioni.
In effetti le costruzioni nuove sono tantissime, con una struttura armonica. Fa effetto sentire “questa e’ la parte vecchia” e vedere palazzine degli anni 50/60. I prezzi si stanno alzando: stanno comprando molti dalla Francia e dal Marocco per venirci a passare le vacanze. Il mare e’ bello, pulito, qualche coraggioso fa il bagno.
La colazione
Anche stamattina, come quando siamo stati a Giaffa, ci porta a fare la tipica colazione ebrea. A Giaffa era un locale molto popolare, qui a Netanya un posto sul mare,
che si puo’ facilmente immaginare strapieno d’estate. Un’altra colazione tipica a base di uova stamattina proprio no. Percio’ chiedo una coppa di yogourt con muesli.
Mangiare in Israele
Finora ampiamente sopra le aspettative, per qualita’ e prezzo. Aggiungo che il caffe’ e’ buono dappertutto e non c’e’ bisogno di spiegare che dev’essere corto.
Jeudith ambasciatrice di Israele
Oggi l’ha reso esplicito, anche se era abbastanza chiaro: si propone nei nostri confronti come un’ambasciatrice di Israele, in modo che possiamo raccontarne le tante cose belle e dire che stando qui le cose sono molto diverse da come giornali e tv le descrivono. In effetti era stata abbastanza comune la reazione degli amici, sia miei che di Uliana, ai quali dicevamo di questo viaggio: “perche’ Israele?”. Mi propongo di dirlo piu’ a fondo. Ora dico che la dichiarazione di Jeudith quasi mi libera dal “dovere” di contestarle la parte imperialistica della politica.
Piu’ tardi, di fronte al monumento ai soldati uccisi su un autobus da un attentatore suicida non ci sono molte parole da dire. Jeudith conosce la madre di uno di costoro, e ci racconta che i genitori non hanno voluto che la macchina del figlio fosse spostata da davanti casa.
Jeudith porta, legato su uno specchietto retrovisore, una striscia gialla che testimonia la sua solidarieta’ per un soldato da anni prigioniero di una qualche fazione palestinese. Ne notiamo altri.
Stasera, venerdi’, ha acceso due lumini, e ci dice che e’ tutta qui la sua partecipazione alla tradizione. I due lumini mi pare di capire che segnino l’inizio del sabato. Alle mie domande sul loro significato risponde che e’ importante che non siano usati “per fare luce”.
Tsfat e Jeudith
Non c’e’ stato niente da fare: anche se ci siamo passati abbastanza vicini, non ci ha voluto portare a Tsfat. E bisognava tornare prima che facesse scuro perche’ non le piace guidare di notte, e il cane doveva mangiare… finalmente le e’ uscito che era un posto che amava molto, pieno di artisti – mi sono immaginato una specie di Calcata meno casereccia – e che da qualche anno era stato eletto a terreno di conquista dagli ortodossi, che lo hanno invaso e se ne stanno appropriando. Percio’ non ne voleva vedere lo scempio.
Ancora delle inesattezze che è bene e doveroso correggere: i francesi che stanno comprando case a Netanja non lo fanno per comprare la casa delle vacanze (qualcuno pure in effetti), lo fanno perché si stanno trasferendo in massa dalla Francia a causa dei continui attacchi antisemiti: preferiscono vivere in un paese dove non devono aver paura di indossare una kippà o mandare i loro figli in una scuola ebraica senza che vengano trucidati!
Le confermo che molte persone sono orgogliose del loro paese (magari lo fossimo noi italiani) e per questo tentano di spiegarne le cose belle che in europa non si conoscono a causa del modo distorto in cui si parla di Israele.
Torno a sorridere nel leggere quello che scrive a proposito di “Jeudith porta, legato su uno specchietto retrovisore, una striscia gialla che testimonia la sua solidarietà per un soldato da anni prigioniero di una qualche fazione palestinese. Ne notiamo altri.”
Ma veramente lei non aveva mai sentito parlare di Gilad Shalit che per cinque anni e mezzo era stato tenuto in ostaggio dopo essere stato rapito dagli aSSaSSini di hammazz? Ma dove vive o dove viveva sulla luna?
In merito ai lumi dello shabat le propongo un approfondimento:
“Gli ebrei si sono mantenuti in vita grazie all’osservanza dello Shabbàt”. Questo insegnamento dei Maestri non è una esagerazione. Per sei giorni l’uomo deve lavorare duramente, deve compiere ogni tipo di opera creativa e questo lo porta spesso lontano dalla famiglia e gli impedisce di avere un rapporto sereno con i propri simili.
