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Anna Karenina (Lev Tolstoi)

Ce l’ho fatta, a leggerlo. Tante volte avevo pensato di farlo, sempre avevo desistito, fondamentalmente per un pregiudizio rispetto ai “russi pallosi”.

Ho letto poco dei russi: il Dostoevskij di Delitto e castigo e di Memorie dal sottosuolo, il Tolstoi de La morte di Ivan Il’ič, niente altro.

In comune hanno, mi pare, lo scavare fin nelle pieghe più profonde delle contraddizioni umane.

Oggi – più volte celebrata la “fine del romanzo” – uno scrittore tende a far partecipare il lettore alla costruzione delle personalità dei personaggi che propone, cerca di far dedurre il sentire dalle azioni, dai tic, dai dialoghi, difficilmente “racconta” direttamente i sentimenti che attraversano e avvolgono e sconvolgono i protagonisti.

Questo fa Tolstoi. Sarà pure un modo datato di scrivere, resta appassionante dopo quasi centocinquant’anni.

Alcune pagine, anche di personaggi minori, restano memorabili: in due pagine si passa dall’avvicinamento di un uomo e una donna che passeggiano soli ed entrambi sanno che adesso o mai più e quando è quasi adesso basta una banale interruzione esterna per passare al mai più. Nella pace di entrambi, che si stavano avventurando dove non erano certi di potercela fare.

Anna Karenina, invece, e Vronskij, si buttano nell’adesso, lo vivono a dispetto delle convenzioni e delle convenienze. La fragilità di Anna, che ad un certo punto le fa ingigantire all’iperbole alcuni timori sull’amato, la porterà al suicidio, devastando le vite intorno.

Il mondo dei nobili russi fra Mosca e Pietroburgo, fatto di salotti, maldicenze, piccoli intrighi, fidanzamenti, amanti, non sembra tanto diverso da quello della Vienna di Joseph Roth, anche per la totale indifferenza rispetto alle montagne di debiti da cui tanti sono sommersi e dai quali prima o poi saranno travolti.

Ciò che mi ha colpito di più e – non so bene come dirlo, trattandosi di un capolavoro univeralmente riconosciuto – convinto di meno, sono stati i passaggi bruschi, come moti dell’animo del tutto incontrollabili, che quasi ogni personaggio mostra, dagli abissi alle stelle, o viceversa, e poi in direzione opposta. Senza che fattori esterni li provochino, come se l’animo umano (russo?) fosse incapace di autodeterminarsi e preda di un determinismo incontrollabile.

Alcune vicende “di coppia” sono gustose per quanto ancora attualissime, come quando lui vorrebbe andare da una parte ma non ci va perchè a lei dispiacerebbe e però cova risentimento anche se lei lo ha espressamente “autorizzato”, e infine decide di andare ed ora è lei a covare risentimento perchè è vero che gli ho detto che mi avrebbe fatto piacere visto che a lui faceva piacere ma lui avrebbe dovuto capire che mi sarebbe mancato e ne avrei sofferto.

Cos’altro? Levin attaccato alla terra e alla concretezza, incapace di dominarsi e mantenere le buone maniere verso un giovane che esprime educati apprezzamenti verso la moglie Kitty appena – e faticosamente – conquistata. E poi si pente di aver dubitato e le chiede perdono piangente e il giorno dopo caccia di casa il giovane.

“Dal canto suo, nonostante quanto aveva desiderato fosse diventato realtà in ogni sua piega, Vronskij non avrebbe potuto dirsi del tutto felice… e si scopriva a comprendere quanto sbaglia chi confida che la felicità venga, appunto, dall’avverarsi dei desideri.”

Sonata a Kreutzer (Lev Tolstoi)

Chi non ha, almeno una volta nella vita, sognato di uccidere la moglie (o il marito, fidanzato/a, etc)? Magari ne ha solo desiderato la morte, per non dover prendere la decisione di lasciarlo/a?

Sonata a Kreutzer è la storia di un uxoricidio effettivo raccontato dall’assassino – assolto perchè il tribunale riconoscerà che aveva agito per motivi di onore – ad un passeggero incontrato casualmente in treno.

Ho letto abbastanza sconcertato: tutta la prima parte è un concentrato di luoghi comuni sul matrimonio tomba dell’amore e sulla misogenia: “…chi fa la prostituta per un periodo di tempo limitato viene disprezzata da tutti, e chi lo fa per periodi più lunghi gode del massimo rispetto.” Vero è che non conosco i costumi russi del periodo, e quindi non sono in grado di valutare se quelli che oggi mi appaiono luoghi comuni allora potessero essere letti come concetti  avanzati.

Un primo effetto, comunque, è un sospiro di sollievo: un po’ di strada verso un mondo più civile l’abbiamo fatta. Poi mi è venuto un dubbio: forse Tolstoi non si identifica con il protagonista, e lo vuole ridicolizzare. Dal tono dell’insieme mi pare poco probabile, e l’impressione che mi resta è quella di un alter ego che sfoga nella scrittura ciò che non mette in pratica per motivi morali, sociali o che so io.

Dunque, la prima parte è la descrizione dei disastri del matrimonio.

Nella seconda, inopinatamente, irrompe invece una gelosia – che a me pare tanto irragionevole quanto lontano affettivamente il protagonosta si sente dalla moglie – che porterà alla tragedia finale. Tale irragionevolezza mi ha fatto considerare l’ipotesi che il tema del racconto sia non tanto la donna e il matrimonio quanto dove possono portare sentimenti non controllati dalla ragione.

Forse in queste diverse, tutte possibili chiavi di lettura, sta la grandezza del racconto, che mi sono goduto anche per alcuni particolari perfidi, come, nelle pagine finali: la preoccupazione del marito assassino, mentre sta sventrando la moglie, di non risultare ridicolo se corresse dietro al rivale a piedi scalzi e, poco dopo, mentre medita se usare contro di se la pistola, l’attenzione ad infilarsi almeno le pantofole quando lo avvertono che la polizia sta arrivando.  

Racconti di Cechov

Finito di leggere Le Carrè, privo stavolta di quel piccolo capitale di libri nuovi che di solito mantengo e reintegro a mano a mano, mi aggiro per  le mensole e scovo una raccolta (con Repubblica di qualche anno fa) di racconti di Cechov.

Confesso la mia difficoltà con i russi: Memorie del sottosuolo e Delitto e castigo letti di recente, La morte di Ivan Il’ic… mi pare nient’altro. Il ricordo che ne ho, soprattutto per  Dostoevskij, è di pesantezza per questa libidine di scavo interiore e per il moralismo di fondo che mi è sembrato di percepire.

Cechov è stato invece una bella scoperta: distacco pur nella partecipazione alle vicende dei personaggi, comunque mai giudicati, leggerezza di scrittura, finali a sospensione.

Perciò, ho scovato “Il gabbiano” – regia per la tv di Bellocchio – e presto me lo guarderò.