Di Shabbàt tutti sono uguali: i servi assumono gli stessi diritti dei loro padroni e nessuno può avvalersi dell’opera di un suo simile per cui, grazie ad esso, si può ricostruire quel rapporto con il prossimo che la fremente attività operativa tende sempre più a guastare. A ragione fu scritto che “il riposo dello Shabbàt è la radice di ogni progresso spirituale e sociale ed è legato ai pensieri ed alle aspirazioni più elevate dell’uomo: Dio, la dignità dell’animo umano, la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini, la supremazia dello spirito sulla materia” (Grunfield).
Affinché lo Shabbàt possa realmente servire all’essere umano esso deve essere vissuto in un atmosfera di gioia e di pace soprattutto nell’ambito familiare. Per questo i nostri Maestri stabilirono che in ogni casa ebraica dovessero essere accesi alla vigilia dello Shabbàt alcuni lumi, la cui luce aiuta in modo fondamentale a trascorrere con felicità la santità di questo giorno. Il Talmùd (Shabbàt 25b) ritiene infatti che il buio rattristi l’animo umano, e la tristezza porta spesso alla rabbia e alla violenza a tal punto che in un’abitazione priva di luce non vi può regnare una vera pace e il vero rispetto tra le persone. Diversa è invece l’atmosfera che si crea in una casa luminosa, soprattutto quando la luce che si trova in essa è la luce naturale che scaturisce dai lumi accesi apposta per lo Shabbàt, una luce che emana calore e che è diversa dalla luce fornita dall’elettricità alla quale l’uomo si è ormai abituato.
I lumi dello Shabbàt ci donano così non solo la gioia della luce ma anche il modo per valorizzare la natura che spesso l’uomo, con le proprie invenzioni, non riesce veramente ad apprezzare. È dunque ovvio che il compito dell’accensione dei lumi spetti soprattutto alla donna. È la donna, infatti, che più dell’uomo, si adopera per abbellire la casa per lo Shabbàt ed è soprattutto lei che rende gioioso tale giorno preparando i cibi e gli abiti affinché i familiari vivano la sua santità nella giusta maniera, ed è perciò alla donna che viene dato l’onore di completare la sua opera attraverso l’accensione delle neròt Shabbàt.
L’accensione dei lumi dello Shabbàt, oltre che un motivo pratico, acquista anche un valore simbolico. Secondo la tradizione ebraica, dopo il peccato commesso da Adàm alla vigilia del primo Shabbàt della storia il Signore decise di diminuire gran parte dell’intensità della luce primordiale, e di conservare per l’epoca messianica quanto era stato da essa tolto.
Ma i Maestri del Midràsh ritengono che per amore e per rispetto dello Shabbàt la vera luce creata da Dio rimase nel mondo fino al termine di tale giorno e che solo allora il Creato conobbe la tristezza dell’oscurità.
Attraverso l’accensione dei lumi ogni venerdì sera si vuole così ricordare che fu proprio grazie allo Shabbàt che la luce continuò ad illuminare il mondo e che il creato intero può trovare la forza di esistere e di svilupparsi solo se l’uomo saprà vivere i valori fondamentali racchiusi nello Shabbàt.
Inoltre, secondo l’insegnamento dei Maestri, ancora oggi una parte del calore che emanava dalla luce che Dio tolse all’umanità ritorna nell’animo dell’ebreo ogni venerdì sera, per permettergli di assaporare almeno per un giorno alla settimana una piccola parte della vera beatitudine che il Creatore riservò per il mondo futuro. L’accensione dei lumi simboleggia così anche quella luce che si trova dentro ognuno di noi e che ci accompagna per tutto lo Shabbàt.
La prossima volta che tornerà in Israele, non esiti a visitare Zfat o Tsfat o Safed: è una cittadina meravigliosa ci sono molti artisti anche e i religiosi non fanno male a nessuno, è stata ed è una città mistica per l’ebraismo. Nel 1929 gli arabi massacrarono 20 cittadini ebrei di Safed spinti dalle parole del gran muftì di Gerusalemme Al Husseini, amico fraterno di Hitler e Mussolini
grazie degli approfondimenti.
Confesso che, pure ritenendomi mediamente abbastanza informato sulle cose del mondo, non avevo sentito di questo soldato. Può facilmente spiegarselo con la considerazione che, dei tanti troppi fatti da cui siamo quotidianamente assaliti, ciascuno di noi dà rilievo, e ne ricorda, solo alcuni, in base agli interessi alle emozioni al modo di essere di ciascuno.
a disposizione 🙂